Ho chiesto ai miei studenti la loro paura più grande. La maggioranza ha risposto: rimanere soli. Un timore connaturato all’uomo, ma che stupisce nell’epoca della condivisione costante. Sebbene iper-connessi siamo iper-slegati, e “social” non è sinonimo di relazione significativa ma di solitudine di massa. E questo perché l’unico modo per non sentirsi soli è il riconoscimento della propria unicità: volersi ed essere voluti al mondo come si è. Se ciò non accade non dipende dai social ma dalle relazioni primarie (personali, familiari, amicali). L’onlife, come Luciano Floridi (La quarta rivoluzione) definisce l’identità oggi, si sposta fuori dalla vita spirituale che è il luogo dell’amarsi e del sentirsi amati, e si affida a rappresentazioni (“Chi sono per te?” diventa “Chi sono online?”).
Ma
se ad essere amata è la rappresentazione di me e
non io, allora ci si sente soli anche in mezzo alla folla (o ai follower). Il
concetto di auto-stima, oggi tanto diffuso, è l’ingannevole correttivo di
questa mascherata, perché non può auto-amarsi chi non si sente amato, e non
esiste doping spirituale per una identità relazionale come quella umana: l’io
nasce e rinasce da un tu che ci fa sentire voluti. I social non possono darci
l’amore, perché non arrivano al sé, possono darcene l’impressione, ma amata è
la post-produzione che facciamo di noi, non noi. Figuriamoci per un ragazzo che
sta cercando di dare alla luce il sé autentico e viene invece allenato a farsi
“un profilo, cioè a identificarsi con l’ego voluto dal mondo. Questo alimenta
la paura della solitudine. Che fare?
Il
sé è una nascita graduale che richiede parti dolorosi. Quando
mi è capitato di perdermi, sono riuscito a dare alla luce un sé più autentico
solo rinunciando alle rappresentazioni rassicuranti dell’ego, compromessi
d’amore che amore non erano, e ci sono riuscito grazie alla forza ricevuta da
persone che non amavano quelle rappresentazioni, ma me: mi vogliono bene “a
prescindere”, cioè per loro è un bene che io ci sia, a prescindere da cosa io
rappresenti.
Ci
accade come nel Cyrano de Bergerac di Rostand in
cui il protagonista, innamorato di Rossana, non ha il coraggio di dichiararsi a
causa della bruttezza del suo volto deturpato da un naso gigantesco, e si
limita a prestare le parole del corteggiamento al giovane spasimante di lei,
Cristiano, bello quanto vuoto. Cristiano è come il profilo social di Cyrano. A
un certo punto Cyrano, nella scena memorabile in cui, nascosto, detta le parole
d’amore a Cristiano, fa chiedere alla donna: “Mi ameresti anche se fossi
orrendo?”. Tradotto: anche se fossi me stesso?
Ecco
il punto: i ragazzi oggi hanno bisogno più che mai di
sapere se c’è qualcuno che li ama (li vuole al mondo, si impegna per il loro
esserci) così come sono e non così come il mondo li vuole. A quell’età poi ci
si sente brutti non tanto o non solo per l’aspetto fisico in trasformazione, ma
perché, messi da parte i genitori, ci si scopre “soli”, cioè unici, ma si teme
che questa unicità non interessi a nessuno là fuori. E così si cerca
approvazione (non amore) ovunque, anche a costo di vendersi, tradirsi,
nascondersi. La paura di rimanere soli non è la paura di non trovare qualcuno,
ma di non essere “belli” abbastanza perché qualcuno ami proprio noi, anche
perché l’unicità, scambiata per “farsi vedere”, è fatta proprio di ciò che
nascondiamo: i nostri limiti. In una cultura della performance, auto-promozione
e post-produzione di se stessi, si teme di non essere amabili e farsi amare
diventa un lavoro. Tutti i ragazzi sono generati biologicamente ma pochi
spiritualmente, cioè non riescono a contattare il sé, quel nucleo della persona
che non è frutto di costruzioni, prestazioni, risultati, ma che si scopre e si
abita se è amato gratuitamente, a prescindere da qualsiasi risultato.
