venerdì 31 ottobre 2025

INTERIORITA', UNITA', AMORE, GIOIA

 


DISCORSO DEL SANTO PADRE LEONE XIV

AGLI EDUCATORI 

IN OCCASIONE DEL

 GIUBILEO

 DEL MONDO EDUCATIVO

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AR  - DE  - EN  - ES  - FR  - IT  - PL

Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!

Sono molto contento di potervi incontrare: educatori provenienti da tutto il mondo e impegnati ad ogni livello, dalla Scuola elementare all’Università.

Come sappiamo, la Chiesa è Madre e Maestra (cfr S. Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et magistra, 15 maggio 1961, 1), e voi contribuite a incarnarne il volto per tanti alunni e studenti alla cui educazione vi dedicate. Grazie infatti alla luminosa costellazione di carismi, metodologie, pedagogie ed esperienze che rappresentate, e grazie al vostro impegno “polifonico” nella Chiesa, nelle Diocesi, in Congregazioni, Istituti religiosi, associazioni e movimenti, voi garantite a milioni di giovani una formazione adeguata, tenendo sempre al centro, nella trasmissione del sapere umanistico e scientifico, il bene della persona.

Anch’io sono stato insegnante nelle Istituzioni educative dell’Ordine di Sant’Agostino e vorrei perciò condividere con voi la mia esperienza, riprendendo quattro aspetti della dottrina del Doctor Gratiae che considero fondamentali per l’educazione cristiana: l’interiorità, l’unità, l’amore e la gioia. Sono principi che vorrei diventassero i cardini di un cammino da fare insieme, facendo di questo incontro l’inizio di un percorso comune di crescita e arricchimento reciproco.

Circa l’interiorità, Sant’Agostino dice che «il suono delle nostre parole percuote le orecchie, ma il vero maestro sta dentro» (In Epistolam Ioannis ad Parthos Tractatus 3,13), e aggiunge: «Quelli che lo Spirito non istruisce internamente, se ne vanno via senza aver nulla appreso» (ibid.). Ci ricorda, così, che è un errore pensare che per insegnare bastino belle parole o buone aule scolastiche, laboratori e biblioteche. Questi sono solo mezzi e spazi fisici, certamente utili, ma il Maestro è dentro. La verità non circola attraverso suoni, muri e corridoi, ma nell’incontro profondo delle persone, senza il quale qualsiasi proposta educativa è destinata a fallire.

Noi viviamo in un mondo dominato da schermi e filtri tecnologici spesso superficiali, in cui gli studenti, per entrare in contatto con la propria interiorità, hanno bisogno di aiuto. E non solo loro. Anche per gli educatori, infatti, frequentemente stanchi e sovraccarichi di compiti burocratici, è reale il rischio di dimenticare ciò che S. John Henry Newman sintetizzava con l’espressione: cor ad cor loquitur (“il cuore parla al cuore”) e che S. Agostino raccomandava, dicendo: «Non guardare fuori. Ritorna a te stesso. La verità risiede dentro di te» (De vera religione, 39, 72). Sono espressioni che invitano a guardare alla formazione come a una via su cui insegnanti e discepoli camminano insieme (cfr S. Giovanni Paolo II, Cost. ap. Ex corde Ecclesiae, 15 agosto 1990, 1), consapevoli di non cercare invano ma, al tempo stesso, di dover cercare ancora, dopo aver trovato. Solo questo sforzo umile e condiviso – che nei contesti scolastici si configura come progetto educativo –  può portare alunni e docenti ad avvicinarsi alla verità.

E veniamo così alla seconda parola: unità. Come forse sapete, il mio “motto” è: In Illo uno unum. Anche questa è un’espressione agostiniana (cfr Ennaratio in Psalmum 127, 3), che ricorda che solo in Cristo troviamo veramente unità, come membra unite al Capo e come compagni di viaggio nel percorso di continuo apprendimento della vita.

Questa dimensione del “con”, costantemente presente negli scritti di Sant’Agostino, è fondamentale nei contesti educativi, come sfida a “decentrarsi” e come stimolo a crescere. Per questa ragione, ho deciso di riprendere e attualizzare il progetto del Patto Educativo Globale, che è stato una delle intuizioni profetiche del mio venerato predecessore, Papa Francesco. Del resto, come insegna il Maestro di Ippona, il nostro essere non ci appartiene: «La tua anima – dice – […] non è più tua, ma di tutti i fratelli» (Ep. 243, 4, 6). E se ciò è vero in senso generale, lo è a maggior ragione nella reciprocità tipica dei processi educativi, in cui la condivisione del sapere non può che configurarsi come un grande atto d’amore.

Infatti proprio questa – amore – è la terza parola. Fa tanto riflettere, in merito, un distico agostiniano che afferma: «L’amore di Dio è il primo che viene comandato, l’amore del prossimo è il primo che si deve praticare» (In Evangelium Ioannis Tractatus 17, 8). In campo formativo, allora, ciascuno potrebbe chiedersi quale sia l’impegno posto per intercettare le necessità più urgenti, quale lo sforzo per costruire ponti di dialogo e di pace, anche all’interno delle comunità docenti, quale la capacità di superare preconcetti o visioni limitate, quale l’apertura nei processi di co-apprendimento, quale lo sforzo di venire incontro e rispondere alle necessità dei più fragili, poveri ed esclusi. Condividere la conoscenza non è sufficiente per insegnare: serve amore. Solo così essa sarà proficua per chi la riceve, in sé stessa e anche e soprattutto per la carità che veicola. L’insegnamento non può mai essere separato dall’amore, e una difficoltà attuale delle nostre società è quella di non saper più valorizzare a sufficienza il grande contributo che insegnanti ed educatori danno, in merito, alla comunità. Ma facciamo attenzione: danneggiare il ruolo sociale e culturale dei formatori è ipotecare il proprio futuro, e una crisi della trasmissione del sapere porta con sé una crisi della speranza.

E l’ultima parola-chiave è gioia. I veri maestri educano con un sorriso e la loro scommessa è di riuscire a svegliare sorrisi nel fondo dell’anima dei loro discepoli. Oggi, nei nostri contesti educativi, preoccupa veder crescere i sintomi di una fragilità interiore diffusa, a tutte le età. Non possiamo chiudere gli occhi davanti a questi silenziosi appelli di aiuto, anzi dobbiamo sforzarci di individuarne le ragioni profonde. L’intelligenza artificiale, in particolare, con la sua conoscenza tecnica, fredda e standardizzata, può isolare ulteriormente studenti già isolati, dando loro l’illusione di non aver bisogno degli altri o, peggio ancora, la sensazione di non esserne degni. Il ruolo degli educatori, invece, è un impegno umano, e la gioia stessa del processo educativo è tutta umana, una «fiamma che fonde insieme le anime e di molte ne fa una sola» (S. Agostino, Confessiones, IV, 8,13).

