Un esercizio
per ritrovare
la realtà (e noi stessi)
-di Alessandro D’Avenia
Ho
dato questo compito ai miei studenti: fare una passeggiata senza cellulare
lungo un notissimo tragitto cittadino, parco compreso.
Dovevano
trovare: tre alberi diversi, un pozzo, un mercato, delle palle di cannone, una statua... e rimanere aperti a
tutto ciò che sarebbe accaduto nel frattempo.
È stato bello ascoltare lo stupore di chi si era accorto di quanta realtà
contenga la realtà quando le diamo il tempo di accadere. E così c'è chi si è
goduto la musica di un artista di strada, chi le prime caldarroste, chi la storia di un ambulante... e poi gli alberi di cui non avevano idea se
non in astratto: lungo il tragitto ce ne sono almeno 30 tipi (dal tasso al ginkgo, dall'acero al liquidambar). Il concetto generico di albero si è popolato
di singolarità e poi di nomi (letti sui cartelli del parco).
Riuscire
a dare del tu alle cose è l'unico modo di custodirle: non possiamo dire amico
qualcuno di cui non conosciamo il nome e le caratteristiche che lo rendono
unico. La violenza comincia sempre dall'eliminare l'unicità come dice Vasilij Grossman all'inizio del suo capolavoro: «Le
izbe russe sono milioni, ma non possono essercene – e non ce ne sono – due
identiche. Ciò che è vivo non ha copie. Due persone, due arbusti di rosa
canina, non possono essere uguali, è impensabile... E dove la violenza cerca di
cancellare varietà e differenze, la vita si spegne» (Vita e destino). Se la vita si spegne non dipende da lei ma
dalla violenza, che inizia dalla disattenzione. Come uscirne?
Dallo
stupore dei miei studenti ho colto che il desiderio di connessione con il mondo
è fortissimo, ma è addormentato dall'uso pervasivo degli schermi.
L'intelligenza
artificiale dei telefoni più recenti è «visiva»: basta puntarli su qualcosa per
sapere che cosa stiamo guardando. La prossima frontiera sono infatti gli
occhiali a intelligenza artificiale, avremo lo sguardo «informatizzato».
Ma
se l'informazione precede l'incontro con le cose rischiamo di perdere la
connessione emotiva con la loro vita, invertendo il percorso che da millenni ha
guidato il Sapiens: prima viene il rapporto vivo con il mondo, lo
stupore, e poi la sua scoperta, la conoscenza. Non ci innamoriamo di qualcuno
leggendone il curriculum, ma incontrandolo.
La vita «datificata» è più fredda
di quella «data». La «datificazione» del reale ne offusca il livello simbolico
(di «legame», che è il significato originario della parola simbolo) cioè
relazionale. Non a caso un'alunna ha raccontato del tasso, che non conosceva e
che l'ha colpita perché le assomiglia: un albero fa scoprire a una quattordicenne
della gen Z qualcosa di sé. Non si ama «la natura» in astratto, ma ciò che si
sente come parte di sé. Un'educazione «cosmica» stringe legami (simboli) con le
cose, ciò che scopro fuori di me parla a me e di me: «Il tasso mi assomiglia:
piccolo rispetto ad altri alberi ma resistente a tutto e sempreverde». Non se
lo dimenticherà più, ha aggiunto un nome alla realtà (il tasso fuori di lei) e
a sé stessa (il tasso in lei), in un simbolo-legame che dà consistenza
all'esistenza irripetibile di entrambi. Un altro ragazzo ha parlato del «bagolaro» perché è un albero meno noto, originale, come
lui. Invece la bellezza dei colori già autunnali del ginkgo non poteva sfuggire
ad una ragazza appassionata di armocromie e moda.
La
profondità delle cose è attinta solo nell'incontro tra due unicità, e questa
dimensione che potrebbe sembrare solo estetica e psicologica è in realtà etica:
il legame con le cose offre sempre un orientamento, una scelta, un
destino.
