venerdì 3 ottobre 2025

IL PIANO PER GAZA

 


Dal genocidio 

al 

neocolonialismo

 



 -         di Giuseppe Savagnone 

Un giorno storico

«Tutto si sta risolvendo. Oggi è un giorno storico per la pace. Con Netanyahu abbiamo parlato di come porre fine alla guerra a Gaza nel quadro più grande di una pace eterna nel Medio Oriente». Con queste le parole il presidente americano Trump ha iniziato la conferenza stampa congiunta con il premier israeliano Netanyahu, in cui ha enunciato i venti punti del suo piano per la pace a Gaza.

E le reazioni internazionali hanno confermato il suo ottimismo. Il piano ha riscosso l’unanime approvazione dei governi di tutto il mondo.  In particolare, i leader europei, da Ursula von der Leyen a Emmanuel Macron, che ultimamente erano apparsi piuttosto critici verso politica di Israele nella Striscia, hanno reagito positivamente a quella che hanno considerato, per usare le parole della presidente, un passo importante verso «la soluzione dei due Stati», che rimane, a loro avviso, «l’unica strada percorribile per una pace giusta e duratura».

Entusiasta la reazione del governo italiano. La premier Giorgia Meloni ha ringraziato Trump «per il lavoro di mediazione e i suoi sforzi per portare la pace in Medio Oriente. L’Italia esorta quindi tutte le parti a cogliere questa opportunità e ad accettare il Piano». Da parte sua, il vice-premier Matteo Salvini ha definito la notizia «splendida», avvertendo che «nessuno deve sabotare questo accordo prezioso».

Meloni non ha fatto altro che esprimere l’opinione comune in questo momento: grazie a Trump – ancora più convinto, adesso, di meritare il premio Nobel per la pace – si è arrivati finalmente a un accordo giusto e ragionevole che può porre fine a tante sofferenze di innocenti e  la responsabilità di ratificarlo o respingerlo ricade ora solo su Hamas.

Accordo o ultimatum unilaterale?

Qualche dubbio, però, non può non emergere se si guarda con un po’ di attenzione quello che sta accadendo. A cominciare da ciò che Meloni ha definito, in un primo commento, «mediazione» e, in una successiva dichiarazione, «accordo per la pace», dandone il merito al presidente americano. “Mediazione” e “accordo” tra chi? Manca la controparte.

Non è stato Hamas, che pure lo è nella realtà e il cui assenso, infatti, è riconosciuto dallo stesso Trump decisivo. Non è stato neppure l’Autorità Nazionale Palestinese, che pure, a differenza di Hamas, riconosce Israele.

Ma anche questa legittima rappresentanza del popolo palestinese non è riconosciuta, a sua volta, dal governo di Tel Aviv ed è guardata con diffidenza da quello di Washington, che pochi giorni fa ha addirittura negato ai suoi rappresentanti il visto per entrare negli Stati Uniti e partecipare, come avrebbe pieno diritto di fare, all’Assemblea dell’ONU.

Nessuna meraviglia che non sia stata invitata, non dico per discutere il piano, ma almeno per esprimere le esigenze del popolo di cui esso definisce il futuro.

Le parole della nostra premier e di quanti, nel mondo occidentale, le ripetono, sono dunque  una finzione linguistica per coprire il fatto che siamo davanti a un progetto scritto sulla testa degli interessati, senza neppure ascoltarli, e costruito in base ai loro progetti.

Che già, peraltro, essi avevano espresso senza mezzi termini fin dalla precedente conferenza-stampa congiunta, tenuta all’indomani dell’insediamento del Tychoon alla Casa Bianca, in cui avevano annunciato il proposito di trasformare la Striscia di Gaza in un resort di lusso.

Un progetto che ora, pur con qualche importante modifica (non si parla più di deportazione in massa degli abitanti della Striscia), è in fondo ripreso nel piano  presentato ora, dopo qualche mese.

Adesso questo proposito si è trasformato in un vero e proprio ultimatum, rivolto certamente ad Hamas, ma in definitiva al popolo palestinese: se non ci si piegherà al diktat unilaterale di Stati Uniti e Israele, sarà l’inferno, e non solo per i terroristi, ma prima di tutto per la popolazione civile, anche se è difficile immaginare qualcosa di peggio di quello che  ha  già dovuto subire.

Il fantomatico “Stato palestinese”

Una seconda perplessità (per usare un eufemismo) nasce dal fatto che i soli garanti della corretta realizzazione dei venti punti elencati nel piano saranno i suoi stesi autori, Trump e Netanyahu.

Quest’ultimo, proprio per la sua politica verso Gaza, è stato giudicato colpevole, dalla Corte Penale Internazionale, di «crimini contro l’umanità» e di recente è stato accusato, da una Commissione indipendente dell’ONU e da autorevoli intellettuali – anche ebrei e israeliani, come David Grossmann –  di essere responsabile di genocidio.

Quanto a Trump, si è sempre senza riserve schierato dalla sua parte, fino al punto di perseguitare con pesantissime sanzioni chiunque avallasse quelle accuse, dai giudici della stessa Corte alla relatrice dell’ONU per Gaza Francesca Albanese.

A questi due personaggi, ufficialmente nemici del popolo palestinese, non solo si deve l’ideazione del piano sull’assetto da dare a questo popolo, ma è affidata anche  la sua applicazione. Ruolo tanto più delicato in quanto molti punti del piano stesso non contengono precisazioni cronologiche e lasciano indeterminato il futuro.