Perciò, carissimi, vi invito a fare di questi valori – interioritàunitàamore e gioia – dei “punti cardine” della vostra missione verso i vostri allievi, ricordando le parole di Gesù: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Fratelli e sorelle, vi ringrazio per il lavoro prezioso che svolgete! Vi benedico di cuore e prego per voi.

www.vatican.va



 

HALLOWIN

 


La festa 

di Halloween 

come

 esorcizzazione 

della morte





di Giuseppe Savagnone 

 

I vivi e i morti

All’evidente declino della risonanza sociale delle feste cristiane dei santi e dei morti corrisponde, in Italia come nel resto del mondo occidentale, la trionfale affermazione di quella di Halloween, ormai entrata nel costume e ben più sentita di quelle della tradizione religiosa.

Le sue origini sono antichissime e risalgono all’Irlanda pre-crisitiana. Veniva celebrata il 31 ottobre, che nel calendario celtico segnava la fine della stagione del raccolto e l’inizio dell’inverno. Questa festa, col nome di Samhain, già due millenni  fa rappresentava un vero e proprio capodanno per le popolazioni delle isole britanniche, da cui poi, alla metà dell’Ottocento, con l’ondata migratoria verso gli Stati Uniti, fu portata oltre oceano, dove trovò ampia diffusione.

Secondo la credenza originaria, in questa giornata il mondo terreno e quello dell’aldilà potevano incontrarsi. Gli spiriti dei morti ritornavano nel mondo dei vivi e bisognava in qualche modo fronteggiarli, perché non sempre avevano un atteggiamento amichevole. Sulla più antica festa stagionale, legata ai ritmi della natura, si è  innestata, infatti, la leggenda irlandese del malvagio fabro Jack che, dopo aver promesso l’anima al diavolo, l’aveva più volte ingannato, cosicché, alla sua morte, neppure l’inferno l’aveva voluto accogliere ed era stato condannato a vagare in un’eterna oscurità, illuminata solo dalla debole luce di una candela custodita dentro una rapa svuotata.

Racconta la leggenda che durante la notte di Halloween Jack, insieme al ad altri spiriti,  vaga alla ricerca di un rifugio. Alla radice di quella che ormai è diventata una festosa usanza sta questa visione problematica del rapporto tra i vivi e i morti. Le maschere spaventose, le decorazioni con pipistrelli, scheletri e altri simboli macabri rappresentano l’evoluzione moderna di rituali antichi il cui  scopo era di confondere gli spiriti che, nella notte del 31 ottobre, si pensava vagassero sulla terra.

La stessa formula di rito “trick or treat”,  “dolcetto o scherzetto”, che i bambini ripetono, girando di casa in casa, chiedendo dolci in dono,  nasconde in realtà  l’idea originaria di una minaccia, a cui corrisponde  una negoziazione per evitare scherzi spiacevoli. L’alternativa posta è infatti tra trick, che significa “imbroglio”, “malizia”, “scherzo di cattivo genere”, e treat, che invece è il dono. E le zucche-lanterne fuori di casa, che col tempo hanno sostituito la rape, nel loro significato proprio servono ad esorcizzare la potenziale minaccia dei defunti.

Una lettura alternativa di Halloween

Non si può non confrontare questo messaggio con quello delle feste cristiane, dei santi e dei defunti, percepiti come protettori e amici, anzi, in alcuni contesti culturali – specie al sud – , come portatori di doni. È evidente che siamo davanti a due modi molto diversi di concepire la morte, dove il discrimine è la concezione cristiana che la vede come una purificazione volta a un compimento e non come la caduta in un mondo di ombre dove non c’è redenzione.

È comprensibile la resistenza della Chiesa cattolica al dilagare di una festività estranea alla nostra tradizione culturale e spirituale e importata dagli Stati Uniti sull’onda di un fortissimo incentivo consumistico. Papa Francesco parlava, a questo proposito, di una «cultura negativa sulla morte e sui morti».

Vi è però chi sottolinea che si tratta di una celebrazione il cui significato non è in fondo diverso da quello delle solennità cristiane: esorcizzare la morte e il terrore che essa ha sempre indotto nel cuore umano. Diversa, si dice, è solo la via per raggiungere questo obiettivo. Alla cupa visione che svaluta il mondo terreno esaltando la vita dell’oltretomba, Halloween contrappone, paganamente, una prospettiva ludica, in cui la morte è sconfitta da una rappresentazione in fondo parodistica, che alleggerisce l’esperienza della morte applicandole  una buona dose di ironia.

«C’è chi, la notte del 31 ottobre, accende una candela dentro una zucca per ridere della paura e c’è chi, la stessa notte, accende una candela davanti a un altare per avere paura di ridere. Indovinate chi si diverte di più», scrive su «Il Dolomiti» Alessandro Giacomini. «Halloween è la notte in cui la gente ride della morte, esorcizza l’ignoto, prende in giro il male con ironia, tutto ciò che il potere religioso, per secoli, ha usato per tenere le persone soggiogate: la paura, l’oscurità, il peccato».

In questa lettura, Halloween diventa il simbolo di una società che ormai ha imparato a convivere con la finitezza della vita senza dovere fare i conti con la morte, anzi ridendoci su. Una interpretazione da prendere sul serio, perché permette di capire assai meglio della ricostruzione storico-filologica il successo di questa ricorrenza.

Corrisponde ad essa quella rimozione della morte che si registra nelle nostre società, rispetto a quelle del passato, in cui essa aveva un ruolo rilevante nell’esperienza dei vivi.

Prima il morente chiamava intorno a sé la famiglia e la sua fine implicava la trasmissione di una eredità, di un messaggio da conservare gelosamente nella memoria. Oggi si muore in ospedale o nell’ospizio, e se l’evento si verifica a casa, i bambini vengono mandati presso una famiglia amica perché non assistano. E la storia che ha vissuto chi è venuto prima non ha più alcun peso in un tempo che ha vissuto la “morte del padre” come radicale sganciamento dal suo esempio e dal suo insegnamento.

Il fatto è che nella nostra società è venuto meno «un orizzonte simbolico capace di far “vivere socialmente” il morire e che permetta di parlare della morte e insieme di parlare con il morente»; non ci sono più «parole capaci di far vivere socialmente il morire». Subentra la volontà di dominio che caratterizza la società tecnologica: «La morte in ospedale (…) finisce per essere una morte burocratizzata, dove il morire si dissolve in un contesto socio-organizzativo nel quale il funzionale si sostituisce allumano. E insieme, una morte tecnicizzata, dove il morire tende ad essere sempre più programmato e pianificato» (Viafora).

A questo fenomeno sociale si accompagna quello culturale che tende a valorizzare la finitezza come tale, annullando il rimando a un “oltre” che essa, logicamente suppone. A differenza che nell’età moderna, dove il soggetto tendeva ad assolutizzarsi e a sostituire Dio (in certe filosofie si scriveva “Io” con I maiuscola), oggi ci si riconosce relativi, ma senza che questo implichi il riferimento a un Assoluto. Dio è diventato superfluo e con Lui anche l’idea di un destino eterno vissuto in comunione con Lui e separati da Lui. Chi parla più di paradiso e di inferno?

