che non
dobbiamo dimenticare
-
di Giuseppe
Savagnone
«Seppellire
i morti»
Ha
assunto in questi giorni grande risalto – mettendo addirittura in forse la
prima fase del piano di pace di Trump – la questione della mancata
restituzione, da parte di Hamas, dei corpi di alcuni degli ostaggi israeliani
non più in vita.
I
loro familiari, pur straziati dal dolore per non averli visti tornare a casa,
vogliono a tutti i costi riaverli almeno morti, per poter dare loro- – è stato
spiegato – «degna sepoltura».
Un
desiderio umanissimo, che non può non suscitare, al di là di tutte le
considerazioni politiche e diplomatiche, la piena solidarietà di chiunque.
Anche a chi non avesse presenti le testimonianze letterarie circa il ruolo
delle tombe – si pensi a «I sepolcri» di Ugo Foscolo – è noto che esse
hanno caratterizzato l’esperienza della nostra specie fin dalle sue più
remote origini, segnando uno iato rispetto a quella delle altre, che, per
quanto ne sappiamo, non si prendono particolare cura di seppellire e di onorare
i loro morti.
E
lo Stato ebraico ha preso sul serio la delusione di queste famiglie, fino al
punto di bloccare per alcune ore la riapertura, appena avvenuta, del valico di
Rafah, indispensabile per far finalmente accedere gli aiuti umanitari alla
disperata popolazione palestinese. Anche se forse si potrebbe discutere la
scelta di garantire il rispetto per i morti i
infierendo ulteriormente sui due milioni di vivi .
I
corpi degli altri
Una
perplessità che si accentua quando ci si chiede che ne sia stato, per contro,
dei corpi dei circa sessantacinquemila abitanti di Gaza che, secondo
calcoli confermati da più parti sono stati uccisi dopo il 7
ottobre.
Anch’essi
erano, nella stragrande maggioranza – l’83% – innocenti civili. E la
violenza che li ha uccisi non è stata meno spaventosa di quella che il 7
ottobre ha distrutto le vite degli israeliani.
La
giustificazione ufficiale, spesso ripetuta, del loro sacrificio è stata
che essi erano utilizzati come scudi umani dai terroristi. La responsabilità
della loro tragica morte sarebbe dunque di Hamas, non dell’esercito
israeliano, costretto a considerarli dolorosi “danni collaterali” nel suo
impegno a colpire i propri obiettivi, sempre rigorosamente militari.
È
stato in questa logica che sono stati bombardati e rasi al suolo ospedali,
moschee, abitazioni civili, dietro cui, secondo il comando dell’Idf, si
nascondevano centri di comando di Hamas.
Con
la pretesa di rispettare, così il diritto internazionale, forse ignorando che
esso vieta di colpire i civili, senza “se” e senza “ma.”
In
realtà – come ha recentemente fatto notare il direttore del quotidiano «La
Stampa», Andrea Malaguti – , anche il buon senso si ribella all’idea che,
per colpire un nemico – fosse pure colpevole dei peggiori crimini – si abbia il
diritto di sterminare degli innocenti. Accetteremmo che venisse fatto
saltare in aria un palazzo, con dentro tutti i suoi abitanti, per il lodevole
scopo di eliminare un pericolosissimo mafioso che ci si è asserragliato?
A
questo va aggiunto che il governo di Tel Aviv ha sempre escluso ogni
verifica delle sue affermazioni da parte di osservatori indipendenti e
anche l’accesso dei giornalisti stranieri è stato rigorosamente vietato. Le
informazioni sull’eccidio della povera gente di Gaza e soprattutto le immagini
che ce le hanno fatte rivivere sono trapelate grazie ai reporter palestinesi, i
quali hanno sfidato, a rischio della vita, il muro di silenzio eretto dei
soldati israeliani, che infatti ne hanno uccisi, in due anni, ben 210 .
