La parola pace
è stata svuotata
di senso.
Le cause di un’inimicizia quasi secolare tra israeliani e palestinesi non
sono state rimosse e manca una strada da seguire.
-
di Massimo Cacciari
-
Viviamo
forse l'epilogo di una secolare vicenda culturale, di cui tutti siamo artefici
e vittime.
Abbiamo
cominciato col credere che non vi fosse altra realtà che nel linguaggio, poi
abbiamo scoperto che il linguaggio sono infinite lingue nazionali e
individuali, in continuo divenire, e perciò nessuna solidità è in esso
riscontrabile. Così il pensiero che al linguaggio è connesso inscindibilmente
si è fatto debole, sempre più debole. Pensiero e linguaggio si sono ridotti a
pronunciare nomi, a emettere fiati di voce. E con questi fiati cui non
corrisponde alcun significato, o a cui possono esserne attribuiti
metaforicamente innumerevoli a piacere, andiamo giocando.
La
nostra civiltà ha destrutturato sistematicamente tutte quelle parole con le
quali si cercava di dare un senso, un fine alle forme del fare politico, del
diritto, dell'economia. "Valori" si chiamavano - e non si intendeva
qualcosa di astratto, poiché si trattava di principi e idee regolative che
orientavano effettivamente l'agire di istituzioni e organizzazioni, non solo di
singole persone. La nostra civiltà ha scavato il vuoto sotto di loro,
attraverso un lavoro critico spietato e metodico.
Questa
critica ha svolto il suo compito e sembra ora essersi ritirata, non so quanto
soddisfatta di sé.
Così
ora il campo è lasciato a quelle parole ormai del tutto svuotate, meri segni a
disposizione del potere di turno, che ne fa uso come di nobili, antichi pezzi
di arredo delle proprie stanze, o per anniversari - come osano fare in questi
giorni addirittura per San Francesco,
negazione vivente di ogni retorica.
La
critica era necessaria; denunciava uno svuotamento reale. Ma si è trasformata
nella dogmatica affermazione che il discorso in generale non potesse avere
sostanza, non potesse definire o indicare alcunchè di sostanziale. E perciò
dalla critica non si è passati ad alcuna proposta, ad alcun progetto.
Una
critica senza virtù, avrebbe detto Machiavelli. Era necessario mettere a nudo
il fatto che proseguire con certi ritornelli sulla "democrazia",
senza tener conto che i rapporti sociali, gli equilibri tra le classi, i modi
di produzione erano stati rivoluzionati, non aveva significato. Era necessario
sottoporre a una critica rigorosa principi del diritto internazionale fondati
su astratte idee di "uomo" e "tolleranza" (intollerante,
poiché collegata a filo doppio con il fine dell'assimilazione).
Ma
quale nuova democrazia? Quale nuovo Nomos della terra?
Qui sulle nostre carte c'è ancora scritto: hic sunt leones.
Chierici
e politici hanno fallito. E ancor più clamoroso è il loro fallimento, o la loro
impotenza a pronunciare qualcosa più di nomi, atti solo a coprire e
giustificare in qualche modo il proprio agire, quando si affronti il problema
della pace. Pace si è ridotta a significare il nudo fatto della sistemazione
che il conflitto occasionalmente riceve in base al diritto del più forte.
Qualsiasi pace, certo, sancisce un vincitore e un vinto, è asimmetrica.
La
pace presuppone lo stato di guerra. Ma è l'imposizione al vinto che ne
costituisce l'essenza?
Osserviamo
il modello "teologico" di pace - quella custodita nell'arca del
Tempio, quella tra il Signore e Israele. Forse che Israele la subisce? Israele
è, anzi, convinto che obbedire a quel patto rappresenta la propria salvezza. Le
paci di cui la miseria umana è capace non avranno mai questo carattere, è vero
- ma a quali condizioni possono essere dette reali? E cioè in che limiti alla
parola pace può corrispondere un significato concreto?
Prima
condizione: soltanto se ha luogo un qualche "riconoscimento" tra
vincitori e vinti; il vinto riconosce la sconfitta (non importa se la ritiene
"giusta" o meno), e il vincitore il diritto da parte del vinto di
continuare a esistere. Altrimenti può trattarsi soltanto di un momentaneo
armistizio. Su questa linea, dettata dalla ragione e dall'esperienza
storica, si erano svolte le trattative di Camp David e di Oslo, sulla base del
possibile riconoscimento da parte palestinese dello stato di Israele e da parte
di Israele della possibile costituzione di uno stato palestinese. Questa
possibilità sembra naufragata una volta per sempre. Se le cause di una
inimicizia quasi secolare non sono minimamente rimosse, ma anzi, dopo tante
stragi, minacciano di diventare assolute, come è seriamente possibile parlare
di pace, e cioè di un patto ragionevolmente duraturo? Non di un patto, che
presuppone due contraenti, ma di una sistemazione comunque forse sì.
E
qui sta il problema per il vincitore. Che fare del vinto (che in questo caso
non è uno stato, ma un popolo)? Ricostruiamo Gaza e
ricollochiamo qui i sopravvissuti, magari con gli altri palestinesi via via
espulsi dalla Cisgiordania? Magari
sotto il protettorato americano o di qualche alleato di Stati Uniti e Israele?
Oppure Gaza diviene territorio di Israele? E i palestinesi cittadini a tutti
gli effetti di questo Stato, oppure il modello che si ha in mente è una sorta
di neo-apartheid? Oppure ancora si favorisce in tutti i modi, con
"incentivi" di ogni sorta, l'esodo di massa dei palestinesi, e si
"libera" Gaza dalla loro ingombrante presenza? Verso quali altri
Paesi? Se ne ha una vaga idea? Sono ipotesi odiose tutte? Ma quando mai negli
ultimi anni la politica ha avuto scrupoli etici.
Chi
ha vinto, e dunque deve assumere su di sé la responsabilità della vittoria,
dica in quale realistica direzione intende agire. Non sarà né la pace, né un
patto, ma almeno un assetto dell'area in grado di far cessare per qualche tempo
il massacro. E a permettere a noi, buoni europei, di dimenticarcene.
Fonte: La Stampa
Nessun commento:
Posta un commento