I cellulari hanno reso obsoleto insegnarlo o impararlo.
-di Alessandro D'Avenia
Sembra strano alla mia generazione che ne ha un ricordo indelebile.
Entravamo nel tempo dei «grandi» in cui le cose accadevano all’ora precisa (soprattutto i cartoni animati). Ma non sospettavo di aver perso la magia dell’infanzia, quando il tempo non conta perché non lo si conta, non c’è ansia. Da quel momento invece il tempo cominciò a scorrere e le tre lancette lo segnalavano inesorabilmente. Accadeva da secoli: l’ombra delle meridiane, il flusso di sabbia nelle clessidre, l’ondeggiare dei pendoli. Non serviva leggere «Il pozzo e il pendolo» o «La maschera della morte rossa» di Poe per sentirsi «tagliare» dal tempo, bastava la lancetta che è infatti una «piccola lancia»: secondo e secolo vengono dal latino secare (tagliare), e una vita in media si estende tra questi due tagli.
Insomma,
l’orologio affetta il tempo e quindi noi, che siamo tempo incarnato.
Invece
le cifre sullo schermo fermano l’istante (scattano un’istantanea al tempo), non
scorrono: appaiono. Non segnano il momento (da movimento) della
Terra attorno al proprio asse ma l’attimo, parola che viene da soffio o atomo
(il non tagliabile). Il tempo analogico scorre, il digitale è assoluto. Che
cosa è meglio: che il tempo corra come le lancette o che si illumini sullo
schermo?
Noi
abbiamo due tempi quantificabili: quello storico, lineare e progressivo,
che avanza come una sonda lanciata nello spazio, e quello cosmico,
circolare e ricorsivo, che ritorna come le stagioni. Da come viviamo questi due
tempi dipende la vita. Alcune culture, come quelle agricole, privilegiano il
secondo, che garantisce ordine e frutti. Altre, come quelle tecnologiche, il
primo, e cercano di accelerarlo perché il domani sarà migliore. Le Ore erano in
Grecia divinità femminili che garantivano l’ordine ciclico del tempo e
infatti hora significava stagione, per noi le ore
sono invece torte di 60 fettine (minuto significa piccolo). Modi molto diversi
di affrontare l’ora.
E
proprio a partire dal rapporto con il tempo Claude Lévi-Strauss divideva
le culture in fredde o calde, le prime cercano di frenare il corso lineare,
perché è decadenza come accade nelle età della vita, più si è vicini
all’origine da conservare (culto della Memoria) meglio è; le seconde amano
accelerare perché il meglio è domani: progresso, evoluzione, innovazione (culto
dell’Avvenire). La nostra, guidata dalla tecnologia, è una cultura
caldissima, in accelerazione costante per raggiungere la felicità: più che
il corso ci piace la corsa del tempo. Le prime culture (come i singoli)
rischiano la malinconia (vivere nei ricordi) e il congelamento (la Memoria
diventa prigione), le seconde l’ansia (la felicità è sempre dopo) e il
surriscaldamento (il Futuro diventa distruzione), ma entrambe rischiano di
andare fuori tempo e perdere il presente, o per eccesso di
lentezza/conservazione o di velocità/sostituzione.
Come
sempre la felicità sta nel mezzo. In un terzo tempo in cui la memoria si
rinnova e il futuro si incarna, entrambi in un presente non quantificabile
perché è interiore, cioè dipende dalla libertà: la posizione che decido di
assumere in ogni istante. Un modo di essere che Agostino nelle
«Confessioni», ben prima del surrogato contemporaneo (mindfulness),
chiamava «presenza del presente», che accade solo grazie al «cointuitus»,
termine in cui univa «attenzione» e «intenzione», che rendono l’attimo
«eterno».
L’istante
ha densità e intensità tali — è pieno di senso — da fermarsi, è
contemporaneamente memoria (presenza del passato) e speranza (presenza del
futuro).
