Esame di Stato (Ansa)
Se si chiedesse agli estensori delle Nuove Indicazioni 2025, astraendoci per un attimo dall’analisi del complesso testo pubblicato di recente per il “dibattito pubblico”, se si chiedesse quale tra le due entità, lo Stato e la Nazione, abbia avuto una precedenza cronologica rispetto all’altra, la risposta probabilmente sarebbe: la Nazione! Abbiamo a che fare, infatti, anche se l’aggettivo “nazionale” non compare nel titolo, con “indicazioni nazionali” nel senso pregnante del termine.
Di conseguenza, è in ombra l’aspetto burocratico-procedurale tipico dello statalismo ministeriale, come vedremo. Il compito che gli estensori si prefiggono, a una prima lettura del lungo documento, sembra proprio essere questo: rifondare la scuola della nazione, che non significa, a scanso di equivoci, né scadere nel nazionalismo, né nel bieco tradizionalismo, per cui ci si possa illudere di erigere attorno alla scuola “della nazione” un muro impermeabile alle novità geopolitiche e tecno-linguistiche contemporanee.
Al contrario: questa chiave di lettura, per cui è privilegiato il patrimonio culturale che rende unitaria e solidale la convivenza civile, fatto di lingua, letteratura, scienze e storia, nobilita lo scopo della scuola italiana dell’infanzia e del primo ciclo (questo è il perimetro entro cui si muovono le Indicazioni). Nel senso che è ricostruito quel tipo di scuola che, nascendo dal sapere o dai saperi basilari, è incentrato sulle discipline, di cui si dovrà tenere conto nell’elaborazione dei curricoli.
Ecco un passaggio illuminante in proposito: “Il curricolo è il dispositivo per pensare l’insegnamento in funzione del ‘far apprendere’ i saperi fondamentali a soggetti in crescita”. E ancora: “i saperi sono gli inestimabili ‘tesori’ di cui l’insegnante svela agli studenti pian piano le idee-guida, le conoscenze essenziali”. Ne deriva che “nelle Nuove Indicazioni emerge una didattica […] che fa sempre più corpo con i saperi fondamentali che entrano nei processi di insegnamento-apprendimento con maggiore incisività e consapevolezza epistemologica e con una mediazione di marca costruttivistica (sic!), promotrice del protagonismo degli studenti e supportata da ambienti di apprendimento innovativi”.
Si profila, tramite questi orientamenti, molto dettagliati, che entrano negli aspetti più specifici dei moduli di insegnamento, una scuola fortemente disciplinare, si potrebbe dire “orgogliosamente” disciplinare. Scuola che affonda le proprie radici nel tessuto caratteristico del cosiddetto “Occidente”, inteso come ambito di scoperta della persona e dei suoi nessi con la realtà. La cultura disciplinare è intesa come propedeutica agli obiettivi di apprendimento, alle competenze attese e alle “traiettorie per l’innovazione” (una novità metodologica).
Il peso delle discipline si avverte anche nella cura che presiede alla loro definizione. La letteratura (scuola secondaria di primo grado) è, per esempio, definita come “un modo per conoscersi, trovando nei pensieri, nelle emozioni e nei desideri che gli scrittori del passato hanno saputo tradurre in parole la traccia di un’umanità comune”. La storia “consiste nel pensare i fatti, nel pensarli nella loro origine, nei loro nessi, nelle loro conseguenze”. La matematica è “un linguaggio formale capace di distinguere il vero dal falso”. E via di questo passo.
Se questi sono i presupposti, la conseguenza è la sottolineatura di una scuola trasmissiva molto diversa, se non addirittura alternativa, a quella che di fatto domina da un certo tempo dalle nostre parti, nella quale le discipline non sono abolite semplicemente perché ridotte, complici certi libri di testo e i meccanismi della didattica laboratoriale, a schemi procedurali separati dalla loro origine.
Qui invece ogni disciplina è tale in quanto ricondotta alla propria radice epistemologica e in quanto tale affidata alla capacità conoscitiva e comunicativa dell’insegnante. Si propone una scuola di incontri e di interlocuzioni che pongono al centro gli studenti e lo sviluppo dei loro talenti, ma che vedono nell’insegnante il maestro di vita e di conoscenza, unico “volano” capace di accendere il desiderio degli alunni.
C’è in tutto questo una sorta di polarità che rende il documento nello stesso tempo particolarmente interessante e allo stesso tempo problematico. È interessante la centratura sulla scuola come luogo di cultura, di costruzione di identità, di rispetto reciproco consentito dal riconoscimento delle culture, delle loro eventuali varietà e dimensioni. Non dimentichiamo infatti che la cultura è sempre la costruzione di significati riferiti all’ambiente, al dinamismo del tempo, ai processi di edificazione dei luoghi di convivenza tra esseri umani.
L’aspetto problematico è costituito da un eccesso di indicazioni sul “che fare” fornite ai docenti, come se non bastassero i profili in uscita degli alunni, ma si volesse anche predisporre i percorsi didattici finalizzati a raggiungerli. L’eccesso travolge il significato attribuito alla categoria di “libertà” giungendo a risultati meritevoli di ulteriori chiarimenti. La libertà è un “bene” che l’alunno dovrebbe apprendere. Pienamente d’accordo, ma poi è svolta “dal punto di vista della formazione scolastica, come possibilità di autodeterminarsi nei diritti e nei doveri”.
Il punto culminante è il seguente: “l’educazione alla libertà non è sviluppo dello studente nella libertà, ma sviluppo della libertà nello studente”. Posta questa ottica, il testo prosegue con le seguenti parole: “in virtù delle regole (regole di comportamento, ma anche regole tratte dai contenuti e dai metodi delle stesse discipline, come le regole di grammatica), l’allievo interiorizza il senso del limite e un’etica del rispetto verso il prossimo”.
È certamente vero che la scuola è oggi sollecitata a fornire e insegnare anche regole di carattere morale. Tuttavia una pedagogia personalistica come quella che ispira in alcune sue parti il lavoro che stiamo commentando potrebbe meglio intendere la libertà come apertura e desiderio di infinito, particolarmente cercato dai ragazzi come attesa e speranza, che nasce proprio dal senso del limite. Limite superabile non solo per ipotesi, ma anche nell’esperienza di un’educazione al bello, al vero, al buono.
In altri termini, le regole servono se sono un mezzo e non un fine esse stesse. E ciò vale anche e soprattutto per le discipline scolastiche che dovrebbero aprire all’illimitato (scientifico, letterario, storico, artistico) e non essere intese nel loro stretto valore regolativo. Che questo avvenga sarà anche compito di un dibattito necessario nelle scuole, a partire da un’attenta e seria presa d’atto delle novità offerte da questa circostanza.