Mia
madre mi ha raccontato che quando piangevo metteva la carrozzina sotto un
albero, il movimento delle foglie illuminate mi calmava e incantava per ore,
credo venga da lì il mio amore per gli alberi e per la contemplazione. Solo lo
stupore conosce: ci innamoriamo prima di sapere, ma poi vogliamo sapere di più
di ciò che amiamo e quel sapere diventa amore, in un circolo virtuoso che si
chiama «appartenere».
Oggi
il mondo è disincantato per mancanza di simboli, i legami con le cose: siamo
schermati e la curiosità (che viene da cura e della cura è il primo gradino) si
riduce a dispersione e dopamina (la ricompensa immediata), e non diventa amore
e profondità. Tutto va contro il più semplice ed efficace degli obblighi
educativi: «Guarda!», l'invito con cui il genitore o il maestro accompagnano il
dito che indica qualcosa di bello, là fuori, perché il bambino avverta il
miracolo del mondo grazie a chi lo ha già incontrato e ne passa il testimone
(lo testimonia).
Lo
scrittore David Foster Wallace diceva infatti che scrivere è
«fare il massaggio cardiaco agli elementi di umanità e di magia che ancora
resistono e luccicano malgrado l'oscurità dei tempi». Cioè: «Guarda!».
Ridimensionare il «sé schermato» in favore del «sé aperto» ci fa ritrovare un
rapporto vitale con cose e persone: è lì che nascono le vocazioni, perché
«presto attenzione» solo a ciò a cui sono legato.
Dell'autunno,
ridotto a foto del foliage, ignoriamo chi lo indossa in stili differenti e
unici: larici, frassini, castagni, querce, aceri... E chi perde le differenze, diventa pian piano
in-differente. Gli esseri viventi si estinguono o nascono dentro di noi prima
che fuori. Siamo poveri di mondo perché ci viene consegnato da fredde
astrazioni e non da unicità, da informazioni e non da narrazioni, da dati e non
da stupori. Sappiamo differenziare i rifiuti ma non le cose vive.
Dobbiamo
tornare a stare nel mondo come fine e non solo come mezzo, solo questo
consentirà alla realtà di rivelarci come vuole che ci prendiamo cura di lei,
perché ognuno ne è sedotto in modo diverso. Quando Ulisse, tornato dopo vent'anni a Itaca, non viene riconosciuto dal padre, gli dice: «I nomi
degli alberi di questo frutteto ben coltivato io ti dirò: un tempo me li
donasti e io, ancora bambino, te li chiedevo uno per uno venendoti dietro
nell’orto; in mezzo ad essi andavamo e tu mi dicevi il nome di tutti; tredici
peri mi desti, e dieci meli, e quaranta fichi, cinquanta filari di viti mi
promettesti, che maturano in tempi diversi, e vi sono grappoli di ogni tipo,
nelle stagioni di Zeus». Al sentire queste parole a Laerte «si sciolsero le ginocchia e il cuore nel
riconoscere i segni sicuri che gli rivelava Odisseo». In questa scena è il
figlio a restituire al padre «i segni sicuri» del «guarda!» di un tempo, e gli
alberi, uno per uno, nome per nome, sono simboli (legami) della verità: «Sono
io, tuo figlio». Il padre allora «vede» il figlio attraverso i nomi del mondo
che gli aveva dato in eredità quando era bambino, un vissuto che nessun paio di
occhiali «intelligenti» avrebbe potuto rivelare, perché apparteneva solo a loro.
Ho
chiesto ai miei studenti perché non fanno più spesso queste camminate se sono
così belle e mi hanno detto che non hanno tempo, salvo poi verificare sul
minutaggio delle app che di tempo ne avrebbero in abbondanza.
La
vita è sì scomponibile in «data» (i dati), ma è prima di tutto «data» a chi si
fa trovare. Anche solo in una passeggiata...
Corriere della Sera
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