sabato 2 agosto 2025

FATE ATTENZIONE


3 agosto 2025-

-XVIII domenica nell’anno-

Luca 12,13-21 (Qo 1,2; 2,21-23)


In quel tempo 13Uno della folla  disse a Gesù: «Maestro, di' a mio fratello che divida con me l'eredità». 14Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell'abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
16Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17Egli ragionava tra sé: «Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così - disse -: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!». 20Ma Dio gli disse: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?».

 21Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».


Commento   di Luciano Manicardi

Il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro; i beni materiali sono per l’uomo e non l’uomo per i beni materiali, la dimensione del fare non deve compromettere o intaccare l’umanità della persona: forse potremmo sintetizzare così il messaggio delle letture di questa domenica. Che mettono in guardia l’uomo contemporaneo dal far consistere la propria vita unicamente nel fare e nell’avere, nel produrre e nel possedere. Vi è un aspetto di assurdità, rileva Qohelet (Qo 1,2; 2,21-23), nell’affannarsi e tribolare dell’uomo sotto il sole, essendo chiaro che ciò che l’uomo guadagna dal suo lavorare affannato e incessante passerà ad altri che non vi hanno per nulla faticato. Nel vangelo (Lc 12,13-21) Gesù mette in guardia dalla brama di possesso, dalla cupidigia. Il termine greco utilizzato, pleonexía (Lc 12,15) significa “avere più di un altro”, “ambire di più”, e comporta il confronto sociale, la concorrenzialità, la competitività, la logica orizzontale e soffocante del paragone, matrice della perniciosa invidia. E la messa in guardia di Gesù è fondata sulla memoria della precarietà della condizione umana. “Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita” (Lc 12,20). La morte appare, sia in Qohelet che nel vangelo, come la realtà che annichilisce i disegni di riuscita esistenziale nella via del possesso e del fare, della ricchezza e delle opere prodotte, svelando tale riuscita come fallace e illusoria. Se opportunamente ricordata, la morte può esercitare un importante magistero per la vita riconducendo l’essere umano al realismo, dunque all’umiltà e alla sapienza. Chi vuole conoscersi deve interrogarsi sulla morte perché essa svela all’uomo ciò che veramente è essenziale e ha senso nella vita. Nonostante le teorizzazioni e le sperimentazioni della cosiddetta società post-mortale, resta ancora e sempre vera l’affermazione lapidaria di sant’Agostino: Incerta omnia, sola mors certa (“Tutte le cose sono incerte, sola la morte è certa”). La morte è come una bussola per il vivente: grazie ad essa egli può orientarsi nell’esistenza. La prima lettura poi, fornisce l’occasione di una riflessione sul modo di vivere il tempo e il lavoro oggi.

La seconda parte della pericope di Qohelet (2,21-23) riguarda il lavoro, la fatica del lavorare, ma forse anche quella fatica che consiste nel vivere e nel mestiere stesso di stare al mondo. In ogni caso su tale realtà è proiettata la luce disillusa che proviene dalla prima parte della pericope (1,2), la provocatoria ouverture del libro che proclama che tutto è hebel. Il termine, che ha come senso base quello di soffio, è stato tradotto con vanità, vuotofugacitàfutilitàassurdospreco … E tale giudizio radicalmente disincantato e disilluso viene proiettato sul lavoro sia perché il frutto del lavoro sarà ereditato da chi non ha faticato per nulla, sia perché il lavoro (e la vita stessa: “tutti i suoi giorni”) è fatica fisica e psicologica che produce “dolori e fastidi penosi” e spesso nemmeno la notte riesce ad apportare riposo. C’è qualcosa per cui valga la pena agire, lavorare, tribolare e, in definitiva, vivere? Una risposta sapiente la fornisce il poeta Fernando Pessoa nella poesia Mare portoghese: “Ne valse la pena? Tutto vale la pena se l’anima non è piccina”. Per Qohelet occorre lavorare e svolgere il mestiere di abitare il mondo perché questa è la sorte che Dio ha destinato all’uomo (3,10) e perché l’uomo può dare un senso al suo fare condividendo e donando. Se “il lavoro prende la direzione del dono” (Jacques Ellul), l’uomo quantomeno è liberato dalla frustrante prospettiva di lasciare i frutti del proprio ingegno e della propria fatica a non si sa chi, magari una persona ottusa e stolta (2,18-21). Il testo suggerisce anche la possibile deriva disumanizzante del lavoro, rompendo con la retorica che lo vuole sempre votato alla nobilitazione dell’uomo. La frase “sono un uomo e tutto ciò che è umano mi riguarda” (homo sum: humani nihil a me alienum puto), divenuta emblema dell’atteggiamento umanistico, è tratta dalla commedia di Terenzio (II sec. a.C.) Il punitore di se stesso. Essa costituisce la risposta di Cremete a Menedemo che, infastidito dalle osservazioni fatte da quello al suo stile di vita, lo rimprovera di essere curioso: “Hai tanto tempo da perdere, Cremete, che non pensi agli affari tuoi e ti occupi di quelli degli altri, che non ti riguardano affatto?”. La frase è dunque un elogio della buona curiosità: della curiositas che è cura e passione per l’umano fino a diventare empatia. Cremete infatti si preoccupa dei ritmi di lavoro esagerati fino alla disumanità di Menedemo e lo interroga cercando di riportarlo al buon senso di ritmi più umani. Dopo l’iniziale resistenza, Menedemo gli confessa che quel superlavoro, quel lavoro folle, incessante, frenetico, era la punizione che egli stava infliggendo a se stesso per il suo comportamento eccessivamente rigido che aveva condotto suo figlio ad andarsene da casa. Nel testo di Terenzio l’abnormità del ritmo lavorativo è spiegata psicologicamente come punizione che un individuo si autoinfligge riducendosi a schiavo. Nella nostra contemporaneità i ritmi di lavoro stressanti e alienanti sono legati, in particolare, a due delle forme con cui viene vissuto il tempo, l’accelerazione e la produttività. Queste dimensioni dominano il mondo del lavoro e rappresentano ormai una forma di totalitarismo schiavizzante non percepito come tale, ma scambiato per fenomeno naturale, quando invece è una costruzione sociale e rientra nel dominio che controlla la società sotto le regole del capitalismo. È totalitario ciò che esercita una potente pressione sulla volontà e l’agire dei singoli; influenza e condiziona pesantemente la loro vita familiare, affettiva, sociale, invade l’anima e la psiche; è onnipervasivo e riguarda anche istituzioni e ogni aspetto della vita sociale; instilla un senso di impotenza e induce a ritenere che non ci sia niente da fare, che le cose non possano essere cambiate. Davvero, “tutto è vano”. Il totalitarismo del tempo accelerato e produttivo giunge a rendere colpevoli i suoi sudditi (cioè tutti noi): se siamo in ritardo, se non siamo abbastanza efficaci, se non rispondiamo agli standard richiesti dalla produzione ci sentiamo in colpa, ci affliggiamo perché non sappiamo gestire bene il tempo (falliamo l’“ottimizzazione” dei tempi) e non siamo abbastanza performativi. Interiorizziamo l’accelerazione come un dato necessario e ineluttabile e, se non ne siamo all’altezza, ce ne facciamo una colpa. Vittime colpevolizzate!

