- - di Alessandro D’Avenia
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“Siamo
i genitori di un ragazzo di 14 anni che nel 2021 si è tolto la vita.
Frequentava per sua scelta il primo anno del liceo. In questi tre anni siamo
venuti a conoscenza di molti, troppi ragazzi che hanno compiuto lo stesso
disperato gesto. Proprio la settimana scorsa un altro dello stesso Liceo ha
deciso di farla finita. Non possiamo e non vogliamo più stare fermi, vorremmo
fare qualcosa per aiutare questi ragazzi sensibili, sofferenti, fragili,
disarmati”.
La
fragilità
Già
diversi anni fa nel libro “L’arte di essere fragili” cercavo una cura per
questa emergenza: ero colpito da questa volontà di morte giovanile, della quale
i suicidi in crescita erano l’esito estremo, ma molte altre le evidenze (ansia,
disordini alimentari, autolesionismo, dipendenze, depressioni). In quelle
pagine partivo dal fatto che una cultura è a misura della risposta che dà alla
morte, perché la cultura è il modo umano di dare vita alla vita, di mettere al
mondo il mondo. Se la morte è cercata o interiorizzata proprio dai ragazzi, che
rivolgono l’energia creativa che li caratterizza contro se stessi o contro un
mondo che non merita il loro coinvolgimento, è perché la nostra cultura della
vita è carente. Se la vita promessa non è vita buona, la “somatizzazione” della
morte non è solo sintomo ma atto politico. E in un tempo in cui incidere
politicamente (cioè sulla realtà) è quasi impossibile, questo è per i ragazzi
il modo di ribellarsi a questo mondo per generarne uno nuovo. Sono morti
rivoluzionarie. Perché?
Il
gioco del buio
Mi
faccio guidare da una canzone scritta di recente da un mio studente. Un rap che
si intitola “Il gioco del buio” (si trova in rete associata al nome d’arte:
Namibia). Nella prima strofa dice: «Non affronto problemi/ finché sono
giganti/ mi chiedo se per crescere/ valga la pena iniziare a causarli». Il
ritmo che caratterizza questo genere musicale è amato da questa generazione
perché da un lato incarna un rapporto con il mondo e con se stessi frammentato,
concitato, arrabbiato (“Il rap è la voce degli oppressi, un modo per dare voce
a chi non ne ha” dice un personaggio del famoso film 8 Mile con
Eminem), e dall’altro cerca un radicamento alla terra e agli altri, un rito
tribale che permette di abitare la rabbia e il mondo (“Il rap è una famiglia”
dice un altro nel film citato). Le rime ossessive di un parlato di strada sono
un colpo “di grazia” da infliggere ma anche una grazia “di colpo”, un’inattesa
armonia in mezzo al frastuono. Le parole di Namibia narrano la paura di entrare
in questa vita: vale la pena crescere qui? È la vita che abbiamo creato a
essere in discussione. É una vita buona?
La
nostra cultura risponde alla paura della morte con la tecnica e l’accumulo, ai
dispositivi e al consumo chiediamo il senso dell’esserci, la nostra assoluzione
e redenzione. Ma questo comporta che la produzione aumenti e acceleri e che noi
diventiamo parte del meccanismo, come Charlie Chaplin malmenato dalla macchina
che lo nutre automaticamente in Tempi moderni.
Tutto
e subito
Siamo
su un treno che corre a velocità sempre più sostenuta, vogliamo tutto e subito
infrangendo i limiti della fisicità, ma i corpi non reggono alla pressione:
re-pressi, esplodono, de-pressi, implodono. Il rapporto con il mondo è desincronizzato,
cioè non riusciamo più ad andare a tempo con le cose e le persone, che non ci
toccano mai e diventano mute, fredde, nemiche. La mancanza di sincrono e di
sintonia con il mondo, che il rap mima meglio di altre forme musicali, è
alienante: essere qui è solo ansia e fatica. Spesso sento dire: “Voglio
scendere!”, espressione che tradisce la percezione della vita come corsa senza
senso, e non come cammino fatto sì di fatica ma anche di gioia e scoperta. La
distanza da sé, dalle cose e dalle persone paralizza le energie creative prima
ancora di averle evocate: «loro non vedono ciò che sento/ e infatti
scrivere è un mio bisogno/ ti parlo di gente che non conosco/ spesso mi trovi
fuori contesto/ praticamente in qualsiasi posto/ forse per questo mi sento
perso», parole che da un lato descrivono l’alienazione, il sentirsi sempre
fuori posto e fuori tempo, dall’altro cercano una via: «ho cercato il
buio/ l’ho trovato e gli ho dato anche un nome e una forma/ sto imparando a
conviverci/ nascondo ciò che mi fa bene nell’ombra/ chiedi “cosa puoi farci?”/
Finirò per odiarmi».