Primo fra tutti quello che ha spinto molti governi, fautori della soluzione dei “due Stati” ad accogliere con favore questo piano, la nascita, finalmente, di uno Stato palestinese.

La soluzione prevista è, in realtà,  che a governare Gaza sia  «un comitato tecnocratico e apolitico» composto da palestinesi qualificati ed esperti internazionali, con la supervisione di un nuovo organismo internazionale di transizione, il “Board of Peace”, che sarà presieduto dal Presidente Donald J. Trump, con altri membri e capi di Stato da decidere, tra cui l’ex Primo Ministro Tony Blair». (n.9).

Questo «fino a quando l’Autorità Nazionale Palestinese non avrà completato il suo programma di riforme (…) e potrà riprendere il controllo di Gaza in modo sicuro ed efficace» (ivi). Solo allora «potrebbero finalmente crearsi le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e lo Stato palestinese, che riconosciamo come l’aspirazione del popolo palestinese» (n.19).

Formule al condizionale, fortemente ipotetiche, e comunque aperte a qualunque possibile scadenza temporale. Chi deciderà quando le «condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e lo Stato palestinese‚» si saranno finalmente realizzate? Evidentemente non i palestinesi.

E poiché i promotori e i garanti del piano sono due nemici, acerrimi e dichiarati, dell’ipotesi stessa di uno Stato palestinese – «Non si farà mai!», ha gridato anche recentemente Netanyahu, approvato in pieno da Trump –  non è da maligni sospettare questo percorso, già ora rimandato a un lontano e ipotetico futuro,  non comincerà mai.

Come sembra confermare, del resto, il fatto che nel piano non si dice nemmeno una parola sul destino della Cisgiordania, la cui progressiva occupazione illegale da parte degli insediamenti israeliani, secondo l’ultima dichiarazione del ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich,  «seppellirà l’idea di uno Stato palestinese». A questi insediamenti il paino non prevede alcun freno, avallando tacitamente la prospettiva del ministro.

Ancora una volta siamo davanti a una evidente smentita delle commosse dichiarazioni diplomatiche che lo hanno salutato come una porta aperta verso il giusto riconoscimento della patria palestinese.

I tanti governanti che hanno detto questo o non avevano letto bene il testo, oppure non hanno visto l’ora di scaricarsi del  problema posto nell’opinione pubblica, dalle stragi in corso a Gaza, sacrificando la verità e la giustizia alla loro cessazione.

La rinascita del colonialismo

Nel frattempo, a governare la Striscia sarà il “Board of Peace”, «presieduto dal Presidente Donald J. Trump, con altri membri e capi di Stato da decidere, tra cui l’ex Primo Ministro Tony Blair» (n.9).

Vero è che nel piano si dice che «Israele non occuperà né annetterà Gaza» (n.16) e che, a differenza del progetto originario enunciato all’inizio di quest’anno da Trump e Netanyahu, essi assicurano nel testo attuale che «nessuno sarà costretto a lasciare Gaza, coloro che lo desiderano saranno liberi di farlo e di tornare», aggiungendo anzi: «Incoraggeremo le persone a rimanere e offriremo loro l’opportunità di costruire una Gaza migliore».

Ma non certo come cittadini liberi e indipendenti. Gli unici nomi menzionati  nell’organismo  destinato  al controllo del territorio palestinese sono quello del presidente americano e di un ex primo ministro inglese. Siamo in una logica che ha caratterizzato tutala storia del colonialismo: per il bene degli indigeni è meglio che siano gli occidentali a decidere al posto loro – come è stato nell’“accordo” che ha dato vita al piano – e a  esercitare il potere sulle loro terre.

Con quali intenti e con quale stile lo dice tutta la storia del colonialismo. Quel che in questo caso è certo è che l’ex premier Tony Blair – già noto per aver collaborato alla falsificazione delle prove portate dal presidente americano Bush per aggredire gratuitamente, nel 2003, l’Iraq – si è da tempo dato a una fiorente attività economica e finanziaria. E poiché Gaza è considerata oggi, per usare le parole del ministro Smotrich, «una miniera d’oro immobiliare», si delinea già la prospettiva di uno sfruttamento sistematico della Striscia da parte dei paesi occidentali e di Israele, che ne è stato, ne è e ancor più ne sarà il fido partner democratico nella barbare terre mediorientali.

E, in questa logica, potrà essere anche realizzata quella idea del resort di lusso da costruire sulle macerie, annunciata da Trump e Netanyahu nella loro prima conferenza stampa congiunta.

Ai palestinesi – a quelli che non sono morti di fame o per i bombardamenti – , visto che non avranno diritti politici, potrebbe essere affidato il compito di personale di servizio nella futura Gaza Betch.

Quanto al controllo militare, gli Stati Uniti collaboreranno con i partner arabi e internazionali per sviluppare una Forza Internazionale di Stabilizzazione (ISF) temporanea da dispiegare immediatamente a Gaza», a cui le truppe israeliane «cederanno progressivamente il territorio di Gaza che occupano» (n.16).

Resta, anche qui, indeterminato il momento di questo passaggio di consegne. E uno dei proponenti/garanti del piano, Netanyahu, ha già chiarito che «l’esercito israeliano resterà su gran parte della Striscia di Gaza». Come aveva sempre detto. Non sembra esagerato quello che ha scritto il «New York Times», secondo il quale, con questo patto, il premier israeliano ha avuto tutto ciò che voleva. Giusto premio per il genocidio compiuto.

 

www.tuttavia.eu 

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