XXVIII domenica nell’anno
Luca 17,11-19 (2Re 5,14-17)
11Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù
attraversava la Samaria e la Galilea. 12Entrando in un
villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a
distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà
di noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a
presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15Uno
di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16e
si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un
Samaritano. 17Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati
dieci? E gli altri nove dove sono? 18Non si è trovato nessuno
che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo
straniero?». 19E gli disse: «Àlzati e va'; la tua fede ti ha
salvato!».
Commento
di di Luciano Manicardi*
Il
testo di 2Re mostra la difficoltà, soprattutto per un uomo importante, ricco e
potente come Naaman (2Re 5,1), di riconoscersi debitore: coprire di denaro e
preziosi chi lo ha beneficato significherebbe “sdebitarsi”, far divenire
l’altro grato nei suoi confronti, e così non perdere la propria grandezza e la
propria immagine di uomo che “non deve nulla a nessuno”. La gratitudine
è difficile e richiede la messa a morte del proprio narcisismo per
entrare nel novero di coloro che si sanno graziati.
Il
testo evangelico si apre con un’annotazione geografica che dice che Gesù,
mentre andava verso Gerusalemme, “attraversava” la Samaria e la Galilea. Penso
che quell’“attraversare” vada inteso nel senso di “costeggiare”, di “passare
lungo la frontiera”, dando collocazione anche fisica all’atteggiamento di Gesù
quale uomo della soglia, che abita i confini. Di fatto, subito dopo, egli
incontrerà un gruppo di lebbrosi che si rivelerà composto di giudei e
samaritani, popoli ormai separati da inimicizie religiose e ostilità
reciproche, ed egli destinerà a tutti indistintamente la sua azione
terapeutica.
Apprestandosi
a entrare in un villaggio, ecco che un gruppo di dieci lebbrosi gli si fanno
incontro fermandosi a distanza. La legislazione che regolava il comportamento
di quanti erano afflitti da lebbra imponeva loro di stare lontani dai centri
abitati (“il lebbroso … abiterà fuori dell’accampamento”: Lv 13,46) e di andare
in giro gridando la propria condizione di impurità per avvertire della propria
presenza contagiosa e impura e consentire di evitarli a chi li avesse
incrociati sul cammino (“il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate
e il capo scoperto, velato fino al labbro superiore, andrà gridando: ‘Impuro!
Impuro!’”: Lv 13,45). Tuttavia, questo gruppo di uomini ci viene presentato non
in atto di gridare la propria impurità, ma di supplicare aiuto. Le parole che
rivolgono a Gesù sono una preghiera colma di fiducia e di speranza: “Gesù,
maestro, abbi pietà di noi” (Lc 17,13). La loro supplica echeggia espressioni
che i Salmi di frequente rivolgono a Dio (Sal 6,2; 31,10; 41,5; 51,3-4) ed esprime
la loro fede nel potere di Gesù di guarirli. Colpisce che Gesù, ascoltata la
loro richiesta, non compia alcun gesto (come invece nei confronti del lebbroso
in Lc 5,12-16, quando “Gesù tese la mano, lo toccò dicendo: ‘Lo voglio, sii
purificato’”, e il narratore annota che “immediatamente la lebbra scomparve da
lui”: Lc 5,13). Gesù li invia immediatamente a farsi visitare dai sacerdoti che
dovevano verificare l’avvenuta guarigione e dunque riammettere alla
partecipazione al culto avendo constatato la sparizione dell’impurità. Ma i
dieci uomini obbediscono a Gesù senza che la guarigione sia avvenuta. Tutti
loro mostrano fede in Gesù obbedendo alla sua parola pur senza aver visto
nessun gesto di cura verso di loro e tanto meno di guarigione. Vanno a “mostrarsi”
ai sacerdoti senza essere guariti! Potremmo chiederci il perché di questo
atteggiamento di Gesù. Come intenderlo? Quale significato avrebbero potuto dare
alle sue parole i dieci uomini? Come una maniera di liberarsi di loro? Di non
prenderli sul serio? Un po’ come avviene per quella donna cananea che gli si
era fatta incontro supplicandolo con analoghe parole (“Abbi pietà di me”, eléesón
me: Mt 15,22; cf. “Abbi pietà di noi”, eléeson emâs: Lc 17,13.)
a cui Gesù prima non aveva nemmeno risposto e poi aveva rivolto parole aspre e
dure. In realtà, essi non interpretano così l’atteggiamento di Gesù, non
mostrano delusione, non mormorano con rimostranze, non criticano quella che
avrebbero potuto sentire come indifferenza e perfino presa in giro da parte di
Gesù. Obbediscono a Gesù mostrando fede in lui. Ed è nel cammino, “mentre
andavano” (Lc 17,14), che avviene la guarigione. Il loro mettersi in cammino
senza essere guariti è una manifestazione straordinaria di fede nella parola di
Gesù e nella sua persona. Potremmo dire che credono senza avere visto. Sembra
che abbiano fatto proprio l’atteggiamento del Salmista che crede
nell’esaudimento nel mentre stesso che implora aiuto: “Quando ho gridato al
Signore con la mia bocca, la sua lode era già sulla mia lingua. Se il dubbio
fosse stato nel mio cuore il Signore non avrebbe ascoltato” (Sal 66,17-18).
