venerdì 17 ottobre 2025

MORTI SENZA TOMBA

 


I morti senza tomba 

che non 

dobbiamo dimenticare

 

-         di  Giuseppe Savagnone 

 

«Seppellire i morti»

Ha assunto in questi giorni grande risalto – mettendo addirittura in forse la prima fase del piano di pace di Trump – la questione della mancata restituzione, da parte di Hamas, dei corpi di alcuni degli ostaggi israeliani non più in vita. 

I loro familiari, pur straziati dal dolore per non averli visti tornare a casa, vogliono a tutti i costi riaverli almeno morti, per poter dare loro- – è stato spiegato – «degna sepoltura».  

Un desiderio umanissimo, che non può non suscitare, al di là di tutte le considerazioni politiche e diplomatiche, la piena solidarietà di chiunque. Anche a chi non avesse presenti le testimonianze letterarie circa il ruolo delle tombe – si pensi a «I sepolcri» di Ugo Foscolo – è noto che esse hanno caratterizzato l’esperienza della nostra specie fin dalle sue più remote origini, segnando uno iato rispetto a quella delle altre, che, per quanto ne sappiamo, non si prendono particolare cura di seppellire e di onorare i loro morti.

E lo Stato ebraico ha preso sul serio la delusione di queste famiglie, fino al punto di bloccare per alcune ore la riapertura, appena avvenuta, del valico di Rafah, indispensabile per far finalmente accedere gli aiuti umanitari alla disperata popolazione palestinese. Anche se forse si potrebbe discutere la scelta di garantire il rispetto per i morti  i infierendo ulteriormente sui due milioni di vivi .

I corpi degli altri

Una perplessità che si accentua quando ci si chiede che ne sia stato, per contro,  dei corpi dei circa sessantacinquemila abitanti di Gaza che, secondo calcoli confermati da più parti  sono stati uccisi dopo il 7 ottobre. 

Anch’essi erano, nella stragrande maggioranza – l’83% –  innocenti civili. E la violenza che li ha uccisi non è stata meno spaventosa di quella che il 7 ottobre ha distrutto le vite degli israeliani.   

La giustificazione ufficiale, spesso ripetuta, del loro sacrificio è stata che essi erano utilizzati come scudi umani dai terroristi. La responsabilità della loro tragica morte  sarebbe dunque di Hamas, non dell’esercito israeliano, costretto a considerarli dolorosi “danni collaterali” nel suo impegno a colpire i propri obiettivi, sempre rigorosamente militari.

È stato in questa logica che sono stati bombardati e rasi al suolo ospedali, moschee, abitazioni civili, dietro cui, secondo il comando dell’Idf, si nascondevano centri di comando di Hamas.

Con la pretesa di rispettare, così il diritto internazionale, forse ignorando che esso vieta di colpire i civili, senza “se” e senza “ma.” 

In realtà – come ha recentemente fatto notare il direttore del quotidiano «La Stampa», Andrea Malaguti – , anche il buon senso si ribella all’idea che, per colpire un nemico – fosse pure colpevole dei peggiori crimini – si abbia il diritto di sterminare degli innocenti. Accetteremmo che venisse fatto saltare in aria un palazzo, con dentro tutti i suoi abitanti, per il lodevole scopo di eliminare un pericolosissimo mafioso che ci si è asserragliato?

A questo va aggiunto che il governo di Tel Aviv ha sempre escluso ogni verifica delle sue affermazioni  da parte di osservatori indipendenti e anche l’accesso dei giornalisti stranieri è stato rigorosamente vietato. Le informazioni sull’eccidio della povera gente di Gaza e soprattutto le immagini che ce le hanno fatte rivivere sono trapelate grazie ai reporter palestinesi, i quali hanno sfidato, a rischio della vita, il muro di silenzio eretto dei soldati israeliani, che infatti ne hanno uccisi, in due anni, ben 210 .

Ma le loro testimonianze sono state confermate dal giornale di Gerusalemme «Haasretz», che non esitato a denunciare la caccia scatenata in questi ultimi mesi dall’Idf agli inermi civili.

Dove sono stati sepolti questi morti? Molti sono rimasti sotto le macerie. E sembra siano assai più numerosi di quelli inclusi nei calcoli ufficiali. Di altri – moltissimi i bambini portati tra le braccia dalle loro madri e dai loro padri disperati – – abbiamo visto, nelle immagini della televisione, i corpi straziati, ma di funerali, di sepolture in cimiteri veri e propri, non abbiamo avuto il minimo indizio. E del resto le circostanze drammatiche in cui sono morti rendono molto improbabile che siano state possibili cerimonie funebri.

Tanto più che la maggior parte degli sventurati colpiti dal fuoco israeliano non si trovavano neppure nei loro villaggi, nei luoghi dove erano vissuti fino al 7 ottobre.

Da quel momento non hanno più avuto una dimora, perché una delle caratteristiche disumane dell’offensiva dell’Idf è stata quella di costringere la popolazione a continui spostamenti, con ordini perentori che intimavano di lasciare  le loro case e di spostarsi in luoghi più sicuri, poi a loro volta colpiti e quindi di nuovo abbandonati. In questo nomadismo è stato inevitabile abbandonare i morti per cercare di salvare i vivi.

Ma di questi corpi senza tomba, o con tombe improvvisate, nessuno parla. Come se l’opera di misericordia di seppellire i morti – raccomandata anche dal cristianesimo, ma conosciuta da tutte le società umane – non valesse per i gazawi, ma solo per gli israeliani.