La censura sulla morte

Come stupirsi che anche il rapporto con i morti si sia progressivamente estenuato fino, in molti casi – soprattutto tra i giovani – , a scomparire? Certo, il 2 novembre molti andranno ancora al cimitero a portare un mazzo di fiori. I riti continueranno ancora per un certo tempo ad attestare un legame, ma la percezione collettiva va in una direzione opposta.

E anche nella vita personale il pensiero della morte è ormai censurato. Riaffiora soprattutto in occasione di tragici eventi – incidenti, morti premature per malattia – che improvvisamente ne rivelano la silenziosa prossimità. Ma tutto, nella nostra società, – con i suoi ritmi frenetici, il suo consumismo che sazia e stordisce, i suoi miraggi di successo – , è congegnato in modo da farcela dimenticare. Non abbiamo più eppure il tempo di pensarci!

Perciò Halloween. Ha ragione in fondo chi vede in questa festa una radicale alternativa alla visione cristiana. Lo sbaglio, se mai, è nel parlare di antidoto alla paura. Di fronte alla morte non si ha paura, perché essa non è un evento finale che conclude l’esistenza, ma l’orizzonte entro cui essa si svolge, traendone il senso della sua finitezza. I filosofi esistenzialisti hanno parlato di “angoscia”, che è piuttosto la  presa di coscienza di questo orizzonte. E che questa presa di coscienza costituisca  un elemento importante dell’esperienza umana lo testimoniano tutte le filosofie e tutte le forme di arte (penso qui, per portare solo un recente esempio, al bellissimo film «Il settimo sigillo», di Ingmar Bergman).  

Forse perché è dal dialogo con la morte e dalla percezione del nulla che la vita stessa trae la sua ricchezza e la sua gioia, di cui sono fonte incessante lo stupore e la gratitudine di fronte all’esperienza dell’essere. E ci sarebbe da chiedersi se non sia proprio l’avere esorcizzato la domanda sulla morte – anche trasformando la festa dei santi e quella dei defunti nell’ennesimo evento consumistico – ad avere favorito quel nichilismo, denunziato da Galimberti, che svuota oggi la nostra esistenza.

Perché, come ha detto papa Francesco, proprio a proposito di Halloween, «dimenticare la morte è anche il suo inizio; chi dimentica la morte ha già iniziato a morire».

 www.tuttavia.eu

 

lunedì 27 ottobre 2025

NUOVE MAPPE DI SPERANZA

 


Il Papa: educare è promuovere dignità, giustizia, fiducia in un mondo di conflitti

Diffusa oggi, 28 ottobre, la Lettera apostolica “Disegnare nuove mappe di speranza” in occasione dei sessant'anni dalla Dichiarazione conciliare “Gravissimum educationis”, documento che Leone XIV rilancia e integra con le sfide attuali. Ribadita la necessità della formazione integrale della persona, che non può essere ridotta a un algoritmo, della famiglia come primo luogo educativo, e incoraggiato il lavoro di rete: “Meno cattedre e più tavole dove sedersi insieme, senza gerarchie inutili"

Antonella Palermo - Città del Vaticano

Davanti ai tanti milioni di bambini nel mondo ancora senza accesso alla scolarizzazione primaria, e alle drammatiche situazioni di emergenza educativa provocata da guerre, migrazioni, diseguaglianze e diverse forme di povertà, come è interpellata l’educazione cristiana? Sono solo alcune delle domande da cui prende le mosse Papa Leone XIV nella sua Lettera apostolica “Disegnare nuove mappe di speranza” firmata ieri, 27 ottobre, e oggi diffusa, in occasione del 60mo anniversario della Dichiarazione conciliare Gravissimum Educationis. Un testo, sottolinea Leone, che in un ambiente educativo complesso, frammentato, digitalizzato come quello attuale, “non ha perso mordente”, anzi mostra “una tenuta sorprendente”.

LEGGI QUI IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA APOSTOLICA DI LEONE XIV

Quel messaggio di slancio delle comunità educative a costruire ponti in modo da offrire, con creatività, formazione professionale e civile a scuola e in università, si rivela oggi infatti quanto mai valido e urgente, afferma il Papa. La direzione da seguire è pertanto quella già indicata nel documento del Vaticano II che ha dato origine a una costellazione di opere e carismi, patrimonio spirituale e pedagogico prezioso.

I carismi educativi non sono formule rigide

Spiccato è il dinamismo che attraversa la Lettera di Leone XIV che invita a usare i carismi educativi sempre come risposta “originale” ai bisogni di ogni epoca. Citando Sant’Agostino - il quale aveva compreso che il maestro autentico suscita il desiderio della verità, educa la libertà a leggere i segni e ad ascoltare la voce interiore -, il Pontefice accenna al contributo che nei secoli è stato maturato in questo ambito: dal Monachesimo, capace, anche nei luoghi più impervi, di portare avanti questa tradizione, all’opera degli Ordini Mendicanti, e alla Ratio Studiorum in cui confluirono il filone della scolastica e quella della spiritualità ignaziana. Ricorda poi l’esperienza di San Giuseppe Calasanzio con le scuole gratuite per i poveri, quella di San Giovanni Battista de La Salle, con l’attenzione ai figli di contadini e operai a cui si sarebbero dedicati i Fratelli delle Scuole Cristiane, e ancora l’impegno di San Marcellino Champagnat a superare ogni discriminazione nell’opera educativa, quello storico di San Giovanni Bosco con il suo “metodo preventivo”. Non tralascia, il Papa, di nominare il coraggio di tante donne che, ricorda, hanno aperto varchi per le ragazze, i migranti, gli ultimi: Vicenza Maria López y Vicuña, Francesca Cabrini, Giuseppina Bakhita, Maria Montessori, Katharine Drexel o Elizabeth Ann Seton.

L’educazione cristiana è opera corale

Ci tiene molto, il Papa, a sottolineare l’importanza del “noi”, a ribadire che “nessuno educa da solo”: nella comunità educante il docente, lo studente, la famiglia, il personale amministrativo e di servizio, i pastori e la società civile convergono per generare vita. La ripresa del pensiero di San John Newman – che proprio nel contesto del Giubileo del mondo educativo viene dichiarato co-patrono insieme a San Tommaso d’Aquino – è qui particolarmente pertinente per “invitare – spiega il Papa - a rinnovare l’impegno per una conoscenza tanto intellettualmente responsabile e rigorosa quanto profondamente umana”. Nel mettere in risalto la vivacità da alimentare negli ambienti educativi, afferma che occorre “uscire dalle secche col recuperare una visione empatica e aperta”. E aggiunge:

Non si devono separare il desiderio e il cuore dalla conoscenza: significherebbe spezzare la persona. L’università e la scuola cattolica sono luoghi dove le domande non vengono tacitate, e il dubbio non è bandito ma accompagnato.

Educare è un compito d’amore, ricorda il Successore di Pietro che parla dell’insegnamento come di “un mestiere di promesse” giacché si promette tempo, fiducia, competenza, giustizia, misericordia, coraggio della verità, balsamo della consolazione.