Tutti e dieci hanno fede, eppure una differenza radicale emerge tra di loro
quando uno solo torna da Gesù per ringraziarlo: “Uno di loro, vedendosi
guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce e si prostrò davanti a Gesù per
ringraziarlo” (Lc 17,17). Tutti sono guariti, ma uno solo lo vede, cioè lo
riconosce e vi risponde. Quest’uomo sa vedere ciò che è avvenuto alla propria
vita, riconosce che è grazie a un altro che è avvenuto ciò che è avvenuto e
risponde a questo evento: cambia strada, non va dai sacerdoti, ma da Gesù e lo
ringrazia. Nulla di rituale o di religioso in tutto questo. La differenza tra i
nove e questo uno è nel suo saper vedere e rispondere. Si tratta di
una differenza che si situa sul piano prettamente umano e precede la differenza
religiosa che separava giudei e samaritani e i loro rispettivi luoghi di culto
e sistemi sacerdotali. E che diversifica anche la fede che pure tutti hanno
mostrato. Tanto che solo al samaritano Gesù dirà: “La tua fede ti ha salvato”
(Lc 17,19). Qual è la differenza? Luca presenta nel samaritano la fede come
propedeutica all’umano, la fede che insegna a vivere umanamente, la fede che
approfondisce l’umano e rende autentiche le relazioni umane. Presenta la fede
che insegna a vedere se stessi e a riconoscere l’altro, la fede che radica
l’uomo nell’umano e non ve lo sradica. Sradicamento che a volte è operato dalla
religione. Il Dio che il samaritano loda è quello che si è manifestato
nell’uomo Gesù. È una differenza puramente umana, di atteggiamento umano, di
presa sul serio dell’umano. La solenne proclamazione “la tua fede ti ha
salvato” va dunque intesa come: ti ha posto nell’unità, ti ha dato integrità,
ti ha situato nella tua verità umana. La tua fede aderisce alla tua umanità, fa
tutt’uno con essa. È a questa fede, che integra pienamente l’umano, che Gesù
dice il suo sì. Gli altri nove si saranno fatti vedere dai sacerdoti e avranno
certamente goduto della nuova condizione di guariti, ma non avranno visto ciò
che è intervenuto nella loro vita e così saranno restati nella loro cecità,
nell’inerzia di chi ha occhi e non vede, orecchie e non sente, bocca e non
parla. Guariti dalla lebbra, ma non dalla cecità.
Il
samaritano non si presenta ai sacerdoti, ma ringrazia Gesù. E Gesù non si
lamenta del fatto che nessun altro sia venuto a ringraziare lui – gli è
sconosciuta l’arte perversa di fare del ringraziamento dovuto un’arma di
ricatto –, ma si stupisce che uno solo sia tornato indietro a dare gloria a
Dio, che uno solo abbia riconosciuto il Dio che agisce nei rapporti intraumani
e abbia saputo discernere il Dio che lui narra nella sua umanità. Davvero, non
è più sul monte Garizim, dove celebravano il culto i samaritani, o nel tempio
di Gerusalemme, dove adoravano i giudei (cf. Gv 4,21) e da cui già erano dovuti
uscire i sacerdoti quando la nube della presenza divina ne aveva preso possesso
(1Re 8,10), ma nell’umanità di Gesù che va riconosciuta la presenza di Dio. Non
nella mediazione religiosa, ma nell’immediatezza umana.
E autentificazione della fede è la dimensione eucaristica, ovvero la capacità di riconoscere, nel senso di entrare nel riconoscimento per giungere alla riconoscenza. Si tratta di riconoscere l’intervento di Dio nella semplicità e opacità dell’umano, del reale. Ma il riconoscimento è pieno quando si dilata nel rendimento di grazie. Quando lo sguardo che ha visto l’umano, da quello stesso umano risale al divino. Allora il culto è autentico e celebrato nella vita, nella trama delle relazioni, nella qualità dei gesti, delle parole e degli sguardi. Allora la conversione è compiuta: il samaritano “tornò indietro (hypéstrepsen) lodando Dio a gran voce” (Lc 17,15).
La lode a
Dio si unisce in modo inscindibile al rendimento di grazie a Gesù. Nell’uomo
Gesù si manifesta il volto di Dio.
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