La
sopravvivenza
della nostra civiltà è a rischio:
la crisi della fede non è che un sintomo.
L'assenza di fede e speranza
nuoce enormemente
alla salute mentale
dei ragazzi
-di
Vito Mancuso
L’arcivescovo
di Torino ha scritto qualche giorno fa su questo giornale: “La scarsa adesione
dei giovani all’esperienza cristiana mi fa pensare che la Chiesa oggi non è più
percepita come risorsa spirituale”. Duemila anni fa Plutarco, storico, filosofo
e sacerdote del tempio di Delfi, si chiedeva: “Perché sono deserti i templi
degli Dei?”. Con parole diverse è la medesima constatazione. Altrove Plutarco
aveva riferito dell’urlo straziante che annunciava al mondo la morte del dio
Pan, il più pagano degli Dei, quindi la morte del paganesimo, constatando il
lento ma inarrestabile declino della civiltà classica: aveva visto bene, perché
quattro secoli dopo il declino sarebbe culminato nelle invasioni barbariche e
nell’insediamento di un’altra civiltà …
Civiltà in declino
Oggi
quella civiltà che si era insediata e che con una parola sola possiamo chiamare
europea, cioè la nostra civiltà, mostra a sua volta i segni di un declino forse
altrettanto inarrestabile. Una delle prime attestazioni del declino dell’Europa
cristiana risale a due secoli fa, quando Hegel nelle sue lezioni all’Università
di Berlino affermava: “Ci potrebbe venire l’idea di istituire un paragone con
il tempo dell’Impero Romano quando il razionale e necessario si rifugiava solo
nella forma del diritto e del benessere privato, perché era scomparsa l’unità
generale della religione e altrettanto era annullata la vita politica generale,
e l’individuo, perplesso, inattivo e sfiduciato, si preoccupava solamente di se
stesso e non di ciò che è in sé e per sé, che era abbandonato anche nel
pensiero”.
Religione
e politica
Per
Hegel, e prima ancora per Plutarco, il declino della religione va di pari passo
con il declino della politica. Entrambe segnalano lo stato di salute dello
spirito umano rispetto alla storia: quando lo spirito è in salute produce una
religione e una politica che fanno evolvere la storia e la natura; quando
invece lo spirito è debole e malato, sono la storia e ancor più la natura a
prendere il sopravvento riducendo ogni cosa a una spietata lotta di
sopravvivenza dell’uno contro l’altro. “Bellum omnium contra omnes”, per usare
la celebre espressione di Thomas Hobbes: “Guerra di tutti contro tutti”.
Continuava Hegel: “Come Pilato domandò: «che cos’è la verità?», così al giorno
d’oggi si ricerca il benessere e il godimento privato. È oggi corrente un punto
di vista morale, un agire, opinioni e convinzioni assolutamente particolari,
senza veridicità, senza verità oggettiva. Ha valore il contrario: io riconosco
solo ciò che è una mia opinione soggettiva”. E concludeva: “Noi non sappiamo,
non conosciamo niente di Dio”.
Il volere soggettivo
Non
è forse così? Credo che ognuno di noi abbia l’attestazione quotidiana di questo
stato di cose per il quale vale sono il volere soggettivo, nella completa
assenza di un canone oggettivo che normi l’etica, l’estetica, l’educazione e le
altre espressioni della soggettività umana. È rimasto solo il diritto a tenerci
insieme, ma esso lo può fare e lo fa solo grazie alla forza. Il risultato è che
la nostra civiltà è attraversata da litigiosità e conflittualità crescenti,
siamo in preda all’ira e alla collera, a una aggressività senza limiti che
genera querele, cause, sentenze, ricorsi, appelli senza fine, e uno stato
generale di ansia, di paura, di panico (termine che deriva da Pan, a
significare che il vecchio dio, in realtà, non è per nulla morto). Mancando la
religio, manca l’humanitas; e mancando l’humanitas, mancano le condizioni per
capirci, a partire dalle parole e dalle buone maniere, e così vivere insieme se
non proprio da soci, per lo meno da buoni vicini. Ma noi non siamo buoni vicini
gli uni con gli altri, siamo stranieri: stranieri morali, il grado più alto di
estraneità. E siamo ridotti così perché, come diceva Hegel, “non conosciamo più
niente di Dio”.