In
questo senso l’ora che appare sullo schermo del cellulare lo evoca più del
movimento delle lancette: unica e irripetibile. Ma come si fa a stare
nell’istante con questa «attenzione» e «intenzione»? A fare
dell’accensione dello schermo anche un’accensione di cuore, mente e corpo? In
«cointuitus», il prefisso co- aggiunge a -intuitus(guardar
dentro, fissare, prestare attenzione) il tenere insieme: è uno sguardo
simultaneo, che collega, unifica, abbraccia. Che cosa? Kierkegaard ha
risposto, grazie anche al fatto che in danese «istante» si dice «batter
d’occhio» (øieblik, composto da occhio e lampo, eye più blink in
inglese), che l’istante è il riflesso dell’eternità nel tempo, il punto di
contatto dove eternità e tempo si toccano. Il filosofo ne parla nel suo libro
sull’angoscia perché il vero istante comporta una scelta: la libertà ci
sottrae al finito delle cose che non scegliamo e ci apre all’infinito di quelle
possibili, e rende l’istante eterno se scelgo la vita e non la morte. Cioè?
Poter
scegliere ci rende unici, una unicità che in realtà temiamo perché la
libertà è impegnativa; infatti, tendiamo a nasconderci a noi stessi, a
scomparire nella routine, nell’omologazione, nel «come tutti» che ci rassicura
e garantisce esistenza (ma non vita). Evitiamo la solitudine buona (che è
unicità non isolamento) e ci perdiamo nelle cose del mondo, quando siamo fatti
per stare di fronte al mondo.
Lo
spiega bene Jon Fosse, recente Nobel per la letteratura: «L’intera ideologia
contemporanea, propagata quotidianamente dai media, ci dice che è questo che
dobbiamo fare, scomparire nelle cose, sotto forma di produttori e consumatori,
dobbiamo chiuderci nel mondo per sfuggire a noi stessi, alla nostra solitudine
interiore, che non viene vista come qualcosa che ci lega a Dio, attraverso il
silenzio, ma come qualcosa di spaventoso, minaccioso: abbiamo paura di noi
stessi, e di Dio, molto semplicemente» («Il mistero della fede»).
La
paura evita l’istante, preferisce il «distante». Ma diventa eterno solo
l’istante (nel Medioevo i teologi parlavano di «nunc stans», l’adesso che
rimane) che sottraiamo al mondo e alle sue regole mortifere, alle sue
convenzioni e finzioni, trovandovi e immettendovi vita nuova a partire dalla
nostra unicità. Per questo ci vuole «attenzione» (tensione verso
ciò che ho davanti) e «intenzione» (impegno verso ciò che ho di
fronte), altrimenti sparisco nelle cose, il mondo mi inghiotte. Solo la scelta
della vita sottrae il tempo a lancette e schermi: essere riempiti e riempire
l’attimo scegliendo di aumentare la vita, non la morte, in me e attorno a me. Tutto
il resto è tempo perso, morto, nel senso che «è passato».
Tutto
questo può sembrare lontano dal quotidiano, ma ne è la sostanza, basta forse un
esempio che ciascuno poi adatterà al suo vissuto. Per me è eterna un’ora
di lezione in cui metto: attenzione alla vita di ogni studente che mi capita di
fronte e intenzione per far sì che l’ora serva a quella vita per crescere.
Scelgo il presente, scelgo il mio studente: lo vorrei in classe se non ci
fosse, lo vorrei nel mondo se non fosse nato. Per fare così devo però tirar
fuori più vita da me, prima che da lui, una vita nuova. Questo comporta sì
fatica ma anche gioia, perché l’ora trabocca di senso, non è un’ora di italiano
a 17 euro, ma di vita che non muore e non c’era (da dove sgorghi richiede un
altro articolo). Il tempo, circolare o lineare, che quantifichiamo con ombre,
sabbia o lancette, è abbracciato e assunto in un altro tempo, che non è
quantificato ma qualificato: dalla vita che scelgo. Noi siamo tempo
incarnato e quando tocchiamo l’eterno è la carne che si eterna. Il sogno
del transumanesimo è riuscirci con la tecnologia, sottraendo la coscienza al
supporto carnale (mortale) e impiantarla in uno di silicio (immortale). In
realtà questo è possibile già ora, e proprio nella carne.
Dante
lo chiamava «trasumanare», che non era però andare oltre l’umano per
raggiungere il paradiso, ma andare in paradiso per compiere l’umano.
E
non dopo la morte (in paradiso come all’inferno non ci si va, ci si è), adesso,
come esclama il protagonista delle «Notti bianche» di Dostoevskij: «Dio
mio! Un intero attimo di beatitudine! È forse poco sia pure nell’intera vita di
un uomo?».
Figuriamoci
uno all’ora…
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