Una persona non si riduce a un algoritmo

Nella Lettera apostolica Leone XIV riprende quel concetto centrale contenuto nel documento conciliare che mette in guardia da ogni riduzione dell’educazione ad “addestramento funzionale o strumento economico” e ribadisce che “una persona non è un ‘profilo di competenze’, non si riduce a un algoritmo prevedibile, ma un volto, una storia, una vocazione”. E insiste:

L’educazione non misura il suo valore solo sull’asse dell’efficienza: lo misura sulla dignità, sulla giustizia, sulla capacità di servire il bene comune.

Ricostruire la fiducia in un mondo di conflitti

Secondo una visione che non vuole essere meramente nostalgica ma ben radicata al presente, il testo di Papa Leone usa la metafora delle stelle nel firmamento per dire che i principi a cui si fa riferimento sono “stelle fisse” e “dicono che la verità si cerca insieme; che la libertà non è capriccio, ma risposta; che l’autorità non è dominio, ma servizio”. Da qui ancora la riaffermazione di non costruire muri, di educare alla mondialità e alla concordia tra persone e popoli:

L’educazione cattolica ha il compito di ricostruire fiducia in un mondo segnato da conflitti e paure, ricordando che siamo figli e non orfani: da questa coscienza nasce la fraternità.

Intrecciare fede, cultura e vita

L’accento posto sulla centralità della persona nell’opera educativa – come Papa Francesco evidenziava anche nella Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona -, porta il Pontefice a un ricordo personale che lo riporta alla sua missione in Perù, nella “amata diocesi di Chiclayo” dove, racconta, visitando l’università cattolica San Toribio de Mogrovejo, rassicurava la comunità accademica: non si nasce professionisti – diceva all’epoca -, ogni percorso universitario si costruisce passo a passo, libro a libro, anno per anno, sacrificio dopo sacrificio. Torna ancora il modo di concepire da un lato la scuola cattolica e dall’altro il corpo educante, tenuto conto che non bastano gli aggiornamenti tecnici per ritenersi al passo coi tempi, ma sempre è necessario il discernimento:

La scuola cattolica è un ambiente in cui fede, cultura e vita si intrecciano. Non è semplicemente un’istituzione, ma un ambiente vivo in cui la visione cristiana permea ogni disciplina e ogni interazione. Gli educatori sono chiamati a una responsabilità che va oltre il contratto di lavoro: la loro testimonianza vale quanto la loro lezione. Per questo, la formazione degli insegnanti — scientifica, pedagogica, culturale e spirituale — è decisiva.

Fare rete, la famiglia resta il primo luogo educativo

L’espressione “alleanza educativa” che ricorre nel testo della Lettera, è emblematica per precisare quanto la famiglia non possa essere sostituita da altre agenzie educative: si tratta di collaborare e di essere consapevoli che la priorità educativa attiene a questo nucleo. Necessari sono l’ascolto, l’intenzionalità, la corresponsabilità: “È fatica e benedizione: quando funziona, suscita fiducia; quando manca, tutto si fa più fragile”. Del resto, lo stesso Concilio pone questa responsabilità dei genitori a fondamento di una sana istruzione. Se il mondo è interconnesso anche la formazione deve esserlo, promuovendo la partecipazione a ogni livello e abbandonando rivalità retaggio del passato e unendo ogni sforzo per una sana e fruttuosa convergenza tra scuole parrocchiali e collegi, università e istituti superiori, centri di formazione professionale, movimenti, piattaforme digitali, iniziative di service-learning e pastorali scolastiche, universitarie e culturali. Ciò che conta, secondo la visione di Papa Leone, è coordinare la pluralità dei carismi per comporre un quadro “coerente e fecondo”, facendo tesoro di eventuali differenze metodologiche e strutturali le quali vanno considerate delle risorse, non delle zavorre.

Il futuro ci impone di imparare a collaborare di più, a crescere insieme.

L’educazione cattolica unisca giustizia sociale e ambientale

L’obiettivo da cui non bisogna scostarsi è quello della formazione integrale della persona, in cui la fede viene considerata non “materia aggiunta”, ma “respiro che ossigena ogni altra materia”. Solo così, specifica la Lettera, l’educazione cattolica diventa “lievito” per un umanesimo integrale che abiti le domande del nostro tempo. E il nostro tempo, purtroppo, segnato in più parti dalle guerre, chiede proprio un’educazione alla pace che, si precisa ancora una volta, non è assenza di conflitto ma “forza mite che rifiuta la violenza. Un’educazione alla pace ‘disarmata e disarmante’ insegna a deporre le armi della parola aggressiva e dello sguardo che giudica, per imparare – sottolinea il Vescovo di Roma - il linguaggio della misericordia e della giustizia riconciliata”.

Dimenticare la nostra comune umanità ha generato fratture e violenze; e quando la terra soffre, i poveri soffrono di più. L’educazione cattolica non può tacere: deve unire giustizia sociale e giustizia ambientale, promuovere sobrietà e stili di vita sostenibili, formare coscienze capaci di scegliere non solo il conveniente ma il giusto.

Le tecnologie servano la persona, senza sostituirla

Mentre Leone XIV, attingendo sempre al Vaticano II, rimette in guardia dal rischio di “subordinazione dell’istruzione al mercato del lavoro e alle logiche spesso ferree e disumane della finanza”, in merito alle tecnologie lancia un messaggio chiaro:

devono arricchire il processo di apprendimento, non impoverire relazioni e comunità. Un’università e una scuola cattolica senza visione rischiano l’efficientismo senza anima, la standardizzazione del sapere, che diventa poi impoverimento spirituale.

In particolare, il Papa afferma che “nessun algoritmo potrà sostituire ciò che rende umana l’educazione: poesia, ironia, amore, arte, immaginazione, la gioia della scoperta e perfino, l’educazione all’errore come occasione di crescita”. E aggiunge, entrando nel vivo del dibattito pubblico contemporaneo, che “l’intelligenza artificiale e gli ambienti digitali vanno orientati alla tutela della dignità, della giustizia e del lavoro; vanno governati con criteri di etica pubblica e partecipazione; vanno accompagnati da una riflessione teologica e filosofica all’altezza”.

Meno cattedre e più tavole dove sedersi insieme, senza gerarchie inutili

Raccogliendo l’eredità profetica di Papa Francesco, dunque, con la Lettera “Disegnare nuove mappe di speranza”, Papa Leone aggiunge tre priorità ai sette percorsi già illustrati dal predecessore nel Patto Educativo Globale:

La prima riguarda la vita interiore: i giovani chiedono profondità; servono spazi di silenzio, discernimento, dialogo con la coscienza e con Dio. La seconda riguarda il digitale umano: formiamo all’uso sapiente delle tecnologie e dell’IA, mettendo la persona prima dell’algoritmo e armonizzando intelligenze tecnica, emotiva, sociale, spirituale ed ecologica. La terza riguarda la pace disarmata e disarmante: educhiamo a linguaggi non violenti, riconciliazione, ponti e non muri; «Beati gli operatori di pace» (Mt. 5,9) diventi metodo e contenuto dell’apprendere.

