sabato 18 ottobre 2025

EDUCARE I SENTIMENTI

 


Educare a sentire:

 la scuola come

 laboratorio

 dell’indignazione,

 del ribrezzo, 

della pietà

 e della coscienza

 

-di Nobile Filippo

 C’è un livello dell’educazione che non si misura con i voti, né con le prove standardizzate. È quello che tocca le fibre profonde dell’essere umano, che educa al sentimento del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, della dignità e dell’abiezione.

È la didattica dell’indignazione, la didattica del ribrezzo, la didattica della pietà, la didattica della coscienza: quattro parole che, se riportate al centro del discorso educativo, possono ridare senso alla missione della scuola in un tempo di indifferenza e di anestesia morale.

La didattica dell’indignazione

Indignarsi è un atto di libertà.

È il primo segno che la coscienza è viva.

Insegnare ai giovani a indignarsi non significa incitarli alla rabbia o alla protesta sterile, ma educarli al rifiuto consapevole dell’ingiustizia. L’indignazione è ciò che spinge a non accettare il sopruso, la menzogna, la discriminazione.

Come scriveva Stéphane Hessel, “indignatevi!” non è un grido di rivolta, ma un appello a riscoprire la responsabilità.

Una scuola che insegna a indignarsi è una scuola che non si limita a trasmettere saperi, ma che forma cittadini capaci di dire no davanti al razzismo, alla violenza, all’odio, alla menzogna travestita da verità.

L’indignazione autentica è cultura del limite e del rispetto. È la prima lezione di democrazia.

La didattica del ribrezzo

Il ribrezzo è una reazione istintiva, ma può diventare una forma di coscienza morale.

Provare ribrezzo di fronte all’orrore, alle immagini dei campi di sterminio, alle guerre, alle torture, alle disuguaglianze estreme, non significa cedere alla retorica della commozione. Significa riconoscere che il male non è un concetto astratto, ma una realtà che si tocca con mano.

Educare al ribrezzo è educare al senso del limite umano.

Chi non prova più ribrezzo per la violenza, chi scrolla le spalle davanti all’umiliazione dell’altro, è già un essere addormentato, un’anima resa tiepida dall’indifferenza.

Il ribrezzo è il freno etico che impedisce alla civiltà di scivolare nella barbarie. La scuola deve avere il coraggio di mostrarlo, di nominarlo, di farlo sentire.

La didattica della pietà

Pietà non è commiserazione.

È empatia profonda, capacità di mettersi nei panni dell’altro, di riconoscere la fragilità come valore e non come difetto.

La pietà è l’altra faccia della giustizia: senza pietà la legge è cieca, la ragione è fredda, la conoscenza è sterile.

Educare alla pietà significa insegnare che ogni vita ha lo stesso peso, che ogni lacrima ha lo stesso valore, che il dolore di uno appartiene a tutti.

È la lezione che la Shoah, la guerra, la povertà, la malattia, continuano a impartirci. È la dimensione umana che trasforma il sapere in coscienza morale.

Un insegnante che sa generare pietà nei suoi studenti ha già compiuto un atto educativo supremo.

La didattica della coscienza

La coscienza è la casa dell’anima civile.

Non nasce per caso: si costruisce nel tempo, attraverso l’esperienza, la conoscenza e l’esercizio del dubbio.

La scuola deve tornare ad essere il luogo della coscienza critica, dove si impara non soltanto a conoscere, ma a discernere, a pensare con autonomia, a scegliere con responsabilità.
Una didattica della coscienza mette insieme tutte le altre: dall’indignazione trae la forza morale, dal ribrezzo la capacità di riconoscere il male, dalla pietà la compassione, dalla conoscenza la libertà.

È la didattica che non si ferma al “sapere”, ma arriva al “capire” e al “sentire”.

Una pedagogia per il nostro tempo

Viviamo in un’epoca che sembra aver perso il senso del limite e della vergogna.
Le parole vengono svuotate, la storia piegata, la memoria usata come strumento politico. In questo deserto emotivo, la scuola ha il compito più alto: ricostruire l’alfabeto dei sentimenti morali.

Serve un nuovo umanesimo educativo, in cui la cultura non sia solo trasmissione di nozioni, ma trasformazione interiore, esperienza di libertà e di responsabilità.

Insegnare la matematica, la storia, la letteratura o la scienza deve significare anche insegnare a provare emozione, a reagire, a commuoversi.

Educare a sentire per imparare a vivere

Una scuola che non insegna a sentire è una scuola che prepara tecnici, non uomini.

L’indignazione, il ribrezzo, la pietà, la coscienza non sono accessori dell’educazione: ne sono il cuore pulsante.

Nei banchi dove si apprende la libertà, si deve anche imparare a dire “basta” davanti al male, a chinarsi davanti al dolore, a custodire la verità, a sentire il peso e il valore delle proprie azioni.

Solo così l’educazione diventa atto di civiltà.

E allora sì, possiamo dire che ogni viaggio della memoria, ogni lezione di storia, ogni lettura di un testo che racconta la sofferenza, non serve solo a “sapere”, ma a diventare uomini capaci di provare vergogna davanti al male e responsabilità davanti alla vita.

Perché educare a sentire è l’unico modo per imparare davvero a vivere.

 Orizzonte Scuola

 

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