Un massacro cancellato

In realtà, nella solenne cerimonia della firma della pace, nessuno ha parlato neppure del  massacro di cui questi uomini, queste donne, questi bambini, sono stati vittime.  «Una carneficina», l’ha definita il segretario di Stato vaticano Parolin.  Un termine più tecnico ha usato la Commissione indipendente dell’ONU, che, al termine di un’accurata inchiesta, ha parlato esplicitamente di «genocidio».  Ma già prima la Corte Penale Internazionale aveva emesso un mandato di cattura nei confronti del presidente israeliano Netanyahu e del suo ministro della guerra per «crimini contro l’umanità».

Tutto questo sembra essere stato di colpo cancellato dall’entusiasmo collettivo per una pace a cui tutti anelavano, anche a prezzo di rinunciare – col solito doppio standard usato in questi anni rispetto alla guerra in Ucraina – alla precisazione che una pace è veramente tale solo se è giusta. E la giustizia non è compatibile con la rimozione della memoria.

Il silenzio sui corpi massacrati dei palestinesi – reso più assordante dal grido di dolore e di rabbia per la mancata restituzione di quelli degli ostaggi morti – è stato in realtà silenzio sulle colpe di chi ha provocato, compiuto e permesso questo genocidio. 

Perché di esso, a Sharm el Sheikh, non si è detta neppure una parola. Già in sé era problematica la passerella di capi di governo occidentali (compresa la nostra premier, che ha molto tenuto ad essere invitata), convocati da Trump senza altro ruolo che quello, ridicolo e umiliante per loro, di fare da cornice alla sua auto-celebrazione e di avallare con la loro presenza il valore storico di una pace a cui non avevano contribuito e della cui fragilità si sono avuti i primi i segnali dopo appena due giorni.  

Ma l’assenza di un qualsiasi cenno al massacro che si è prolungato per due anni e alle responsabilità non solo degli assenti – Hamas, che l’ha provocato, e Netanyahu che ne è stato il diretto autore  – ma anche dei presenti, incapaci (con la sola eccezione della Spagna) di muovere un dito per fermarlo, e anzi, in modi diversi, attivi sostenitori del governo israeliano, ha dato a questo spettacolo mediatico il significato di un colpo di spugna sul passato.

La riscrittura della storia e il dovere della memoria

Contemporaneamente è cominciata una campagna per riscrivere la storia di questo passato. Come nel romanzo 1984, di Orwell. Così sta accadendo in Italia. 

Emblematica la presa di posizione di Incoronata Boccia – ex vicedirettrice del Tg1 e attualmente a capo dell’ufficio stampa della Rai –  che, intervenendo a un convegno sul 7 ottobre promosso dall’Unione delle comunità ebraiche italiane, ha dichiarato: «Si è parlato spesso del cinismo e della spietatezza dell’esercito israeliano, eppure non esiste una sola prova che siano state sventagliate delle mitragliate contro civili inermi. Eppure questo veniva raccontato, questo è stato detto senza alcuna verifica delle fonti. Vergogna, vergogna, vergogna, lo affermo tre volte».

Poi ha parlato di Hamas come dell’organizzatrice di questa gigantesca fake news: «La vogliamo candidare all’Oscar per la miglior regia a cui noi giornalisti ci siamo piegati senza alcuno spirito critico? Sono stati allestiti set, ci sono state delle immagini, delle inchieste, che hanno provato che quella informazione era propaganda».

Boccia non ha precisato quali siano queste inchieste. Tanto meno ha spiegato come mai lo stesso Trump abbia affermato, già nella sua prima conferenza stampa con Netanyahu, nel febbraio scorso, che «Gaza è un inferno, nessuno ci vuole vivere», perché si tratta ormai di «un luogo distrutto». Anche lui complice del complotto antisemita che accusa Israele di colpe non commesse?

Forse, a davanti a queste evidenze, a vergognarsi non dovrebbero essere i giornalisti che ne hanno semplicemente preso atto, ma proprio Incoronata Boccia. Che però – questo è il problema – non è una voce qualsiasi, ma la responsabile dell’ufficio stampa del servizio pubblico della Rai.

Ma non è la sola. Nello stesso convegno Mario Sechi, ex portavoce della premier e direttore di «Libero», ha contestato le accuse – ampiamente documentate da mille immagini televisive, da tutte le organizzazioni umanitarie e perfino da soldati dell’esercito israeliano – di ave affamato il popolo palestinese: «A Gaza – ha detto, con un sarcasmo che a lui e al suo pubblico forse è sembrato spiritoso –  non ne ho visti tanti dimagriti…»

E del resto già i giornali di destra avevano pienamente avallato la tesi esposta all’ONU, nell’Assemblea del 25 settembre scorso, da Netanyahu, secondo cui a Gaza non c’era fame e il solo problema era creato da Hamas, che sequestrava gli approvvigionamenti forniti largamente da Israele. Una tesi smentita clamorosamente proprio dal piano Trump, che prevede lo sblocco, da parte di Israele, del valico di Rafah, attraverso cui dovrebbero passare gli aiuti umanitari.

Siamo solo all’inizio di un’operazione di rimozione che – con la complicità di un meccanismo mediatico condannato a inseguire l’attualità per garantirsi l’audience  – dei 65.000 morti  senza tomba di Gaza parlerà sempre meno fino a negarne presto perfino l’esistenza. 

Molti di questi corpi resteranno per sempre sotto le macerie su cui verrà edificato il resort di lusso auspicato da Trump. 

Non saranno certo i governi a coltivare una memoria che grida contro di loro. Sta a noi mantenere vivo il ricordo di queste migliaia di uomini, donne, bambini, assassinati in nome della civiltà e della democrazia. 

Le persone comuni, soprattutto i giovani, che hanno sfilato nei cortei chiedendo la fine del massacro, devono adesso assumersi un compito più difficile: quello di non dimenticare. Non potendo dare loro una vera sepoltura, sarà questo il solo modo che ci rimane per onorare quei morti.

 

www.tuttavia.eu

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