Nel vangelo Gesù, interpellato da un anonimo, rifiuta in modo secco di intervenire in una disputa tra fratelli per questioni di eredità (Lc 12,13-14), quindi, in modo accorato (“Badate e guardatevi da ogni cupidigia”) mette in guardia contro la cupidigia (12,15). Gesù, che ha appena esortato a non aver paura di chi può uccidere il corpo ma poi non può più fare nulla (12,4), ora si mostra molto preoccupato di un nemico la cui potenza è infinitamente più letale perché può impossessarsi dell’anima e sottrarre la vita ingannando l’uomo e conducendolo a vivere una parvenza di vita: “anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni”. Dal piano delle penose dispute famigliari sulla divisione di un’eredità, Gesù risale al cuore: egli mette in guardia tutti dalla cupidigia, dalla brama di possedere. La cupidigia proviene dal cuore (Mc 7,22) ed “è idolatria” (Col 3,5). E dalla materiale eredità, Gesù passa a denunciare quella cupidigia che impedisce di “ereditare il Regno di Dio” (Ef 5,5). L’idolatria dà illusioni di vita, ma produce morte. La vita non consiste nei beni, dice Gesù. E nasce per noi la domanda: In che cosa faccio consistere la mia vita? Da cosa la faccio dipendere? Che cosa la manda avanti ogni giorno? “Ma che è mai la vostra vita?” chiede Giacomo ai ricchi che dicono “Oggi o domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni”, mentre non sanno e non possono sapere “che cosa sarà domani” (Gc 4,13-14). Questo mettere le mani sul futuro tentando di controllare il tempo e di gestirlo a piacimento, è ciò che viene rimproverato anche al ricco insensato della parabola narrata in Lc 12,16-21. La cecità a cui la ricchezza dà origine è evidenziata nella figura del ricco “senza intelligenza” (áphron). Egli pensa di possedere anche ciò che per definizione è indisponibile: il tempo, il futuro, la vita. E il binomio ricchezza – stupidità è espresso in modo tale che il “pieno” della ricchezza cerca di camuffare il desolante “vuoto”, la penosa carenza di intelligenza e di sapienza del ricco. Se l’accumulo di ricchezze, così come l’ottenere posizioni sociali di prestigio, l’aver potere e considerazione, l’essere famosi, possono essere forme di esorcizzazione della morte, in realtà esse falliscono il proprio della vita che richiede l’assunzione della sua finitezza per poter cogliere l’oggi come grazia e vivere ogni attimo presente come il frammento che ci viene concesso e in cui possiamo vivere il tutto che dà senso al nostro vivere e che non lo satura di cose ma lo riempie di senso. Lo riempie accogliendolo nella sua limitatezza e mancanza come invito al desiderio, all’apertura, alla relazione, all’incontro, al dono. E così libera l’uomo dalla soffocante prigionia del detestabile ego che lo conduce ad arricchire per sé, in una triste solitudine.

 

Monastero di Bose

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LO STUPORE DELL'ESSERE

 


Attualità

 di un libro 

consapevolmente

 inattuale



-       di Alessio Conti 

Le considerazioni, consapevolmente inattuali, che Giuseppe Savagnone affida al suo Lo stupore dell’essere. Il pensiero alternativo di Tommaso d’Aquino (Marcianum Press, Venezia 2025), rappresentano un pharmakon: un rimedio contro le mode e soprattutto contro l’unica ideologia imperante, quella dell’individualismo compulsivo e consumistico.

Un individualismo che, lungi dal limitarsi a descrivere il mondo, lo plasma, riducendo la ragione a mero strumento di calcolo. In alternativa a ciò, questo libro parla di verità, di Dio, di bene, in una parola, dell’essere: perché – riprendendo Tommaso d’Aquino – lo stupore originario è quello legato non già al mero esserci, ma appunto all’essere di ogni cosa e ultimamente dell’uomo stesso.

Il testo di Savagnone si articola in conversazioni, non tanto per riprendere estrinsecamente la struttura delle quaestiones tomiste, quanto per intessere con l’Aquinate un fecondo dialogo.

Un colloquio in cui, pur senza dissimulare la distanza storica e culturale che ci separa da Tommaso, si individuano degli interstizi esistenziali, grazie ai quali questa esperienza risulta significativa anche per noi, smarriti uomini del XXI secolo. Dialetticamente è proprio la distanza che ci spinge a ripensare categorie ermeneutiche acriticamente ripetute, stimolando un dibattito filosofico talora asfittico.

Un’opera, quella di Savagnone, che ripercorre la biografia di una vocazione perché il filosofo è anzitutto una persona che cerca la verità.  Oltre l’iconografia ufficiale e il suo uso anti modernistico, Tommaso fu uomo di rottura: ruppe con la famiglia, i nobili conti d’Aquino che lo avrebbero voluto religioso, ma nella potente Abazia di Montecassino. Non era però questa la strada scelta dal Signore per il giovane aquinate che, nel suo primo soggiorno napoletano, conobbe la filosofia aristotelica, tramite il nuovo ordine domenicano. E si sentì’ subito a casa: niente sfarzose abbazie provviste di terre e prebende, ma solo quella carità intellettuale, quello zelo per le anime che sarà la cifra della sua vita, prima ancora che del suo pensiero.

A 19 anni Tommaso è frate: i Domenicani, anche per sottrarlo a possibili ritorsioni da parte dei famigliari, lo inviano nello studium di Parigi, uno dei più importanti del tempo. Orizzonte del suo pensiero non sarà più quindi la cella monastica, ma la città, brulicante di passioni e di vita, tra mercanti e banchieri, borghesi e fratti. In tale contesto, dal punto di vista politico, da un lato l’Impero raggiungeva l’apice della sua potenza e dall’altro già le monarchie nazionali si profilavano all’orizzonte.

Sono straordinariamente intense le pagine che Savagnone dedica al quadro storico-culturale del XIII secolo, non già mero sfondo, ma segreto alimento del sistema tommasiano, figlio di una società complessa in cui universalismo e particolarismo, discipline teologiche ed arti liberali, filosofia e poesia si arricchivano vicendevolmente.