Meno sterili contrapposizioni, più sinfonia dello Spirito

La richiesta lanciata dalla Lettera è, in conclusione, quella di disarmare le parole, alzare lo sguardo, custodire il cuore. Il mandato alla comunità educante, tuttavia, non ignora le fatiche: “l’iper-digitalizzazione può frantumare l’attenzione; la crisi delle relazioni può ferire la psiche; l’insicurezza sociale e le disuguaglianze possono spegnere il desiderio”. Proprio in questo quadro del presente, servono “qualità e coraggio”, da praticare in vista di una sempre maggiore inclusività che non sia indifferente verso le povertà e le fragilità, perché, rimarca il Papa, “la gratuità evangelica non è retorica: è stile di relazione, metodo e obiettivo”. Se così non fosse, si perderebbero i poveri, ma:

Perdere i poveri equivale a perdere la scuola stessa.

 

domenica 26 ottobre 2025

UNA COMUNITA' IN CAMMINO


 Nella Basilica di San Pietro, Papa Leone XIV ha presieduto la Santa Messa per il Giubileo delle Équipe Sinodali e degli organi di partecipazione, celebrando la XXX Domenica del Tempo Ordinario. Nel cuore del suo ministero, il Pontefice ha proposto una riflessione profonda sul volto della Chiesa sinodale, invitando i fedeli a riscoprire la comunione come via di rinnovamento e di conversione.

«La Chiesa – ha detto – non è una semplice istituzione religiosa, né si identifica con le sue gerarchie e strutture, ma è il segno visibile dell’unione tra Dio e l’umanità».
Richiamandosi alla parabola del fariseo e del pubblicano, Leone XIV ha messo in guardia dal rischio di un cristianesimo centrato sull’“io” invece che sul “noi”, chiedendo una Chiesa umile, capace di ascolto, dialogo e servizio.

L’omelia si inserisce nel cammino giubilare del 2025 e nel solco dell’eredità di Papa Francesco, richiamata più volte dal Santo Padre, che ha invitato i fedeli a “camminare insieme, mai come viaggiatori solitari”.

 Omelia di Papa Leone XIV

Fratelli e sorelle,

celebrando il Giubileo delle équipe sinodali e degli organi di partecipazione, siamo invitati a contemplare e a riscoprire il mistero della Chiesa, che non è una semplice istituzione religiosa né si identifica con le gerarchie e con le sue strutture. La Chiesa, invece, come ci ha ricordato il Concilio Vaticano II, è il segno visibile dell’unione tra Dio e l’umanità, del suo progetto di radunarci tutti in un’unica famiglia di fratelli e sorelle e di farci diventare suo popolo: un popolo di figli amati, tutti legati nell’unico abbraccio del suo amore.

Guardando al mistero della comunione ecclesiale, generata e custodita dallo Spirito Santo, possiamo comprendere anche il significato delle équipe sinodali e degli organi di partecipazione; essi esprimono quanto accade nella Chiesa, dove le relazioni non rispondono alle logiche del potere ma a quelle dell’amore. Le prime – per ricordare un monito costante di Papa Francesco – sono logiche “mondane”, mentre nella Comunità cristiana il primato riguarda la vita spirituale, che ci fa scoprire di essere tutti figli di Dio, fratelli tra di noi, chiamati a servirci gli uni gli altri.

Regola suprema, nella Chiesa, è l’amore: nessuno è chiamato a comandare, tutti sono chiamati a servire; nessuno deve imporre le proprie idee, tutti dobbiamo reciprocamente ascoltarci; nessuno è escluso, tutti siamo chiamati a partecipare; nessuno possiede la verità tutta intera, tutti dobbiamo umilmente cercarla, e cercarla insieme.

Insieme

Proprio la parola “insieme” esprime la chiamata alla comunione nella Chiesa. Papa Francesco ce lo ha ricordato anche nel suo ultimo Messaggio per la Quaresima: «Camminare insieme, essere sinodali, questa è la vocazione della Chiesa. I cristiani sono chiamati a fare strada insieme, mai come viaggiatori solitari. Lo Spirito Santo ci spinge ad uscire da noi stessi per andare verso Dio e verso i fratelli, e mai a chiuderci in noi stessi. Camminare insieme significa essere tessitori di unità, a partire dalla comune dignità di figli di Dio».

Camminare insieme. Apparentemente è quello che fanno i due personaggi della parabola che abbiamo appena ascoltato nel Vangelo. Il fariseo e il pubblicano salgono tutti e due al Tempio a pregare, potremmo dire che “salgono insieme” o comunque si ritrovano insieme nel luogo sacro; eppure, essi sono divisi e tra loro non c’è nessuna comunicazione. Tutti e due fanno la stessa strada, ma il loro non è un camminare insieme; tutti e due si trovano nel Tempio, ma uno si prende il primo posto e l’altro rimane all’ultimo; tutti e due pregano il Padre, ma senza essere fratelli e senza condividere nulla.

Ciò dipende soprattutto dall’atteggiamento del fariseo. La sua preghiera, apparentemente rivolta a Dio, è soltanto uno specchio in cui egli guarda sé stesso, giustifica sé stesso, elogia sé stesso. Egli «era salito per pregare; ma non volle pregare Dio, bensì lodare sé stesso», sentendosi migliore dell’altro, giudicandolo con disprezzo e guardandolo dall’alto in basso. È ossessionato dal proprio io e, in tal modo, finisce per ruotare intorno a sé stesso senza avere una relazione né con Dio e né con gli altri.

Quando l’io prevale sul noi

Fratelli e sorelle, questo può succedere anche nella Comunità cristiana. Succede quando l’io prevale sul noi, generando personalismi che impediscono relazioni autentiche e fraterne; quando la pretesa di essere migliori degli altri, come fa il fariseo col pubblicano, crea divisione e trasforma la Comunità in un luogo giudicante ed escludente; quando si fa leva sul proprio ruolo per esercitare il potere e occupare spazi.

È al pubblicano, invece, che dobbiamo guardare. Con la sua stessa umiltà, anche nella Chiesa dobbiamo tutti riconoscerci bisognosi di Dio e bisognosi gli uni degli altri, esercitandoci nell’amore vicendevole, nell’ascolto reciproco, nella gioia del camminare insieme, sapendo che «il Cristo appartiene a coloro che sentono umilmente, non a coloro che si innalzano al di sopra del gregge».

Le équipe sinodali e gli organi di partecipazione sono immagine di questa Chiesa che vive nella comunione. E oggi vorrei esortarvi: nell’ascolto dello Spirito, nel dialogo, nella fraternità e nella parresìa, aiutateci a comprendere che, nella Chiesa, prima di qualsiasi differenza, siamo chiamati a camminare insieme alla ricerca di Dio, per rivestirci dei sentimenti di Cristo; aiutateci ad allargare lo spazio ecclesiale perché esso diventi collegiale e accogliente.