La
domanda di Cyrano è la domanda di tutti: “Posso
essere amato anche se sono brutto?”, dove “brutto” non è estetica ma la verità
di chi io sono, l’unicità dei miei limiti. I social che parlano il linguaggio
del mondo, cioè dove gli umani ricevono attenzione solo perché se lo meritano o
perché ti seducono, non possono nutrire la vita spirituale, che è vita amata
gratuitamente. Nessuno di noi si è dato la vita e quindi per sentirsi amato ha
bisogno di sapere che quella vita è stata voluta a prescindere da tutto (per
questo i ragazzi adottati hanno la cosiddetta ferita dell’origine e prima o poi
vanno alla ricerca dei genitori biologici, per sapere quella verità oscurata
dal fatto di essere stati “abbandonati”). Ma un amore che ci ama anche
“brutti”, che ci vuole esistenti a prescindere è una chimera? No, se il poeta
può così testimoniare della sua amata: “Possesso di me tu mi davi, dandoti a
me” (Pedro Salinas, La voce a te dovuta). Ecco la vita spirituale:
il possesso di sé che nasce dall’amore gratuito.
Questo
amore è stato da sempre ritenuto “divino” da
noi umani perché noi non riusciamo ad amare così, eppure si dà anche nel
quotidiano quando qualcosa o qualcuno smette di farmi sentire un mezzo e mi
rende un fine: “sei il fine e quindi la fine del mondo!”. Può accadere in un
bosco, in un quadro, in un angolo di città, in un volto, in una carezza, in una
parola… insomma in tutte quelle situazioni in cui cose e persone non “si
aspettano” nulla ma “ci aspettano”, lasciano “in pace” (danno pace al-) la
nostra alterità (unicità), non ci manipolano, non ci rendono oggetti ma
soggetti, ci rendono liberi, in ultima istanza ci testimoniano un amore che ci
vuole esistenti, a prescindere da quanto siamo belli e bravi. Questo amore è la
vita vera, la vita che non muore, la vita eterna, l’unica realtà che vince la paura
di rimanere soli. E se in noi troviamo questo desiderio, allora questo amore
c’è, altrimenti non ne avremmo notizia o nostalgia. La paura della solitudine
dei ragazzi si rivela per quello che è: desiderio di spogliarsi delle
rappresentazioni con cui l’ego crede di meritarsi di esistere ed essere amato,
per far nascere il sé, che è dove la vita limitata che abbiamo si sente amata a
prescindere.
Abbiamo
appena festeggiato San Francesco che comincia la sua
vita nuova proprio da giovane, con un denudamento sulla pubblica piazza:
rinuncia a tutte le finzioni dell’ego per abbracciare la vita vera, quella in
cui tutti sono figli e quindi fratelli e sorelle, dal fuoco alla morte. Non fa
altro che seguire la frase paradossale di Cristo secondo cui chi perde la vita
la trova, cioè solo chi smette di nascondersi e si libera dalle illusioni
d’amore trova l’amore. Cyrano, alla fatidica domanda sul poter essere amato
anche brutto (convinto com’è che la sua vita sia tutta definita dal naso
deforme) si sente rispondere da Rossana: «Ma certo! E ti amerei ancora di più».
Solo quando mi vengono restituite amate le mie insufficienze, le cose di cui io
stesso mi vergogno, allora mi sento amato, e la mia vita è in pace, perché è
voluta sino alle sue fondamenta. La paura di rimanere soli di questa
generazione non è altro che la ricerca dell’amore “a prescindere”, non sotto
condizione, che Social, dio delle inesauribili aspettative e solitudini, non
potrà mai dare.
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