Questo stesso spirito di libertà permea la ricerca intellettuale del giovane Tommaso: pingue e taciturno, tanto da essere soprannominato dai compagni “bue muto”, il Domenicano inizia ad insegnare a Colonia, prima di divenire Magister –  oggi diremmo professore ordinario – a Parigi. L’ambiente culturale parigino si connotava allora per una forte tendenza platonica che, anche in virtù degli apporti successivi di pensatori come Plotino, sembrava la meglio conciliabile con i dogmi della fede cristiana per la sua impostazione nettamente trascendente. Sostenuta da Agostino e dallo Pseudo Dionigi, che i medioevali identificavano erroneamente con un convertito da Paolo durante il suo discorso all’Areopago, questa interpretazione appariva la sola possibile.

Del resto la visione aristotelica del mondo che le si opponeva era sospetta per più di un motivo: tradizionalmente poco incline alla trascendenza, lo Stagirita era stato largamente commentato dagli infedeli, e per loro tramite, dopo un lungo oblio era tornato nella sua interezza a disposizione del mondo cristiano. Alberto, maestro di Tommaso, si era interessato proprio ad Aristotele anche se caldeggiava, in una prospettiva sincretistica, la sua conciliazione con Platone.

Sarà Tommaso ad elaborare quella sintesi creativa che liberò Aristotele dal soffocante abbraccio degli arabi e dei neo-platonici, senza dissimulare la distanza tra i due grandi maestri della grecità. E mentre i Francescani deploravano “quella nuova dottrina che distrugge tutto quello che Agostino insegna”, Tommaso assumeva Aristotele come punto di riferimento essenziale, anche se non esclusivo, della sua filosofia, tanto da designarlo sempre come “il filosofo”.

L’autore ripercorre con un’enfasi pregna di passione questi primi, fondamentali, momenti della vicenda umana e spirituale di Tommaso, presentandoci una figura inedita, ma, proprio per questo, attuale. Oggi molti intellettuali appaiono prigionieri di un totalitarismo del politicamente corretto che condiziona a priori il modo di pensare delle persone, e sono sovente ossessionati da un narcisistico desiderio di visibilità quantomai distante dalla prospettiva di Tommaso. Il frate domenicano, infatti, amava rendersi invisibile, affinché a brillare fosse l’oggetto della sua ricerca.

Un brillare icasticamente rappresentato da una feconda simbiosi che unisce, nell’orizzonte tommasiano, la riflessione  filosofica alla luce.  Il pensiero interpreta non se medesimo, ma la realtà, proprio come la luce che “non è l’oggetto del nostro sguardo, ma la condizione per vedere i colori”.

Ed alla luce di quella stessa (solo apparente) semplicità, che rappresenta in realtà la conquista di uno spirito temprato dai marosi della vita, Tommaso elabora il suo sistema. Un pensiero che, come sottolinea argutamente Savagnone, è frutto non solo di energie psichiche, derivando piuttosto da “quella abissale tranquillità dell’oceano divino dell’essere, in cui egli parla”. Una ricerca capace di divenire preghiera, oltre la scissione, oggi dominante, tra persone che vivono in modo irriflesso le verità di fede, e teologi, spesso capaci di una notevole profondità di pensiero, che però non si riverbera  nell’esistenza. 

Oltre questo iato l’Aquinate ci rammenta che l’uso dell’intelligenza implica sempre una responsabilità fondamentale: quella di impostare in modo corretto i rapporti tra ragione e fede. Prima di analizzare la tesi tommasiana, Savagnone illustra tre posizioni che, pur se tra loro antitetiche, rendono inutile il confronto tra questi due ambiti. Secondo alcuni esponenti del monachesimo benedettino la fede fagocita la ragione. In questa prospettiva il solo filosofo degno di tal nome è Cristo ed al pensiero umano non resta alcuno spazio. Posizione questa insostenibile prima che errata perché, volendo entrare nel tempo, Dio stesso si serve in certo modo di categorie razionali.

Non meno assurda si rivela l’alternativa del razionalismo moderno secondo cui, da Hegel in poi, la fede sarebbe un momento provvisorio, destinato ad essere superato dall’inesorabile incedere del sapere filosofico. Tale posizione, anche nella sua variante positivistica, ignora i limiti della ragione per la quale un mondo ridotto a misurabilità risulta oltremodo angusto.

Seducente, ma non meno fallace, appare anche la dottrina della doppia verità che fa leva su una presunta incommensurabilità tra fede e ragione che rischia di divenire una minaccia per la stessa unità della persona. Fede e ragione, ecco la posizione tommasiana, sono certo distinte, ma non incommensurabili: distinguere per unire, è appunto il motto che riassume meglio il punto di vista dell’Aquinate. Fede e ragione sono come due ali con cui il pensiero umano si innalza verso la contemplazione della verità. Metafora cogente quella delle ali, perché pur restando distinte, quindi autonome, cooperano al medesimo scopo.

Il supremo problema dell’esistenza di Dio è affrontato da Tommaso in base alla fondamentale distinzione tra l’ordine dell’essere e quello del conoscere: occorre partire dal mondo, dal contingente, per mostrare l’esistenza di quel primo motore che chiamiamo Dio, grazie agli effetti a noi noti Ma la conoscenza dell’esistenza di Dio è un preambolo, necessario certo a far comprendere, per quanto possibile, le verità di fede. Una premessa alla quale può accompagnarsi il salto nella fede vera e propria, ma questa è solo una possibilità, visto che le vie per mostrare l’esistenza di Dio interpellano in primo luogo l’intelligenza.

Un salto che però non implica l’annullamento della ragione, necessaria a comprendere, per quanto possibile ciò che si crede. In questo orizzonte “il dubbio non è il nemico, ma il compagno e lo stimolo di una fede matura, e non bisogna rifuggirlo, come molti fanno, ma salutarlo, come un dono e un invito a cercare ancora”. Tommaso non è un algido dispensatore di risposte prefabbricate, ma piuttosto un inesausto suscitatore di interrogativi “perciò le domande sono sempre più numerose delle risposte contenute nelle definizioni dogmatiche. Il cristianesimo non è uno schedario di certezze definitive, ma un pellegrinaggio nell’abisso insondabile del mistero divino”.

In Tommaso si profila una circolarità tra fede e ragione, tra filosofia e teologia, autrici entrambe di conoscenze distinte, ma intimamente unite. Sul piano antropologico una medesima circolarità coinvolge il vedere e l’ascoltare, entrambi limitati e, per questo, destinati a completarsi: chi vede a bisogno di credere e chi crede, ascoltando, comunque desidera anche vedere.