La
risorsa del divino
Una
civiltà è tanto più forte quanto più conosce il divino, ed è tanto più debole
quanto più lo ignora. Non si tratta ovviamente di una conoscenza catechistica e
dottrinaria; si tratta piuttosto di quella esperienza concreta ed esistenziale
che porta l’essere umano ad avere nel centro del proprio cuore un altare, uno
spazio ideale che gli fa riconoscere e venerare qualcosa di più importante del
proprio interesse particolare o “godimento privato”. La comune condivisione di
tale altare fa di una massa anonima di singoli un insieme di soci, una società;
e i singoli in questo modo trascendono il proprio interesse particolare e danno
origine a una civiltà, termine che in latino, significativamente, si dice
“humanitas”.
Religio,
societas, humanitas
Oggi
però l’assenza di “religio” va di pari passo con l’assenza di “societas” e di
“humanitas”. Tutto il mondo ne soffre, ma in particolare l’Occidente, il
territorio più secolarizzato e quindi più sradicato. Il problema sollevato
dall’arcivescovo di Torino ha quindi una dimensione che va ben al di là della
sola dimensione religiosa: non si tratta cioè della sopravvivenza di una
particolare religione e dell’istituzione che la rappresenta; si tratta, ben più
in profondità, della sopravvivenza di una civiltà, la nostra, e della salute
psichica ed esistenziale di ognuno di noi, a partire dai nostri ragazzi che
sono le prime vittime di questa mancanza di ideali, di speranza, di visioni, di
fiducia.
C'era
un tempo in cui il cristianesimo pensava di potersi proporre come rimedio ai
mali del mondo, oggi invece esso è parte del problema. L’aveva constatato ormai
quasi vent’anni fa il cardinale Carlo Maria Martini: “Un tempo avevo sogni
sulla Chiesa. Una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà… che
dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto. Una Chiesa che
infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli o peccatori.
Sognavo una Chiesa giovane. Oggi non ho più questi sogni” (da “Conversazioni
notturne a Gerusalemme”).
La
gravità della crisi appare dal fatto che nella Chiesa sembrano proprio mancare
le menti in grado di avvertire le dimensioni del problema. Ancora si ritiene
che basti qualche ritocco qua e là, qualche mezza apertura più di facciata che
di sostanza, come quelle proposte dal pontificato di papa Francesco. La
situazione però è quella fotografata dall’arcivescovo di Torino: “Viviamo un
cristianesimo che non offre veri cammini di spiritualità”. Ma se una religione
non offre veri cammini di spiritualità a cosa serve? È come tenere aperto un
ristorante che non offre da mangiare.
L’importanza
dell’utopia
Concludo
riportando ancora il pensiero del cardinal Martini: “Mi ha sempre entusiasmato
Teilhard de Chardin, che vede il mondo procedere verso il grande traguardo,
dove Dio è tutto in tutto… L’utopia è importante: solo quando hai una visione
lo Spirito ti innalza al di sopra di meschini conflitti”. L’ultima cosa a cui
sono interessato sono i meschini conflitti. Se mi sono permesso di riprendere e
commentare le affermazioni dell’arcivescovo di Torino è per contribuire a
intravedere una nuova utopia, visto che quella che per secoli governava le
menti cristiane, cioè la cristianizzazione del mondo, è finita. Oggi nessuno
più può lecitamente sperare che tutto il mondo diventi cristiano. Per questo
non è più sostenibile affermare che “non c’è nessun altro nome in cui c’è
salvezza, se non Gesù Cristo”. È superato non solo l’assioma “extra Ecclesiam
nulla salus” (non c’è salvezza fuori della Chiesa), ma lo è anche quello ancora
più decisivo “extra Christum nulla salus”.
La
salvezza (dal peccato, dal nichilismo, dal male, dalla cattiveria, dalla guerra
interiore che divora i nostri cuori) giunge a tutti coloro che la cercano
invocando i nomi che ognuno conosce e vivendo secondo lo spirito dell’amore e
della giustizia. È lo Spirito a volere così, quello Spirito che guida il mondo
e che sempre parla tramite i suoi grandi profeti, da Gioacchino da Fiore a
Teilhard de Chardin e Carlo Maria Martini e tanti altri nomi benedetti.
La Stampa
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