Dall’Ucraina al Medio Oriente e alla Libia: il volto moderno dell’orrore e il dovere delle democrazie
-di Mauro Magatti
Per molto tempo si è
creduto che, con il progresso delle istituzioni democratiche, la diffusione
della cultura dei diritti umani e l’integrazione economica tra i popoli, la
barbarie fosse ormai relegata al passato.
E invece, la realtà del
nostro tempo ci costringe a una dolorosa presa d’atto: l’orrore non è una
categoria della storia, ma una presenza viva e drammatica del nostro
presente. Essa assume nuove forme, ma conserva la stessa essenza: la
negazione della dignità umana, l’uso della violenza come strumento politico, la
riduzione della persona a mezzo sacrificabile per interessi di potere.
Gli esempi sono sotto gli
occhi di tutti.
A seguire gli eventi
terribili del massacro di Bucha, il governo ucraino ha documentato 150.000
crimini di guerra commessi dall’esercito russo. L’elenco, raccolto in un
sito ufficiale
(https://war.ukraine.ua/it/russia-war-crimes/attacchi-a-civili-e-infrastrutture-civili/)
continua con omicidi di bambini, stupri, attacchi a civili, sequestri,
deportazioni.
La reazione smisurata di Israele all’efferato attacco di Hamas del 7 ottobre ha
portato alla distruzione sistematica di Gaza, in una spirale di violenza che
una commissione indipendente dell’Onu ha definito come «genocidio». In Israele
il clima politico è così degenerato che il ministro israeliano Bezalel Smotrich
è arrivato a dichiarare che «serve l’annientamento totale. E mi offro come
boia».
In Libia sono da anni
note le condizioni disumane dei campi di detenzione dei profughi e, di recente,
la nave Ong Mediterranea ha annunciato di avere prove video di «trafficanti
libici appartenenti agli apparati militari del governo di Tripoli che hanno gettato
con la violenza in alto mare dei giovani profughi».Nel mondo in fiamme dei
nostri giorni, le atrocità non sono più commesse soltanto da bande criminali ma
da eserciti e miliziani di paesi sovrani e giustificate con argomenti quali la
sicurezza nazionale, la difesa della propria identità, l’avanzamento di una
causa politica, la necessità di mandare un «messaggio forte» al nemico.
La storia insegna che
quando il sacrificio umano viene presentato come prezzo inevitabile — o
addirittura giusto — per un obiettivo più grande, la coscienza collettiva viene
anestetizzata. Il male non appare più come tale, ma come un dovere, una
necessità storica.
Quando ciò accade, la violenza diventa performativa diventando un linguaggio di
potere che non teme più di infrangere le regole della convivenza civile. È
questo il tratto che segna il passaggio dalla brutalità sporadica alla barbarie
sistematica: la legittimazione del disumano.
Quando il male viene
ripetuto, esibito, giustificato, esso smette di scandalizzare e inizia a essere
percepito come parte del «gioco politico». Ciò che si mette in moto è una
dinamica epidemiologica: il contagio avviene attraverso l’assuefazione e la giustificazione.
E, a poco a poco, il linguaggio di violenza e sopraffazione pervade il
dibattito pubblico, i commenti degli opinionisti, i social network, fino alle
campagne elettorali.
Se le democrazie vogliono
sopravvivere, non possono restare indifferenti di fronte a questa deriva. La
loro stessa esistenza dipende dal contrasto alla logica della barbarie. A
partire da due principi a cui le democrazie non possono rinunciare, pena la
loro liquidazione.
Il primo è il divieto
dell’uso arbitrario della violenza. Una democrazia non può accettare che la
forza diventi la regola, né all’interno né all’esterno dei suoi confini. Questo
significa lottare per riaffermare il primato del diritto internazionale, delle
convenzioni sui diritti umani, della protezione dei civili nei conflitti
armati. Ma significa anche vigilare perché, al proprio interno, le istituzioni
democratiche non cedano alla tentazione di legittimare pratiche disumane in
nome della sicurezza o dell’ordine pubblico.
Il secondo principio è
la dignità inalienabile della vita umana, vero pilastro delle società libere.
Ogni volta che una vita viene sacrificata in nome di un disegno di potenza
politica, la democrazia si indebolisce. La sua forza non sta nell’efficienza
militare o economica, ma nella capacità di rispettare le ragioni di tutti,
mettendo cosi la persona al centro. Questo richiede un impegno culturale
profondo: educare alla pace, promuovere il rispetto reciproco, sviluppare forme
di solidarietà concreta.
La posta in gioco è
altissima. Se la barbarie diventa normalità, le democrazie rischiano di
implodere dall’interno. Una società che si abitua alla violenza e
all’ingiustizia diventa incapace di sostenere i propri valori fondanti. Si apre
così la strada al cinismo, al populismo violento, a forme di autoritarismo che
si presentano come soluzioni necessarie per gestire l’insicurezza diffusa.
La lotta contro la
barbarie rimane una questione vitale per la stessa sopravvivenza della cultura
democratica.
Corriere della Sera
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