Ma il vedere, l’ascoltare, presuppongono che fuori di noi vi sia un mondo, un reale attingibile conoscitivamente: ed è proprio questo presupposto che crolla nell’età moderna, abbagliata dal soggetto, capace di accedere solo a sue rappresentazioni. E se con la postmodernità il soggetto rappresentante entra in crisi, ecco profilarsi da un lato il nichilismo, e dall’altro l’ermeneutica in cui la comune appartenenza dell’interpretato e del interpretante ad un contesto, parrebbe dissolvere i fatti in un orizzonte meramente linguistico e interpretativo.

Ancor più sconvolgente, in questa temperie risulta la tesi tommasiana del primato dell’essere: noi scopriamo, in primo luogo che qualcosa è, e pensare, da Parmenide in poi, significa pensare l’essere. Un’idea questa, nota acutamente Savagnone, che si palesa anche quando ci soffermiamo su enti come l’unicorno, inesistenti in natura, o su personaggi fittizi come quelli della mitologia omerica che sono comunque presenti, almeno nella nostra immaginazione.

 L’essere ed il suo primato rappresentano il vasto orizzonte della riflessione dell’Aquinate che è oltremodo necessario riguadagnare anche per depotenziare  “il dualismo problematico tra soggetto pensante e mondo” entrambi ricompresi nello spazio dell’essere. Ma affermare il primato dell’essere e, conseguentemente, l’esistenza di alcune leggi concernenti tanto il pensiero quanto la realtà, significa anche  ribadire il primato della ragione, perché chi negasse i suoi supremi principi a rigore dovrebbe tacere. Qualora infatti io affermassi che il principio di non contraddizione non esiste rigetterei implicitamente la tesi opposta e quindi, anche per negarlo, sarei contraddittoriamente costretto ad applicare proprio quel principio.

Ma la scoperta dell’essere non riguarda unicamente chi si occupa di filosofia: qualunque uomo, purché esca dal frenetico turbinio della vita quotidiana, proverà meraviglia, e conseguentemente gratitudine, per il fatto che qualcosa esiste. Occorre pensare in termini di dono, in una prospettiva in cui nulla è al nostro servizio, la natura non va soggiogata, gli stessi legami debbono essere riparametrati oltre il paradigma del possesso esclusivo. È questa gratitudine che ci costituisce radicalmente come responsabili di tutto ciò che, con la sua sola esistenza, emerge dall’anonimo orizzonte del nulla: un sì detto ad ogni sasso, a ciascun essere vivente, a partire da noi stessi.

Il primato dell’essere possiede anche intrinseche ricadute bioetiche: tramite il concetto di potenza, non riducibile a mera possibilità, consente di costruire un antropologia ontologica, assai più feconda di quella prestazionale che oggi appare dominante. Travalicando l’alternativa tra chi fa consistere la persona unicamente nelle sue relazioni, e chi insiste sul suo essere come soggetto sussistente, una rivisitazione dell’idea tommasiana di persona come creatura razionale può sostenerci nel rifuggire la sterile ed apparente contrapposizione tra individualismo e massificazione, impedendo al soggetto di dissolversi nella anonima pluralità di infinite relazioni.

Occorre tornare a concepire l’uomo non come il padrone dell’ente, ma alla stregua del “pastore dell’essere”, secondo la celebre espressione di Heidegger . L’essere sfugge alla presa dei concetti, allude al mistero del reale, di cui il pastore con la sua stessa indigenza è, in qualche modo, segno. L’essere esige rispetto e custodia, non può venire manipolato alla stregua di un qualunque utilizzabile, perché, come detto, l’orizzonte della potenza eccede radicalmente quello della mera possibilità. È proprio il concetto tommasiano di atto d’essere che dischiude all’uomo questa apertura originaria che Savagnone situa nel quadro di un’ecologia integrale. Se, abbassando l’uomo al livello delle cose, pare riduttivo ingaggiare la battaglia ambientale nell’orizzonte di un naturalismo sterile, si può affrontare la questione e da una prospettiva in cui tutto, certo non confusamente, è e, per questo solo fatto, merita rispetto.

Così la creazione diventa via verso l’assoluto. Come ha osservato Benedetto XVI Tommaso d’Aquino ha insegnato che la nozione di creazione deve trascendere l’origine orizzontale del dispiegamento degli eventi. Tommaso ha osservato che la creazione non è né un movimento né una mutazione. È piuttosto il rapporto fondazionale e costante che lega le creature al creatore. Più semplicemente la nozione di creazione si pone su un piano ontologicamente diverso da quello della scoperta scientifica e quindi nessuna innovazione può renderla residuale, perché essa riguarda non il rapporto cronologico, ma l’apparizione ontologica dei singoli esseri.

Il creato, con il suo divenire finalistico, allude al divino, come le cinque vie mostrano, ma non è Dio, perché solo in Lui essenza ed essere coincidono: Dio è l’essere, le cose hanno l’essere per partecipazione. Una mentalità questa che unicamente la Rivelazione cristiana rende possibile, rescindendo, in radice, ogni equivalenza tra Dio e la natura.

Sempre dalla Rivelazione rampolla l’idea, ignota tanto a Platone quanto ad Aristotele, di un Dio che non si conosce, ma ci conosce; non si pensa ma ci pensa fino allo scandaloso abbraccio della Croce. Un abbraccio che racchiude il mondo intero, noto al suo autore fin nei suoi più reconditi interstizi, come nota gli è la vita di ciascuno di noi.

Ma forse l’insegnamento più profondo Tommaso lo offre in quel prolungato silenzio che precedette la sua morte, un silenzio di cui, oltre ogni semplicistica contrapposizione, possono fungere da chiosa queste parole di Agostino: “Che ho mai detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia, santa? Che dice mai chi parla di te? Eppure, sventurati coloro che tacciono di te, perché, pur pronunziando tante parole, in realtà sono muti”. Un silenzio, presago di quel futuro che diverrà presente, anzi eterno, solo oltre la fugace curva dei nostri giorni. 

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SEI IN CONDOTTA

 

 


IL SIMBOLO 
DELLA CONFUSIONE EDUCATIVA 
DEGLI ADULTI 




Il voto in condotta diventa indispensabile per l’ammissione alla classe successiva nella scuola secondaria. I pareri di Valentina Chinnici, presidente di Cidi, e del pedagogista Daniele Novara

di Rossana Certini

«Diamo così un segnale forte e chiaro: nella scuola italiana il rispetto per la persona e per le istituzioni è imprescindibile». Con queste parole il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha annunciato l’approvazione definitiva, lo scorso 30 luglio, dei regolamenti attuativi della legge 150 del 1° ottobre 2024, la norma che ha riformato in profondità il voto di condotta nella scuola italiana.