Ma
le loro testimonianze sono state confermate dal giornale di Gerusalemme
«Haasretz», che non esitato a denunciare la caccia scatenata in questi ultimi
mesi dall’Idf agli inermi civili.
Dove
sono stati sepolti questi morti? Molti sono rimasti sotto le macerie. E sembra
siano assai più numerosi di quelli inclusi nei calcoli ufficiali. Di altri
– moltissimi i bambini portati tra le braccia dalle loro madri e dai loro padri
disperati – – abbiamo visto, nelle immagini della televisione, i corpi
straziati, ma di funerali, di sepolture in cimiteri veri e propri, non abbiamo
avuto il minimo indizio. E del resto le circostanze drammatiche in cui
sono morti rendono molto improbabile che siano state possibili cerimonie
funebri.
Tanto
più che la maggior parte degli sventurati colpiti dal fuoco israeliano non
si trovavano neppure nei loro villaggi, nei luoghi dove erano vissuti fino al 7
ottobre.
Da
quel momento non hanno più avuto una dimora, perché una delle caratteristiche
disumane dell’offensiva dell’Idf è stata quella di costringere la popolazione a
continui spostamenti, con ordini perentori che intimavano di lasciare le
loro case e di spostarsi in luoghi più sicuri, poi a loro volta colpiti e
quindi di nuovo abbandonati. In questo nomadismo è stato inevitabile
abbandonare i morti per cercare di salvare i vivi.
Ma
di questi corpi senza tomba, o con tombe improvvisate, nessuno parla. Come
se l’opera di misericordia di seppellire i morti – raccomandata anche dal
cristianesimo, ma conosciuta da tutte le società umane – non valesse per i
gazawi, ma solo per gli israeliani.
Un
massacro cancellato
In
realtà, nella solenne cerimonia della firma della pace, nessuno ha parlato
neppure del massacro di cui questi uomini, queste donne, questi bambini,
sono stati vittime. «Una carneficina», l’ha definita il segretario di
Stato vaticano Parolin. Un termine più tecnico ha usato la Commissione
indipendente dell’ONU, che, al termine di un’accurata inchiesta, ha parlato
esplicitamente di «genocidio». Ma già prima la Corte Penale
Internazionale aveva emesso un mandato di cattura nei confronti del presidente
israeliano Netanyahu e del suo ministro della guerra per «crimini contro
l’umanità».
Tutto
questo sembra essere stato di colpo cancellato dall’entusiasmo collettivo per
una pace a cui tutti anelavano, anche a prezzo di rinunciare – col solito
doppio standard usato in questi anni rispetto alla guerra in Ucraina – alla
precisazione che una pace è veramente tale solo se è giusta. E la giustizia non
è compatibile con la rimozione della memoria.
Il
silenzio sui corpi massacrati dei palestinesi – reso più assordante dal grido
di dolore e di rabbia per la mancata restituzione di quelli degli ostaggi
morti – è stato in realtà silenzio sulle colpe di chi ha provocato, compiuto e
permesso questo genocidio.
Perché
di esso, a Sharm el Sheikh, non si è detta neppure una parola. Già in sé era
problematica la passerella di capi di governo occidentali (compresa la
nostra premier, che ha molto tenuto ad essere invitata), convocati da Trump
senza altro ruolo che quello, ridicolo e umiliante per loro, di fare da cornice
alla sua auto-celebrazione e di avallare con la loro presenza il valore storico
di una pace a cui non avevano contribuito e della cui fragilità si sono
avuti i primi i segnali dopo appena due giorni.
Ma
l’assenza di un qualsiasi cenno al massacro che si è prolungato per
due anni e alle responsabilità non solo degli assenti – Hamas, che l’ha
provocato, e Netanyahu che ne è stato il diretto autore – ma anche dei
presenti, incapaci (con la sola eccezione della Spagna) di muovere un dito per
fermarlo, e anzi, in modi diversi, attivi sostenitori del governo israeliano,
ha dato a questo spettacolo mediatico il significato di un colpo di spugna sul
passato.