Il
senso di colpa
Il
senso di colpa e di vergogna per una vita di cui non ci si sente mai
“all’altezza” (come se la vita fosse uno standard da raggiungere e non quello
che è già in noi proprio all’altezza che abbiamo) diventano così forti che
molti iniziano a “odiarsi” o “odiare”, e l’odio è l’energia creativa della
vocazione all’unicità che muove tutto e tutti, che non trovando esiti vitali
viene rivolta (è una rivolta!) contro se stessi e il mondo.
Continua
Namibia: «io non parlo di ciò che non vivo/ perché so quanto pesa la
verità/ non ho scritto le regole e/ credimi mi hanno segnato/ racconto le cose
che vedo/ finché nei polmoni/ non trovo più fiato./ Non so che cos’ho./ Ma con
ogni mio passo/ salgo/ per cadere più in basso./ Non so che cos’ho./ Non so che
cos’ho». Un passo che sale per cadere, come il Sisifo che Camus nel 1942 aveva
scelto a emblema dell’uomo che non smette di trasportare il masso della vita
anche se dovrà poi ricominciare sempre come il famoso eroe mitico. Oggi però
Sisifo è esaurito, sta male e non sa perché. La canzone si chiude così: «parlo
di meno da un tot/ mentre elimino ciò che mi salva/ non ho manco le briciole in
tasca/ questa cazzo di vita mi stanca/ seguo orari e pensieri che affronto/ coi
lividi in faccia e voragini in pancia/ per capire con calma che cosa mi manca».
La
cultura del risultato
Questa
vita sfinisce, perché la cultura della perfezione e del risultato è estenuante.
Ma si invoca “calma” per capire che cosa “manca”. Questo è ciò che cercano i
ragazzi, relazioni con il mondo e gli altri non basate sulla velocità, sulla
produzione di se stessi, sulla auto-promozione narcisistica, sul consumo,
perché la realtà torni a essere casa. Manca “casa”: Namibia non ha le briciole
in tasca per tornarci, è un Pollicino senza speranza. Ma che cosa è casa?
L’essere
umano non è “fatto”, non è “prodotto”, ma è “generato”. Ciò che abbiamo in
comune tutti, proprio tutti, è essere “figli”. Questa generazione
(“generazione” appunto, non “produzione”) chiede di riappassionarsi alla vita a
partire dalla filiazione distrutta dall’individualismo auto-produttivo (diventa
ciò che vuoi anziché diventa ciò che sei) e consumista (pien-essereanziché ben-essere),
vuole appartenere al mondo e agli altri (essere da), per avere una vita
da dare (essere per).
Rigenerarsi
I
luoghi della possibile ri-generazione (a ri-generare sono le relazioni che ci
rendono più figli, cioè soggetti capaci di ereditare il mondo e arricchirlo)
sono la famiglia, la scuola, l’amicizia, il lavoro, la politica, la natura,
l’arte, lo sport e la religione, ma spesso sono sottomessi alla performance,
alla fretta, al consumismo e quindi svuotati del loro potenziale di gioia e di
risveglio. Quanto mi sento “figlio” in questi luoghi? Dalla risposta dipende
quanto sono a casa nel mondo, quanta gioia di vivere ho e quindi quanto ho
voglia di crescere: perché dovrei voler vivere se un amore non mi desidera
esistente? Questa è la rivoluzione che i ragazzi stanno incarnando. Con i loro
corpi.
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