la scuola come
laboratorio
dell’indignazione,
del ribrezzo,
della pietà
e della coscienza
-di Nobile Filippo
È
la didattica dell’indignazione, la didattica del ribrezzo,
la didattica della pietà, la didattica della coscienza:
quattro parole che, se riportate al centro del discorso educativo, possono
ridare senso alla missione della scuola in un tempo di indifferenza e di
anestesia morale.
La
didattica dell’indignazione
Indignarsi
è un atto di libertà.
È
il primo segno che la coscienza è viva.
Insegnare
ai giovani a indignarsi non significa incitarli alla rabbia o alla protesta
sterile, ma educarli al rifiuto consapevole dell’ingiustizia.
L’indignazione è ciò che spinge a non accettare il sopruso, la menzogna, la
discriminazione.
Come
scriveva Stéphane Hessel, “indignatevi!” non è un grido di rivolta, ma
un appello a riscoprire la responsabilità.
Una
scuola che insegna a indignarsi è una scuola che non si limita a trasmettere
saperi, ma che forma cittadini capaci di dire no davanti al
razzismo, alla violenza, all’odio, alla menzogna travestita da verità.
L’indignazione
autentica è cultura del limite e del rispetto. È la prima lezione di
democrazia.
La
didattica del ribrezzo
Il
ribrezzo è una reazione istintiva, ma può diventare una forma di
coscienza morale.
Provare
ribrezzo di fronte all’orrore, alle immagini dei campi di sterminio, alle
guerre, alle torture, alle disuguaglianze estreme, non significa cedere alla
retorica della commozione. Significa riconoscere che il male non è un concetto
astratto, ma una realtà che si tocca con mano.
Educare
al ribrezzo è educare al senso del limite umano.
Chi
non prova più ribrezzo per la violenza, chi scrolla le spalle davanti
all’umiliazione dell’altro, è già un essere addormentato, un’anima resa tiepida
dall’indifferenza.
Il
ribrezzo è il freno etico che impedisce alla civiltà di
scivolare nella barbarie. La scuola deve avere il coraggio di mostrarlo, di
nominarlo, di farlo sentire.
La
didattica della pietà
Pietà
non è commiserazione.
È empatia
profonda, capacità di mettersi nei panni dell’altro, di riconoscere la
fragilità come valore e non come difetto.
La
pietà è l’altra faccia della giustizia: senza pietà la legge è cieca, la
ragione è fredda, la conoscenza è sterile.
Educare
alla pietà significa insegnare che ogni vita ha lo stesso peso, che ogni
lacrima ha lo stesso valore, che il dolore di uno appartiene a tutti.
È
la lezione che la Shoah, la guerra, la povertà, la malattia, continuano a
impartirci. È la dimensione umana che trasforma il sapere in coscienza
morale.
Un
insegnante che sa generare pietà nei suoi studenti ha già compiuto un atto
educativo supremo.
La
didattica della coscienza
La
coscienza è la casa dell’anima civile.
Non
nasce per caso: si costruisce nel tempo, attraverso l’esperienza, la conoscenza
e l’esercizio del dubbio.
La
scuola deve tornare ad essere il luogo della coscienza critica,
dove si impara non soltanto a conoscere, ma a discernere, a pensare con
autonomia, a scegliere con responsabilità.
Una didattica della coscienza mette insieme tutte le altre: dall’indignazione
trae la forza morale, dal ribrezzo la capacità di riconoscere il male, dalla
pietà la compassione, dalla conoscenza la libertà.
È
la didattica che non si ferma al “sapere”, ma arriva al “capire” e al
“sentire”.
Una
pedagogia per il nostro tempo
Viviamo
in un’epoca che sembra aver perso il senso del limite e della vergogna.
Le parole vengono svuotate, la storia piegata, la memoria usata come strumento
politico. In questo deserto emotivo, la scuola ha il compito più alto: ricostruire
l’alfabeto dei sentimenti morali.
Serve
un nuovo umanesimo educativo, in cui la cultura non sia solo trasmissione di
nozioni, ma trasformazione interiore, esperienza di libertà e di
responsabilità.
Insegnare
la matematica, la storia, la letteratura o la scienza deve significare anche
insegnare a provare emozione, a reagire, a commuoversi.
Educare
a sentire per imparare a vivere
Una
scuola che non insegna a sentire è una scuola che prepara tecnici, non uomini.
L’indignazione,
il ribrezzo, la pietà, la coscienza non sono accessori dell’educazione: ne sono
il cuore pulsante.
Nei
banchi dove si apprende la libertà, si deve anche imparare a dire “basta”
davanti al male, a chinarsi davanti al dolore, a custodire la verità, a sentire
il peso e il valore delle proprie azioni.
Solo
così l’educazione diventa atto di civiltà.
E
allora sì, possiamo dire che ogni viaggio della memoria, ogni lezione di
storia, ogni lettura di un testo che racconta la sofferenza, non serve solo a
“sapere”, ma a diventare uomini capaci di provare vergogna davanti al
male e responsabilità davanti alla vita.
Perché
educare a sentire è l’unico modo per imparare davvero a vivere.
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