Da settembre, dunque, il voto in condotta diventa fondamentale per l’ammissione alla classe successiva della scuola secondaria. Sarà necessario aver ottenuto, in sede di scrutinio finale una valutazione pari almeno a 7 decimi. Qualora la condotta sia valutata con 6, non sarà concessa l’ammissione automatica: il giudizio verrà sospeso e sarà richiesto agli studenti di presentare un elaborato legato alla cittadinanza attiva, collegato ai motivi che hanno determinato il voto ottenuto.

Più efficaci i crediti di fiducia

«Ho insegnato per vent’anni nelle scuole delle periferie di Palermo e posso dire con assoluta certezza che tutto ciò che riguarda voti in condotta e sanzioni disciplinari, quando è applicato a ragazzi cosiddetti “difficili” o “a rischio” ovvero giovani che manifestano comportamenti trasgressivi, talvolta persino ai margini della devianza, non funziona». A dirlo è Valentina Chinnici, presidente del Centro di iniziativa democratica degli insegnanti-Cidi, un’associazione che, dal 1972, riunisce insegnanti di tutti gli ordini di scuola e di tutte le discipline, con l’obiettivo di contribuire alla creazione di una scuola democratica, culturalmente più attrezzata e più vicina agli interessi di ragazze e ragazzi.

«Queste misure non producono miglioramenti, anzi: inaspriscono il conflitto, irrigidiscono i comportamenti e cristallizzano la devianza», sottolinea Chinnici che aggiunge: «Se l’obiettivo della legge è rafforzare l’autorevolezza dei docenti o ridurre la violenza e l’aggressività a scuola, mi sento di dire, per esperienza diretta, che non è questa la strada giusta». Secondo la presidente Cidi i ragazzi più oppositivi «rispondono molto meglio ai “crediti di fiducia”. Questo vuol dire che quando sentono che l’insegnante crede in loro, cambiano atteggiamento. Ma se si sentono sfidati sul piano della punizione, dell’autorità imposta dall’alto, non reagiscono come si spera. Anzi, non riconoscono quella forma di autorevolezza. Questi ragazzi sono spesso convinti di non farcela. E così, per difesa, fanno saltare il banco o lanciano il quaderno».

Se l’obiettivo della legge è rafforzare l’autorevolezza dei docenti o ridurre la violenza e l’aggressività a scuola mi sento di dire, per esperienza diretta, che non è questa la strada giusta. I ragazzi rispondono molto meglio ai “crediti di fiducia”

Il rischio di un maggiore abbandono scolastico

Secondo il pedagogista Daniele Novara tra i rischi delle nuove misure c’è quello di un aumento dell’abbandono scolastico, in particolare tra gli studenti maschi, già oggi più esposti alla dispersione. Secondo i dati Istat 2023, infatti, la quota di 18-24enni con al più un titolo secondario inferiore e non più inseriti in un percorso di istruzione o formazione è pari al 10,5%. Il fenomeno dell’abbandono scolastico è più frequente tra i ragazzi (13,1%) rispetto alle ragazze (7,6%). Novara ricorda che «siamo tra i Paesi europei con meno laureati, insieme alla Romania. Il sistema scuola attuale non riesce a trattenere soprattutto i ragazzi. Le studentesse sono oggi due su tre fra i laureati, è un dato che nasconde una frattura di genere importante».

Inoltre, aggiunge, «la scienza, dalle neuroscienze alla psicologia sociale, ci dice chiaramente che i metodi basati sulla “mortificazione” non sono efficaci. Pensando all’ipotesi di bocciatura è importante comprendere che escludere un ragazzo dal suo gruppo classe come “pena” per un cattivo comportamento non genera apprendimento, ma solo rifiuto».

È un po’ come se trattassimo l’ambiente scuola come quello sportivo, trasformandolo in una gara dove o si vince o si perde. Invece secondo Novara è importante che «la scuola sia una comunità di apprendimento in cui anche i ragazzi più in difficoltà devono poter essere inclusi. I ragazzi, soprattutto in adolescenza, sviluppano una reazione di rigetto verso un’istituzione che li rifiuta. La scuola rischia così di perdere il suo ruolo educativo e trasformarsi in un luogo punitivo».

I ragazzi, soprattutto in adolescenza, sviluppano una reazione di rigetto verso un’istituzione che li rifiuta. La scuola rischia così di perdere il suo ruolo educativo e trasformarsi in un luogo punitivo

Ripensare l’autorità educativa

Anche se oggi sembra esserci un ampio consenso, almeno a livello emotivo, verso soluzioni di tipo repressivo, si tratta di risposte che parlano più alla pancia dell’opinione pubblica che alla sua parte razionale. Del resto, è molto più semplice sollecitare istinti punitivi che costruire una visione educativa realmente condivisa.

Però Novara precisa: «Attenzione, non bisogna rinunciare all’autorità: bisogna ripensarla. I ragazzi di oggi crescono in un contesto completamente diverso da quello in cui sono cresciuti i loro genitori e insegnanti, dominato da dispositivi digitali, social network, carenze di sonno e isolamento sociale. È evidente che poi fanno fatica a concentrarsi. In questo scenario, non possiamo imporre un modello educativo del Novecento a ragazzi del XXI secolo. Occorre una comunità educativa che accompagni, orienti, ma anche ponga paletti chiari e condivisi. Mettere dei limiti non significa punire, ma dare una cornice chiara in cui crescere».

Attenzione: non bisogna rinunciare all’autorità: bisogna ripensarla. Mettere dei limiti non significa punire, ma dare una cornice chiara in cui crescere

Scuola-famiglia

Serve una connessione forte tra scuola e famiglia perché, spiega Novara, «se un ragazzo dorme solo cinque o sei ore a notte, magari per via dei videogiochi, è logico che a scuola sarà distratto. I genitori devono essere supportati per capire come gestire il sonno, l’uso dei dispositivi, la socialità dei figli. Non si può pensare che la scuola compensi da sola tutte le carenze educative, né che si trasformi in un “presidio militare” del rigore».

Quindi la scuola deve essere un luogo di collaborazione, attività di gruppo, apprendimento condiviso, «non solo lezioni frontali, studio e interrogazioni» perché questo tipo di approccio è «arcaico e inefficace, dice Novara. Che spiega: «Quando aumentiamo il lavoro cooperativo, la socialità e il confronto tra pari anche i ragazzi più in difficoltà trovano motivazione e appartenenza. È così che si previene non attraverso il ricatto della bocciatura. I genitori, da parte loro, devono assumersi la responsabilità educativa, devono presidiare la crescita dei figli finché sono minorenni, con regole, tempo condiviso e coinvolgimento».