Dialogo

Questo ci aiuterà ad abitare con fiducia e con spirito nuovo le tensioni che attraversano la vita della Chiesa – tra unità e diversità, tradizione e novità, autorità e partecipazione –, lasciando che lo Spirito le trasformi, perché non diventino contrapposizioni ideologiche e polarizzazioni dannose. Non si tratta di risolverle riducendo l’una all’altra, ma di lasciarle fecondare dallo Spirito, perché siano armonizzate e orientate verso un discernimento comune. Come équipe sinodali e membri degli organismi di partecipazione sapete infatti che il discernimento ecclesiale richiede «libertà interiore, umiltà, preghiera, fiducia reciproca, apertura alle novità e abbandono alla volontà di Dio. Non è mai l’affermazione di un punto di vista personale o di gruppo, né si risolve nella semplice somma di pareri individuali». Essere Chiesa sinodale significa riconoscere che la verità non si possiede, ma si cerca insieme, lasciandosi guidare da un cuore inquieto e innamorato dell’Amore.

Umiltà

Carissimi, dobbiamo sognare e costruire una Chiesa umile. Una Chiesa che non sta dritta in piedi come il fariseo, trionfante e gonfia di sé stessa, ma si abbassa per lavare i piedi dell’umanità; una Chiesa che non giudica come fa il fariseo col pubblicano, ma si fa luogo ospitale per tutti e per ciascuno; una Chiesa che non si chiude in sé stessa, ma resta in ascolto di Dio per poter allo stesso modo ascoltare tutti. Impegniamoci a costruire una Chiesa tutta sinodale, tutta ministeriale, tutta attratta da Cristo e perciò protesa al servizio del mondo.

Su di voi, su noi tutti, sulla Chiesa sparsa nel mondo, invoco l’intercessione della Vergine Maria con le parole del Servo di Dio don Tonino Bello: «Santa Maria, donna conviviale, alimenta nelle nostre Chiese lo spasimo di comunione. […] Aiutale a superare le divisioni interne. Intervieni quando nel loro grembo serpeggia il demone della discordia. Spegni i focolai delle fazioni. Ricomponi le reciproche contese. Stempera le loro rivalità. Fermale quando decidono di mettersi in proprio, trascurando la convergenza su progetti comuni».

 Amore

Ci conceda il Signore questa grazia: essere radicati nell’amore di Dio per vivere in comunione tra di noi. Ed essere, come Chiesa, testimoni di unità e di amore.

 

KatoliKey

FARISEI o PUBBLICANI?


 DOMENICA XXX 

DEL TEMPO ORDINARIO (C) 

 26 Ottobre 2025

  

Sir 35,12-15b-17.20.22a; Sal 33 (34); 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14


 Commento di M. Augé B.

Il Signore ascolta il grido dei poveri, degli umili, di coloro che hanno il cuore ferito, e li salva da tutte le loro angosce. La speranza dei poveri si compie in Cristo; san Luca fa cominciare la missione di Gesù con la citazione di Is 61,1: “mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4,18).

 C’è una certa continuità tra le letture della domenica scorsa e quelle odierne; è ancora il tema della preghiera, infatti, che ritorna con insistenza, sia pure da un particolare angolo visuale, che è quello della speciale attenzione che Dio rivolge alla preghiera dell’umile e del povero. La prima lettura ci ricorda che Dio è giusto; non v’è presso di lui preferenze di persone e, quindi, non può essere né comprato, né corrotto. Davanti a lui non contano le apparenze. Egli esaudisce chi con umiltà e amore lo supplica. L’insegnamento della parabola del fariseo e del pubblicano, riportata dal vangelo, si muove sulla stessa linea: il pubblicano, che si riconosce umilmente peccatore, torna a casa giustificato; il fariseo, che si vanta delle sue opere e disprezza gli altri, non viene invece giustificato. Nella seconda lettura ascoltiamo san Paolo che, ormai al termine della sua vita, ne fa un bilancio fiducioso e sereno e si affida al Signore, giusto giudice, che gli darà la corona di giustizia. La società in cui viviamo esalta i potenti, i forti, coloro che con la loro attività hanno raggiunto denaro, sicurezza e prestigio. Sono essi ad avere successo ed a diventare i modelli a cui facciamo volentieri riferimento. Presso Dio invece è il povero, l’oppresso e l’umile che ha garanzia di successo. I criteri di valutazione appaiono rovesciati. Dio non misura con le misure umane. Egli guarda il cuore dell’uomo.            

 Il vangelo di questa domenica ci ammonisce a lasciare un po’ di spazio al Signore, a non presumere, a non pretendere, a non passare il tempo ad elencare i nostri meriti. Siamo tutti nudi davanti a Dio, tutti mendicanti. La giustificazione, cioè la salvezza, non è certo frutto della nostra giustizia, né delle nostre risorse di creature. La giustificazione è anzitutto un dono, è una grazia che viene dalla misericordia di Dio. Afferma san Giovanni che il cristiano non è figlio di Dio per nascita (Gv 1,13) ma perché è rinato, perché è stato rigenerato dall’alto mediante lo Spirito (Gv 3,5-8). Nella nostra vita tutto è dono, tutto è grazia. San Paolo riconosce che “per grazia di Dio” è quello che è (1Cor 15,10). D’altra parte, l’orazione colletta ci ricorda che per ottenere il dono di Dio, dobbiamo amare ciò che egli comanda; la giustificazione chiama in causa l’uomo che con la sua libertà è chiamato a corrispondere al dono di Dio. Infatti, la giustificazione non è un atto magico che avviene ineluttabilmente ma una azione che inserisce la nostra libertà in una situazione nuova originata dal dono di Dio.

 L’eucaristia è la mensa alla quale il Cristo invita i poveri, i piccoli e gli umili come al convito del regno di Dio (cf. Mt 5,3; Lc 6,20). Prima di avvicinarci alla comunione proclamiamo con il centurione del vangelo: “O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola e io sarò salvato” (cf. Mt 8,8). Ma l’eucaristia è anche il massimo della azione salvifica del Risorto e la anticipazione della condizione definitiva del salvato.

Liturgia e dintorni

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TAGLIO E CUCITO


 Quando interrogo gli altri studenti si distraggono.

 Schettini: “Non state lì a fare taglio e cucito”

 

Di redazione

 C’è chi, mentre l’insegnante interroga, abbassa lo sguardo e si isola. Sfoglia il diario, stacca la mente, comincia a giocare con penne e fogli. Vincenzo Schettini, insegnante di fisica, osserva la scena e interviene: “Aprite gli occhi quando siete a posto, non state lì a fare il taglio e il cucito.” Il riferimento è chiaro: l’interrogazione non è una pausa per chi non è coinvolto direttamente.

 Secondo Schettini, il momento in cui un compagno è alla lavagna rappresenta una possibilità preziosa anche per chi resta al banco. “L’interrogazione per voi che siete a posto è orocolato.” Lo dice due volte, con insistenza. Come a voler sottolineare che lì, proprio in quel frangente, si concentra un’occasione didattica che spesso viene ignorata.

