lunedì 20 ottobre 2025

TEMPO DI BARBARIE



OLTRE LA LOGICA DELLE BARBARIE

 


Dall’Ucraina al Medio Oriente e alla Libia: il volto moderno dell’orrore e il dovere delle democrazie

-di Mauro Magatti


Per molto tempo si è creduto che, con il progresso delle istituzioni democratiche, la diffusione della cultura dei diritti umani e l’integrazione economica tra i popoli, la barbarie fosse ormai relegata al passato.

E invece, la realtà del nostro tempo ci costringe a una dolorosa presa d’atto: l’orrore non è una categoria della storia, ma una presenza viva e drammatica del nostro presente. Essa assume nuove forme, ma conserva la stessa essenza: la negazione della dignità umana, l’uso della violenza come strumento politico, la riduzione della persona a mezzo sacrificabile per interessi di potere.

Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti.

A seguire gli eventi terribili del massacro di Bucha, il governo ucraino ha documentato 150.000 crimini di guerra commessi dall’esercito russo. L’elenco, raccolto in un sito ufficiale (https://war.ukraine.ua/it/russia-war-crimes/attacchi-a-civili-e-infrastrutture-civili/) continua con omicidi di bambini, stupri, attacchi a civili, sequestri, deportazioni.
La reazione smisurata di Israele all’efferato attacco di Hamas del 7 ottobre ha portato alla distruzione sistematica di Gaza, in una spirale di violenza che una commissione indipendente dell’Onu ha definito come «genocidio». In Israele il clima politico è così degenerato che il ministro israeliano Bezalel Smotrich è arrivato a dichiarare che «serve l’annientamento totale. E mi offro come boia».

In Libia sono da anni note le condizioni disumane dei campi di detenzione dei profughi e, di recente, la nave Ong Mediterranea ha annunciato di avere prove video di «trafficanti libici appartenenti agli apparati militari del governo di Tripoli che hanno gettato con la violenza in alto mare dei giovani profughi».Nel mondo in fiamme dei nostri giorni, le atrocità non sono più commesse soltanto da bande criminali ma da eserciti e miliziani di paesi sovrani e giustificate con argomenti quali la sicurezza nazionale, la difesa della propria identità, l’avanzamento di una causa politica, la necessità di mandare un «messaggio forte» al nemico.

La storia insegna che quando il sacrificio umano viene presentato come prezzo inevitabile — o addirittura giusto — per un obiettivo più grande, la coscienza collettiva viene anestetizzata. Il male non appare più come tale, ma come un dovere, una necessità storica.
Quando ciò accade, la violenza diventa performativa diventando un linguaggio di potere che non teme più di infrangere le regole della convivenza civile. È questo il tratto che segna il passaggio dalla brutalità sporadica alla barbarie sistematica: la legittimazione del disumano.

Quando il male viene ripetuto, esibito, giustificato, esso smette di scandalizzare e inizia a essere percepito come parte del «gioco politico». Ciò che si mette in moto è una dinamica epidemiologica: il contagio avviene attraverso l’assuefazione e la giustificazione. E, a poco a poco, il linguaggio di violenza e sopraffazione pervade il dibattito pubblico, i commenti degli opinionisti, i social network, fino alle campagne elettorali.

Se le democrazie vogliono sopravvivere, non possono restare indifferenti di fronte a questa deriva. La loro stessa esistenza dipende dal contrasto alla logica della barbarie. A partire da due principi a cui le democrazie non possono rinunciare, pena la loro liquidazione.

Il primo è il divieto dell’uso arbitrario della violenza. Una democrazia non può accettare che la forza diventi la regola, né all’interno né all’esterno dei suoi confini. Questo significa lottare per riaffermare il primato del diritto internazionale, delle convenzioni sui diritti umani, della protezione dei civili nei conflitti armati. Ma significa anche vigilare perché, al proprio interno, le istituzioni democratiche non cedano alla tentazione di legittimare pratiche disumane in nome della sicurezza o dell’ordine pubblico.

Il secondo principio è la dignità inalienabile della vita umana, vero pilastro delle società libere.
Ogni volta che una vita viene sacrificata in nome di un disegno di potenza politica, la democrazia si indebolisce. La sua forza non sta nell’efficienza militare o economica, ma nella capacità di rispettare le ragioni di tutti, mettendo cosi la persona al centro. Questo richiede un impegno culturale profondo: educare alla pace, promuovere il rispetto reciproco, sviluppare forme di solidarietà concreta.

La posta in gioco è altissima. Se la barbarie diventa normalità, le democrazie rischiano di implodere dall’interno. Una società che si abitua alla violenza e all’ingiustizia diventa incapace di sostenere i propri valori fondanti. Si apre così la strada al cinismo, al populismo violento, a forme di autoritarismo che si presentano come soluzioni necessarie per gestire l’insicurezza diffusa.

La lotta contro la barbarie rimane una questione vitale per la stessa sopravvivenza della cultura democratica.

Corriere della Sera

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