Aggressioni al personale scolastico: serve un percorso educativo condiviso

Infine, vale la pena ricordare un dato emerso lo scorso 12 dicembre, in occasione della presentazione della Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti del personale scolastico quando il ministro Valditara ha incontrato una rappresentanza di dirigenti scolastici, docenti e personale Ata. Lì è emerso che nell’anno scolastico 2023-2024 si sono registrati 68 casi di aggressione al personale scolastico. Di questi: 33 sono stati compiuti da familiari di studenti, 31 dagli stessi studenti, 4 da persone estranee e in un caso l’autore è rimasto ignoto.

I dati mostrano quanto sia necessario avviare una riflessione profonda e coerente sul modo in cui noi adulti possiamo migliorare il nostro ruolo di guida e supporto: la disciplina non può limitarsi a una semplice sanzione, ma deve far parte di un percorso educativo condiviso, che tenga conto delle difficoltà e dei cambiamenti del contesto in cui i giovani crescono e soprattutto in cui noi adulti siamo esempio da seguire prima che adulti che sanzionano.

 Vita

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venerdì 1 agosto 2025

MIGLIORARSI ASSIEME

  


Il calo dei volontari e il loro ruolo

 



-       di VANESSA PALLUCCHI

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C’è una forza centrifuga all’individualismo, al consumismo dei sentimenti e all’indifferenza, che sta scuotendo il nostro Paese. E c’è una spinta alla solidarietà che viaggia in senso opposto, non si arrende e trova anche nuove forme di espressione per continuare a esistere.

L’Italia solidale che resiste dopo la pandemia, in una fase di crisi partecipativa e di aumento di povertà e solitudini mi sembra il primo dato da estrarre dall’indagine di Istat sul volontariato, di cui Avvenire ha scritto ieri, che conferma i 4,7 milioni di volontari italiani pilastro della coesione sociale. Ma i nuovi dati sono in grado di raccontarci anche molto altro, che riassumerei in tre punti: i numeri, le tendenze, i perché.

Partiamo dai numeri. Già la fotografia scattata da Istat nel 2023 (riferita al 2021, per il Censimento degli enti non profit) aveva evidenziato un rilevante calo, in dieci anni, di circa 900mila volontari. Se da una parte, però, la conferma di questi numeri non ci stupisce oggi, dall’altra la diminuzione non ci ha lasciati indifferenti nel tempo trascorso. Si è infatti avviato un processo, stimolato anche da un dibattito pubblico, che ha iniziato a interrogare le organizzazioni sulla loro capacità di attrarre i volontari e, più in generale, sulle trasformazioni del contesto in cui operano e sul modello evolutivo da perseguire. Tornando ai numeri, possiamo anche constatare come oggi ci troviamo in un momento di stabilizzazione, se non addirittura di timida ripresa dell’impegno volontario, se consideriamo che le stime Istat del 2023 parlavano di 4,6 milioni di volontari.

Passando alle tendenze, tra le novità più rilevanti dell’indagine c’è sicuramente l’aumento di volontari che svolgono attività in forma “ibrida”, cioè sia all’interno di organizzazioni che attraverso aiuti diretti (nonostante il calo riguardi entrambe le forme prese singolarmente). 

Interessante è anche la crescita dell’impegno nelle attività ricreative e culturali. Entrambe queste tendenze riflettono l’emergere di nuovi bisogni, tanto dei volontari quanto delle comunità in cui operano, e dunque la ricerca di nuove risposte sociali. È compito, assolutamente cruciale, delle organizzazioni quello di leggere queste trasformazioni ed evolvere, rafforzando quegli elementi che più le contraddistinguono, a partire dalla capacità di costruire reti sociali laddove la società attuale tende a disgregare; di offrire una cornice di valori condivisi e una visione di futuro migliore possibile laddove prende spazio disillusione e paura; di favorire l’acquisizione di competenze, importanti anche per la crescita personale dei volontari; di porsi come facilitatrici tra il desiderio e l’effettiva possibilità di realizzare azioni concrete di cittadinanza attiva. 

Infine, veniamo ai “perché”. Credo sia un segnale molto positivo la maggiore predisposizione, evidenziata da Istat anche in chi svolge aiuti diretti, a indirizzare il proprio contributo verso la collettività, l’ambiente, il territorio piuttosto che verso relazioni interpersonali dirette. In una fase complicata e spesso cupa come quella che viviamo, assume più peso il sentirsi immersi in un simile destino con il prossimo anche sconosciuto, e quindi la necessità di resistere e migliorare assieme. 

La realizzazione che “nessuno si salva da solo”, come diceva anche papa Francesco, pare accomunare sempre più persone.

Al Terzo settore l’incarico di offrire tutti i migliori strumenti per difendere e incoraggiare il desiderio di solidarietà.

 Portavoce Forum Nazionale del Terzo Settore

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I SONNAMBULI e LA PACE


 SIAMO ANCORA

 SONNAMBULI


Grande guerra e lezioni dimenticate



-di MARCO IMPAGLIAZZO


 C’è – tra gli storici – chi vede analogie tra il tempo che viviamo e quello che precedette la Prima guerra mondiale: una potenza in ascesa, una in declino, riarmo, tensioni, volontà di dominio. Tutto ciò portò, esattamente 111 anni fa, il 28 luglio 1914, a uno scontro locale destinato ben presto – già il 1° agosto – a trasformarsi in una conflagrazione continentale, e poi globale. Al di là dei confronti, sempre opinabili, benché suggestivi, è certo che il sonnambulismo che accompagnò l’inizio di quella guerra, l’accumulo di materiale bellico negli anni precedenti, la certezza di un conflitto breve e controllabile, la testarda caparbietà con la quale vennero condotte offensive per pochi metri di terra al prezzo di migliaia di morti, hanno qualcosa da dire al nostro tempo.

Sembra, infatti, che alcuni leader mondiali giochino con il fuoco, incuranti delle tragiche conseguenze che potrebbe avere il saldarsi dei tanti conflitti della “guerra mondiale a pezzi” in un quadro più unitario. Pare superato il multilateralismo imperfetto della Guerra Fredda, considerato inutile da Capi di Stato e di governo abituati a fare i conti unicamente con opinioni pubbliche plasmate dalle emozioni e dall’umoralità dei social.

Non tutti, in quegli anni, però caddero preda dell’ubriacatura da sangue. Anzi, l’immane macello della guerra di trincea diede l’avvio all’evoluzione del magistero cattolico davanti a ogni conflitto, un “ministero di pace” (così lo ha definito Andrea Riccardi), che è la grande eredità che i papi del XX e XXI secolo si sono consegnati l’un l’altro, fino a giungere all’appello di Leone XIV per una «pace disarmata e disarmante».

Tornando al secolo scorso, nel terzo anniversario della dichiarazione di guerra della Germania a Francia e Russia, il 1° agosto 1917, Benedetto XV scriveva la famosa lettera «ai capi dei popoli belligeranti», in cui definiva il conflitto in corso una «inutile strage», invitando tutti a deporre le armi, a disarmare, a trattare sulla base del diritto.