Le domande sono sempre quelle, ma pochi le ascoltano

Dopo quasi vent’anni di insegnamento, Schettini si sorprende ancora nello scoprire che certi errori si ripetono. “Voi cadete sempre sulle stesse cose.” E la causa, secondo lui, è nella distrazione di fondo, nel non approfittare di ciò che si potrebbe apprendere indirettamente.

“Facciamo sempre le stesse domande, nelle quali naturalmente si ragiona”, spiega. Ma se l’attenzione non c’è, quei passaggi chiave non arrivano. Si perdono. E il giorno in cui tocca rispondere, si cade nello stesso punto.

Apprendimento doppio, se si è presenti

Il ragionamento si allarga: quello che si studia in fisica ha spesso legami con altri ambiti. Anche la matematica. E Schettini usa una metafora per rendere chiaro il concetto: “È un due per uno, è un supermercato.” Si impara un concetto, ma se ne porta a casa anche un altro.

Ciò che spiega alla lavagna oggi, lo riproporrà molte altre volte: “Questa roba che sto chiedendo oggi alla lavagna, io la chiederò altre centocinquanta miliardi di volte.” Insistere, riprendere, consolidare: fa parte del mestiere dell’insegnante. Ma ascoltare resta responsabilità di chi apprende.

Non basta esserci, bisogna esserci davvero

Lo dice senza alzare la voce, ma con fermezza: “Aprite gli occhi, provate a farla voi, ah, ho capito, sta facendo questo, non vi distraete.” Il problema non è il silenzio. È l’assenza di connessione. Schettini non chiede attenzione passiva. Chiede presenza attiva. La capacità di seguire anche quando non si è al centro.

E in fondo, è un invito a cambiare postura in classe. A trasformare ogni momento in una possibilità. Anche l’interrogazione di qualcun altro.

Orizzonte Scuola


sabato 25 ottobre 2025

DEMOCRAZIA A RISCHIO ?

 





di  Giuseppe Savagnone 

 

Il passaggio del Rubicone

La democrazia in Italia è a rischio? Lo scontro su questo tema è divampato dopo che la segretaria del Pd, Elly Schlein, parlando al Congresso del Partito socialista europeo, ad Amsterdam, ha collegato l’atto intimidatorio nei confronti del conduttore di Report Sigfrido Ranucci al clima di odio creato dal governo: «La democrazia è a rischio, la libertà di parola è a rischio, quando l’estrema destra è al governo»

«Siamo al puro delirio», ha replicato alla premier su internet. E poi, parlando alla Camera: «Sono tentativi di gettare fango e ombre sull’Italia che l’Italia rischia di pagare, mentre noi siamo tutti pagati per rappresentare al meglio questa nazione».

Inutile dire quale tempesta abbiano suscitato le parole della segretaria del Pd sulle prime pagine dei quotidiani vicini al governo. Ma anche commentatori di area moderata sono stati molto critici. Come Antonio Polito che, in un editoriale sul «Corriere della sera», ha scritto: «Se ad Amsterdam ci fosse un Rubicone, Elly Schlein l’avrebbe varcato.».

Sull’episodio è intervenuto, in una intervista al «Corriere della sera», anche Sabino Cassese: «Quando Schlein ha detto che la democrazia è a rischio mi sono cadute le braccia», ha detto. Quanto alla minaccia alla democrazia, ha chiesto ironicamente: «Qualcuno ha visto i carri armati davanti alla Rai o La7?».

L’autorevole costituzionalista ha anche aggiunto una valutazione decisamente positiva dell’evoluzione in senso democratico che Meloni ha saputo imprimere, col suo pragmatismo, alla destra italiana, e l’ha definita «la migliore allieva di Togliatti», che in passato ha fatto la stessa operazione con la sinistra.

Una delegittimazione reciproca

Che dire davanti a questo scontro frontale? Una prima osservazione è che l’attribuzione, sia pure indiretta, al governo dell’attentato a Ranucci, in assenza di qualunque indizio, è stata del tutto fuori luogo. E tuttavia un’anima di verità si può trovare nella denunzia fatta da Schlein nel suo discorso: «È chiaro cosa stanno facendo: propaganda ogni giorno. Alimentano un clima di divisione, polarizzazione e odio».

È un dato di fatto che ultimamente, soprattutto dopo l’assassinio avvenuto in America di Charlie Kirk, rappresentanti del governo e stampa di destra hanno cercato di stabilire un’analogia con quanto, nella loro ricostruzione, era accaduto oltreoceano, denunciando una minaccia eversiva che in realtà non c’è neanche negli Stati Uniti, ma meno che mai nel nostro paese. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, dopo aver evocato con indignazione le critiche dell’opposizione al ministro Tajani e alla premier, le ha collegate ad atteggiamenti a suo avviso giustificazionisti dell’omicidio di Kirk da parte di «qualche intellettuale» della sinistra: «Sono gli stessi ragionamenti che si sentivano ai tempi delle Brigate rosse», ha dichiarato. E ha concluso: «Questo è il clima che si sta creando in questo Paese».

Sulla stessa linea Giorgia Meloni che, nel suo intervento alla festa nazionale dell’UDC, il 13 settembre, ha anche lei utilizzato l’omicidio di Kirk per attribuire alla sinistra – che in realtà quell’omicidio lo aveva dal primo momento chiaramente condannato senza mezzi termini – la responsabilità di uno stile di violenza antidemocratica: «Credo che sia arrivato il momento di chiedere conto alla sinistra italiana di questo continuo minimizzare o addirittura di questo continuo giustificazionismo della violenza nei confronti di chi non la pensa come loro – ha scandito la premier – . Perché il clima anche qui in Italia sta diventando insostenibile ed è ora di denunciarlo».

Una denuncia che assume spesso i tratti del vittimismo nel continuo riferimento a  non meglio precisati ricatti a cui la premier ripete di non voler cedere e a minacce – anch’esse non specificate – da cui promette di non lasciarsi intimidire. Come nella trasmissione del fidato Bruno Vespa, al quale ha confidato: «Temo il clima che si sta imbarbarendo parecchio. Io non conto più le minacce di morte».

In questo contesto si colloca la gravissima accusa, rivolta alla sinistra durante un comizio a Firenze, di essere «più fondamentalista di Hamas». Poi in parlamento la premier ha ricordato, sempre con toni sprezzanti – «per chi conosce la lingua italiana» – che il termine “fondamentalista” non è sinonimo di “terrorista”. Ma di solito sono accoppiati ed è stata lei a fare il paragone con Hamas, in cui il fondamentalismo e il terrorismo si fondono.

E aver messo la sinistra, legittima opposizione democratica, sullo stesso piano di  violenti assassini, dopo averla continuamente accusata di alimentare un clima di odio insostenibile e aver denunciato innumerevoli «minacce di morte» nei propri confronti, non può non assumere un preciso significato, almeno nella risonanza sull’opinione pubblica, che nessuna spiegazione filologica può attenuare. Forse Polito avrebbe dovuto citare anche questo come un passaggio del Rubicone.

