Il filo della speranza
che ci tiene agganciati oltre il buio
Sui fiumi di Babilonia,
là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo
le nostre cetre. Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano
deportato, canzoni di gioia, i nostri oppressori: «Cantateci i canti di Sion!».
L’umanità, prigioniera
delle Babilonie di ogni tempo, è incapace di salmodiare i canti della speranza.
Così il clima culturale di quegli anni non fu tanto diverso dal nostro, dove
guerre e depressione economica, miraggi espansionistici e giochi di potere,
minano la fiducia assottigliando sempre più il filo della speranza. A questo
filo si aggrappò l’artista inglese George Frederic Watts quando nel 1886
dipinse la sua Hope. Il soggetto, cui l’artista dedicò varie
versioni, conobbe una grande popolarità e, nella sua forza simbolica, parla
ancora a noi oggi. L’espressione filo della speranza è
collegata al mito di Arianna che consegnò all’amato Teseo, avventuratosi nel
labirinto per uccidere il Minotauro, un gomitolo, il cui filo lo avrebbe
ricondotto all’uscita. In realtà anche il termine biblico speranza, in
ebraico Hatiqvà, contiene l’immagine di una corda (qav) tesa
fra due poli. Ed è proprio entro questi due universi culturali, l’ambiente
biblico e quello greco, cui Watts attinge per dipingere la speranza. La donna,
nella posa della notte michelangiolesca, è bendata. La cetra con la quale
cantare i canti di speranza è rimasta con una sola corda. Tutto appare perduto,
oscuro difficile. Acque e nubi minacciose minano il globo terrestre e ogni
pronostico positivo appare futile. La corda tesa però, l’ultimo filo della
speranza, ben si accorda con una piccola stella che brilla in alto, appena
visibile, attestando agli scoraggiati di ogni tempo e latitudine, che sorge
sempre, oltre le nostre cecità, la stella della speranza.
A questo filo si aggrappa
anche un artista contemporaneo, Viviani Vanni, che in una litografia dedicata
al mito di Arianna, lega la corda tesa non ai canti di Sion, ma ad una mela. Il
filo attraversa un’altra mela che, significativamente, rappresenta il grande
labirinto del mondo internettiano. La mela, lo sappiamo, ci riporta a quella
nostalgia delle origini, a quella sapienza capace di penetrare la realtà
regalata ai due progenitori e irrimediabilmente persa dopo il peccato. Così per
Vanni questa sapienza si riannoda grazie al mondo del Web, tuttavia la
grossolana fattura della corda e il verismo della mela ci ricordano che anche
nell’era dell’intelligenza artificiale è sempre necessario l’uomo, l’uomo con i
suoi interrogativi ancestrali e con il suo percorso umano. Insomma,
contrariamente alle filosofie nicciane, la speranza è l’insopprimibile
nostalgia dell’uomo che, senza dimenticare l’immanenza della storia, tende
all’infinito. Cosa dice dunque a noi un Giubileo, come quello del primo quarto
del XXI secolo, dedicato alla speranza? Cosa può fare l’uomo, sempre più
piccolo in un mondo globalizzato, ad affrontare sfide che appaiono ben più
grandi di Babilonia e dell’antico Minotauro?
La Chiesa, i Papi ci
vengono incontro con la loro risposta semplice e super partes. Dal 2000 ad oggi
la bambina da nulla della speranza, come la definisce Peguy, possiede un tesoro
dentro un fazzoletto. Se Peguy si riferiva alla Veronica del Calvario, che ben
prima delle tecniche fotografiche fissa nel tempo il volto del Cristo Eterno,
il suo fazzoletto ci porta anche a realtà più quotidiane. Seicento anni fa, nel
1425, Tommaso di Ser Giovanni di Mòne, detto Masaccio, dipinse nella Cappella
Brancacci una stupenda, quanto drammatica, fuga dei progenitori dall’Eden. Qui
viene immortalata la porta chiusa del Paradiso e non certo a caso: fu proprio
nel 1425 che papa Martino V aprì, per la prima volta, la Porta Santa della
Basilica di San Giovanni in Laterano. Così Masaccio pone i progenitori,
scacciati dal paradiso, tra una porta chiusa e una scena di speranza. La scena
è nota come il tributo e ritrae il Salvatore al centro della scena mentre,
davanti all’esattore delle tasse, indica a Pietro il vicino mar di Tiberiade.
Pietro, su comando di Gesù, apre la bocca a un pesce e vi trova la moneta da
consegnare al Tribuno. Così, anche il fazzoletto da nulla di Pietro custodisce
una grande speranza. Il pesce che reca a Pietro l’importo delle tasse è simbolo
di Cristo che ha già pagato per la liberazione dell’uomo. «Chi è sotto posto a
tassazione: i figli o gli schiavi?» chiese Gesù. Poiché i figli ne sono esenti
ecco – dice Cristo – io ho già pagato per tutti. Questo è il senso del Giubileo
e la grande speranza anche per l’uomo contemporaneo. C’è uno che ci considera
figli e ha già pagato il prezzo del nostro riscatto. Non c’è disperazione per
chi entra nella Chiesa dove la porta del Paradiso è stata riaperta, la tassa
della colpa pagata e le braccia della misericordia allargate per l’eternità.
In tal senso è
efficacissimo il confronto, nell’arte di Giotto, fra speranza e disperazione.
Nell’impianto iconografico della Cappella degli Scrovegni, Giotto pone la
personificazione della Speranza, di fronte a quella della Disperazione. La
Speranza, ritratta in uno slancio leggero ed elegante, possiede ali candide e,
per quanto i piedi poggino a terra, è colta in volo. Il volto, rivolto in alto,
è orientato verso un punto che va oltre il visibile. Le mani protese, infatti
stanno ricevendo da Dio una corona di gloria. Non così invece la Disperazione.
Il peso del suo pessimismo e dei pensieri cupi sembra trascinarla sempre più in
basso. Mentre i suoi piedi poggiano a terra, il suo collo è stretto nella morsa
di una corda degli impiccati. Un demonio le ha rubato il cuore e le mani sono
chiuse a pugni stretti. L’orizzonte di chi dispera è quello della mediocrità e
del proprio io. In un tale orizzonte ogni visione profetica è impensabile. Al
contrario, l’orizzonte dello speranzoso è sempre fuori di sé, tiene conto di un
più in là e le sue mani aperte sono pronte non solo a dare, ma anche a ricevere
la novità di una salvezza che può venire solo dall’alto. L’arte, in pieno
accordo con i Giubilei di ogni tempo, ci racconta così la speranza: uno sprone
ad andare oltre sé stessi, un invito a confidare: c’è sempre un filo che resta
teso nella vita e una stella che brilla oltre le nostre oscurità quotidiane.
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