Scriveva: «Il mondo civile dovrà dunque ridursi a un campo di morte? E l’Europa, così gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da una follia universale, all’abisso, incontro a un vero e proprio suicidio?». A leggere tali parole oggi – mentre ormai il Vecchio Continente non è che una delle tante facce del “poliedro” globale, e nemmeno una delle più vivaci o ascoltate – non si può che guardare con rispetto alla capacità di lettura della storia che il Papa manifestava. Quanto potente è l’impulso suicida degli Stati e delle civiltà se ancora in questo primo quarto del XXI secolo abbiamo visto e vediamo realtà nazionali o plurinazionali correre incontro al «fallimento della guerra», come ha detto più volte papa Francesco. Nell’“età della forza” in cui viviamo, in troppi si affidano alla spada pensando di esserne immuni.

Purtroppo, la spada oggi conta più della carta dei Trattati internazionali.

In un mondo cieco la saggezza della Chiesa vede la realtà per quella che è e la chiama per nome: «Siamo animati dalla speranza di giungere quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale – affermava Benedetto XV – ogni giorno di più, apparisce inutile strage».

Strage di civili a Gaza, strage di militari e bombardamenti incessanti in Ucraina, stragi in Sudan, nella Repubblica Democratica del Congo, in molti altri angoli del Pianeta. E tutto in nome di obiettivi il cui pieno raggiungimento si allontana sempre più. C’è tanto di tragicamente inutile nelle guerre di un mondo che avrebbe invece bisogno di unirsi per far fronte comune alle sfide globali, come il riscaldamento climatico, le ondate migratorie, gli squilibri demografici, l’epidemia di solitudine – di cui sono vittime principali gli anziani ma che attraversa tutte le generazioni –, le nuove frontiere della scienza, l’impoverimento culturale, lo smarrimento dei più giovani.

L’ appello accorato di Benedetto XV rimase inascoltato. Di lì a poco più di un anno, molti dei Paesi sconfitti nella guerra se ne sarebbero pentiti. Ma anche gli stessi vincitori del conflitto si sarebbero trovati alle prese con enormi problemi interni da affrontare, un’economia distrutta, la prospettiva evidente di una guerra futura – che arrivò in un ventennio – ancor più terribile.

Oggi, tanto negli ambienti governativi e diplomatici quanto in quelli che formano e indirizzano il dibattito pubblico si dice che non è il momento di trattare, si sostiene che “con quel nemico lì”, qualunque esso sia, non si può scendere a compromessi. La storia, la ragione, la speranza ci ricordano che tali prese di posizione sono miopi, illusorie, senza fondamento. Occorre ripeterlo con forza per non arrendersi al male: è ancora tempo per immaginare un ordine internazionale diverso in cui la pace sia al primo posto. Ed è più che mai un compito urgente e ineludibile per chiunque vive la responsabilità della guida dei popoli.

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giovedì 31 luglio 2025

CONTROCOMUNICAZIONE

Immagine che contiene arte, vaso, pianta, interno

Il contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto. 

Così le big tech digitali

 spengono il desiderio di pensare

Recensione di "Controcomunicazione", saggio di Guido Bosticco e Giovanni Battista Magnoli Bocchi (Franco Angeli, 2025): come si manifesta l’ottundimento del pensiero? In massimo grado con la polarizzazione. Si ha sempre meno voglia di capire le ragioni dell’altro. Che si tratti di decretare chi sia il più grande calciatore della storia, o il miglior film su Batman, o di chi è la colpa di una guerra, comanda la fazione, l’appartenenza emotiva

di Doriano Zurlo

È un libro molto interessante, Controcomunicazione di Guido Bosticco e Giovanni Battista Magnoli Bocchi (Franco Angeli, 2025). Lo dovrebbero leggere in tanti. Non solo chi si occupa di comunicazione in modo professionale (giornalisti, opinionisti, critici, insegnanti, politici, moderatori di talk show, pubblicitari, social media manager…), anche chi di mestiere fa tutt’altro. Se non altro per rendersi conto, per esempio, che «il potere di parola che chiunque sembra aver conquistato, l’opportunità cioè di parlare potenzialmente al mondo intero e divenire un opinion leader, potrebbe rivelarsi funzionale a un sistema di potere in principio alternativo a quello tradizionale, ma forse più soverchiante e subdolo di quello. In parole povere, per picchiare duro contro i governi e le vecchie corporation si fa il gioco delle big tech digitali, che sembrano essere così diventate più potenti dei governi e delle vecchie corporation».

Senza pensieri

Il saggio non è troppo lungo, in tutto parliamo di 150 pagine piuttosto scorrevoli. Ma gli spunti offerti sono parecchi, e ognuno è meritevole di riflessione. Tra questi, non mancano ragioni di sconforto e inquietudine per il futuro che ci aspetta. Gli autori constatano, non senza una punta di amarezza, che «la tecnica ci ha esonerato, nella storia, da molte attività fisiche faticose, e oggi – in particolare con l’avvento dei sistemi di intelligenza artificiale che già da tempo sono nei nostri smartphone, nei computer, nelle piattaforme TV – tende sempre più a esonerarci anche dal pensare. Gli strumenti scelgono per noi che cosa vedere o ascoltare, in base ai nostri gusti e a quelli di persone profilate come simili a noi, spesso anticipano i nostri desideri, altrettanto spesso li indirizzano. Gli strumenti, soprattutto, selezionano per noi le informazioni, il cosa, il come e il quando presentarcele, e per lo più inquadrano questa presentazione in un contesto interpretativo che ci instrada, perché è confortevole per noi (è creato su misura in base ai nostri interessi) e rafforza le nostre posizioni. Così non dobbiamo fare la fatica di pensare».

Una spiegazione, per quanto non esaustiva, del perché il mondo sia impazzito ai livelli attuali, va forse rimandata proprio a questo fatto che pare acclarato: abbiamo smesso di pensare. Ma come si manifesta l’ottundimento del pensiero? In massimo grado con la polarizzazione. Si ha sempre meno voglia di capire le ragioni dell’altro. Che si tratti di decretare chi sia il più grande calciatore della storia, o il miglior film su Batman, o di chi è la colpa di una guerra, comanda la fazione, l’appartenenza emotiva a un certo modo cristallizzato di vedere il mondo, «giacché le opinioni sfumate e le posizioni di mediazione hanno sempre meno cittadinanza nel circuito mediatico, in particolare sui social media».