Una concezione di fondo diversa da quella democratico-liberale

Alla radice di questa insofferenza alle critiche, che le identifica immediatamente con l’odio e la violenza, vi è in realtà un’idea che Giorgia Meloni, pur sinceramente allontanatasi ormai dalle sue originarie posizioni neo-fasciste, ha conservato impressa nella sua mente e che ha espresso nella risposta alle accuse di Schlein: attaccare il governo «vuol dire gettare fango e ombre sull’Italia».

È estranea alla nostra premier e alla maggioranza che la sostiene la consapevolezza che, in uno Stato liberal-democratico, l’esecutivo sia solo un organo, tra gli altri, chiamato a collaborare con essi per realizzare il bene comune. Per loro lo Stato si identifica con chi è al potere. La grande, fondamentale novità, rispetto alla visione totalitaria, è che il potere a sua volta deriva dal popolo mediante libere elezioni. Ma quella che ne deriva è una democrazia autoritaria.

Perché, in una visione liberal-democratica, neppure aver vinto le elezioni autorizza chi governa a fare ciò che vuole. La maggioranza ha il compito di prendere le decisioni, ma deve alla minoranza le giustificazioni delle sue scelte, in un libero confronto e non a colpi di decreti legge. A questo confronto la nostra premier si sottrae sistematicamente, sia evitando quanto più possibile di affrontare personalmente il dibattito in parlamento, sia disertando le conferenze stampa (come quest’ultima sulla legge di bilancio, abbandonata dopo poche battute). Il che rivela, tra l’altro, dietro la maschera di “lady di ferro”, una intima fragilità.

In una vignetta più espressiva di qualsiasi editoriale, dedicata alla seduta parlamentare sul caso Almasri, Giannelli ha rappresentato i ministri Nordio e Piantedosi mentre, in piedi, dietro il banco del governo, cercano di ripararsi dalla pioggia di mele e uova marce proveniente dall’aula. Al centro, fra di loro, la sedia vuota della premier, che però in realtà è rannicchiata, nascosta dietro di essa, mentre risponde al telefono e dice, a chi le chiede una dichiarazione: «Mi dispiace, ora non posso»

Da qui anche la polemica costante nei confronti della magistratura, accusata di sabotare l’opera del governo senza averne il diritto, perché non eletta dal popolo. La formula ripetuta ad ogni occasione è che, se i giudici vogliono intervenire sulle questioni pubbliche, devono prima candidarsi e farsi eleggere in parlamento. Senza tenere conto che nella nostra Costituzione, a differenza che nel modello rousseauiano, il consenso popolare non ha un ruolo assoluto e ha dei limiti precisi in organi come la magistratura, che non dipendono da esso.

Da qui la concezione delle cariche istituzionali non come destinate a rappresentare tutti, anche i dissenzienti – nella logica di un bene comune che deve essere raggiunto anche col loro apporto – ma come armi da usare contro i “nemici”. In questa logica, lo stile della premier e di tutto il governo somiglia molto a quello di una continua campagna elettorale desinata a sconfiggere gli oppositori.

Forse più che alla scuola di Togliatti la nostra premier ha studiato a quella di Orbán – modello di stabilità, con i suoi dodici anni di premierato – e, ultimamente, a quella di Donald Trump, la cui continua battaglia con i “nemici interni” lo porta a dispiegare l’esercito per controllare le città governate dai democratici.

In questa logica, a dispetto della retorica nazionalista che proclama il primato degli italiani, i partiti di governo, nel parlamento europeo, hanno votato per revocare l’immunità di Ilaria Salis e riconsegnarla alla “giustizia” ungherese. Salis era stata tenuta in carcere – ancora prima del giudizio! –  per ben undici mesi, in condizioni gravemente lesive della sua più elementare dignità, come ha potuto constatare il mondo intero, vedendola condotta in aula in catene e con un collare al collo. La minaccia che incombeva era di una condanna a 24 anni di carcere per avere (cosa che lei nega) causato a due (uomini) neonazisti lesioni guaribili rispettivamente in 5 e 8 giorni. Davanti a questo quadro, molti parlamentari non italiani di destra hanno rifiutato di avallare questa evidente persecuzione. I nostri no. Perché la Salis era di sinistra e dunque, una nemica dell’Italia.

Una nuova forma di partecipazione

Alla luce di questa prospettiva culturale, prima ancora che politica, si capisce il comportamento della presidente del Consiglio di fronte alle imponenti manifestazioni popolari, in cui centinaia di migliaia di persone, di tutte le età, di tutte le origini economiche e culturali, chiedevano al governo di cambiare linea nei confronti del governo israeliano, accusato da autorevoli fonti di genocidio. La reazione è stata di ignorarle, commentando con indignazione solo le immagini dei tafferugli scatenati da poche centinaia di estremisti davanti alla stazione di Milano.

E, quel ch’è forse peggio, una parte consistente della stampa e delle televisioni ha abbracciato questa lettura. Come il nostro più diffuso e autorevole quotidiano, il «Corriere della sera», che ha riassunto questa grande prova di partecipazione democratica, svoltasi in più di 80 città italiane, nel grande tutolo: «Guerriglia a Milano per Gaza».

Non sono i carri armati evocati ironicamente da Cassese. Ma, tra giornali di estrema destra (in Italia sono sette), quotidiani moderati molto accomodanti nei confronti del governo (come nel caso appena citato), televisioni di Stato controllate sempre dal governo, televisioni private di destra, l’opinione pubblica nella sua stragrande maggioranza è ormai orientata univocamente in una precisa direzione. E si vede dai sondaggi, che danno Meloni stabilmente al 44% dei consensi, avallando l’immagine in gran parte falsata che essa offre del paese, dopo tre anni di governo.

A dispetto di tutto questo, una forma di critica  – ben più significativa ed efficace di quella spesso poco incisiva e poco propositiva delle opposizioni – ha trovato modo esprimersi a partire dal basso, nelle manifestazioni di cui prima si parlava, le più massicce viste da decine di anni. Ma è ancora una partecipazione che non trova riscontro a livello istituzionale. Le ultime elezioni regionali hanno confermato la crescita esponenziale dell’astensionismo, già registrata in quelle politiche e in quelle europee con il risultato che, alla fine la famosa «fiducia» del popolo, vantata dai governanti, si riduce alla metà della metà dei cittadini.

L’Italia va verso la fine della democrazia? Non certo con un ritorno a forme dittatoriali. Su questo Cassese ha ragione. Ma il rischio è di vedere gradualmente svuotata la democrazia liberal-democratica, prevista dalla nostra Costituzione, basata sul primato del parlamento e sul dialogo, a favore del modello rappresentato da Orbán e da Trump – nei cui confronti Meloni esprime continuamente la sua ammirazione e a cui guarda come ai suoi modelli – , che è quello che chiamavamo “democrazia autoritaria”.

La sola alternativa è risvegliare la sensibilità e la coscienza delle centinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza, riportandole a scoprire l’importanza decisiva della forma politico-istituzionale della partecipazione. Qualcuno dirà che è un’utopia. Ma le utopie sono i sogni di cui abbiamo assoluto bisogno per immaginare il futuro e trasformare il presente.

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