La
riscrittura della storia e il dovere della memoria
Contemporaneamente
è cominciata una campagna per riscrivere la storia di questo passato. Come
nel romanzo 1984, di Orwell. Così sta accadendo in Italia.
Emblematica
la presa di posizione di Incoronata Boccia – ex vicedirettrice del Tg1 e
attualmente a capo dell’ufficio stampa della Rai – che,
intervenendo a un convegno sul 7 ottobre promosso dall’Unione delle comunità
ebraiche italiane, ha dichiarato: «Si è parlato spesso del cinismo e della
spietatezza dell’esercito israeliano, eppure non esiste una sola
prova che siano state sventagliate delle mitragliate contro civili inermi.
Eppure questo veniva raccontato, questo è stato detto senza alcuna
verifica delle fonti. Vergogna, vergogna, vergogna, lo affermo tre volte».
Poi
ha parlato di Hamas come dell’organizzatrice di questa gigantesca fake news:
«La vogliamo candidare all’Oscar per la miglior regia a cui noi
giornalisti ci siamo piegati senza alcuno spirito critico? Sono
stati allestiti set, ci sono state delle immagini, delle inchieste, che
hanno provato che quella informazione era propaganda».
Boccia
non ha precisato quali siano queste inchieste. Tanto meno ha spiegato come
mai lo stesso Trump abbia affermato, già nella sua prima conferenza stampa con
Netanyahu, nel febbraio scorso, che «Gaza è un inferno, nessuno ci vuole
vivere», perché si tratta ormai di «un luogo distrutto». Anche lui
complice del complotto antisemita che accusa Israele di colpe non commesse?
Forse,
a davanti a queste evidenze, a vergognarsi non dovrebbero essere i giornalisti
che ne hanno semplicemente preso atto, ma proprio Incoronata Boccia. Che
però – questo è il problema – non è una voce qualsiasi, ma la responsabile
dell’ufficio stampa del servizio pubblico della Rai.
Ma
non è la sola. Nello stesso convegno Mario Sechi, ex portavoce della
premier e direttore di «Libero», ha contestato le accuse – ampiamente
documentate da mille immagini televisive, da tutte le organizzazioni umanitarie
e perfino da soldati dell’esercito israeliano – di ave affamato il popolo
palestinese: «A Gaza – ha detto, con un sarcasmo che a lui e al suo
pubblico forse è sembrato spiritoso – non ne ho visti tanti dimagriti…»
E
del resto già i giornali di destra avevano pienamente avallato la tesi esposta
all’ONU, nell’Assemblea del 25 settembre scorso, da Netanyahu, secondo cui a
Gaza non c’era fame e il solo problema era creato da Hamas, che sequestrava gli
approvvigionamenti forniti largamente da Israele. Una tesi smentita
clamorosamente proprio dal piano Trump, che prevede lo sblocco, da parte di
Israele, del valico di Rafah, attraverso cui dovrebbero passare gli aiuti
umanitari.
Siamo
solo all’inizio di un’operazione di rimozione che – con la complicità di
un meccanismo mediatico condannato a inseguire l’attualità per garantirsi
l’audience – dei 65.000 morti senza tomba di Gaza parlerà sempre
meno fino a negarne presto perfino l’esistenza.
Molti
di questi corpi resteranno per sempre sotto le macerie su cui verrà edificato
il resort di lusso auspicato da Trump.
Non
saranno certo i governi a coltivare una memoria che grida contro di
loro. Sta a noi mantenere vivo il ricordo di queste migliaia di uomini,
donne, bambini, assassinati in nome della civiltà e della democrazia.
Le
persone comuni, soprattutto i giovani, che hanno sfilato nei cortei chiedendo
la fine del massacro, devono adesso assumersi un compito più difficile: quello
di non dimenticare. Non potendo dare loro una vera sepoltura, sarà questo il
solo modo che ci rimane per onorare quei morti.
Nessun commento:
Posta un commento