Fake news

L’efficacia di una comunicazione, purtroppo, non è legata alla verità del contenuto che veicola. E questo libro, che è anche un libro di tecnica della comunicazione, volto a illustrare i meccanismi che rendono una comunicazione efficace o meno, ha il pregio di prenderne atto senza troppi patemi d’animo. Anche perché le fake news esistono da sempre: «Un esempio, fra i molti, possiamo prenderlo dal 1274 a.C., con la battaglia di Qadesh, nell’attuale Siria, fra gli Egizi e gli Ittiti, due vere super potenze dell’epoca. Sui muri dei tempi di Luxor e di Abu Simbel o nel Ramesseum di Tebe, sono rappresentate le scene di questa battaglia, in cui il faraone Ramses II travolge orde di Ittiti, schiacciandoli sotto le ruote del suo carro e correndo incontro a una fulgida vittoria. Tutti i sudditi dovevano comprendere questo successo, la comunicazione era importante quanto la vittoria. Ebbene le cose non andarono così, la battaglia si avviò verso uno stallo (e anzi semmai furono gli Ittiti a prevalere) al punto che si concluse con la stipula di un trattato di pace, divenuto assai famoso». 

Per quanto riguarda l’oggi, il tema è talmente pervasivo che non si può affrontare secondo schemi troppo scontati, quelli per i quali se crediamo all’allunaggio, alla terra rotonda, ai vaccini e al riscaldamento globale, allora siamo intelligenti e al riparo da qualsiasi manipolazione della realtà. Il fatto è che «tutti noi fruiamo delle fake news, quando esse coincidono o sono nell’area delle nostre convinzioni e del nostro pregiudizio. Se io ho un’opinione su un fatto e trovo un elemento di conferma, non mi insospettisco: posso non dargli troppo peso o posso invece aggiungerlo al mio bagaglio per rafforzare la mia idea, ma difficilmente mi impegno per metterlo in dubbio, per metterlo alla prova, per testarlo, per fare debunking, se volete». Vale per chi crede nelle scie chimiche, vale per noi che ci sentiamo colti e intelligenti e sempre dalla parte giusta.

Relativismo o verità?

Siamo dunque condannati a un relativismo che metterà in gioco per sempre qualsiasi nostra certezza? Già nel dibattito social attuale, non di rado mi è capitato di leggere commenti di questo tenore: “la verità è un concetto superato, guardiamo alla situazione concreta”». Mi è capitato soprattutto parlando della guerra che infiamma, da tre anni, l’est Europa. Sono stato in Ucraina tre volte, dall’inizio della guerra, e ogni volta ho riportato la mia testimonianza diretta, in aperta contraddizione con un certo racconto che farebbe degli ucraini un popolo al servizio degli Usa e di loschi interessi occidentali. Non potendo contestare la testimonianza diretta – a meno di non darmi del contaballe, e qualcuno l’ha pur fatto… – mi è stato contestata l’idea che si debba partire dalla verità: “è un concetto superato”. Qui, naturalmente, si pone l’eterno problema: nel momento in cui lo affermi, stai affermando una verità, la tua verità, e quindi cadi in contraddizione. Ma lasciamo perdere le finezze epistemologiche. Guardiamo al concreto, come mi è stato consigliato di fare. Seguendo questa logica, gli ucraini, invece di attaccarsi alla verità di avere subito un’aggressione, avrebbero dovuto rinunciare al Donbass subito, e così facendo non ci sarebbero stati tutti quei morti! È la logica del professor Orsini. Che se applichiamo anche a Gaza, però, ci costringerebbe a dare ragione a Trump: perché non spostare i palestinesi altrove e fare di Gaza una riviera per ricchi? Questo risolverebbe molte cose, no? Be’, c’è un piccolo problema, e questo problema si chiama, ancora una volta, verità. Se gli ucraini avessero detto, nel 2022, va bene, prenditi il Donbass, Putin si sarebbe preso l’Ucraina tutta intera. E se i palestinesi venissero dislocati in terre estranee alla loro tradizione, questo significherebbe l’annichilimento di un intero popolo. 

La verità, oltretutto, in casi come questi non ha bisogno di chissà quali tortuose elaborazioni: chiunque bombardi civili è un criminale.

Ritornare a pensare

Dalla verità non si può prescindere. Se io credo con i vaccini mi iniettino un microchip per controllarmi non potrò che agire di conseguenza, perché quella, per me, è la verità. E sulla verità, su ciò che crediamo tale, noi impostiamo ogni istante della nostra esistenza. Quello da cui si prescinde, invece – lo abbiamo accennato sopra ed è anche una tesi del libro – non è tanto la verità, quanto il pensiero. Ma cosa vuol dire pensare? Questo è un bel tema. Dal quale però siamo continuamente distratti. Il mondo digitale ci regala tante, tantissime cose. Perché ha trasformato ogni cosa – dai due sfigati al concerto dei Coldplay ai bambini mutilati a Gaza – in intrattenimento. Ma poi non è vero che ce le regala. Perché esige da noi un prezzo altissimo, esige la nostra attenzione, il bene più prezioso che c’è, in questo momento, sulla faccia della Terra. Distratti, abbiamo sempre meno tempo per pensare. Pensare vuol dire certamente leggere, approfondire, farsi aiutare da chi ne sa di più, non accettare certe semplificazioni, ragionare sulle varie posizioni, tentare mediazioni (la verità sta nel mezzo, diceva Aristotele), valutare i fatti, capire certi meccanismi eccetera. Ma significa soprattutto guardarsi dentro. Avere attenzione per noi stessi, cioè per ciò che ci costituisce, e ciò che ci costituisce è una esigenza di verità e giustizia infinite, che non si possono risolvere nelle parole di un talk show o di una polemica sui social.

Il passo che più mi è piaciuto del libro di Bosticco e Battista Magnoli Bocchi è questo: «Un venditore di automobili abile sa adattare le proprie argomentazioni alle esigenze e ai valori del cliente che ha davanti. La stessa auto può essere presentata come “la più sicura”, “la più elegante”, “la più economica”, “la più venduta” o “la più alla moda”, a seconda delle priorità dell’acquirente. Dipende dalla capacità del venditore di intuire i desideri e le preoccupazioni del compratore, cioè se, per esempio, ha paura di guidare, se vede l’auto come simbolo di prestigio, se è attento ai costi, se preferisce un modello molto diffuso per sentirsi rassicurato o un modello esclusivo per distinguersi: il venditore modifica la propria strategia di persuasione sulla base della percezione che ha del suo interlocutore. La macchina invece è sempre la stessa».

La macchina invece è sempre la stessa. Ecco, pensare serve a farci trovare la macchina, sotto tutte le allusioni e strategie che il venditore mette in atto per convincerci a comprarla. La macchina, in un certo senso, è la verità. Sempre che sia una macchina e non uno scaldabagno. 

Ma questo sta a noi scoprirlo.

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