Non
è importante avere una vita lunga ma una vita larga, capace di moltiplicare i
mondi e allargare orizzonti grazie alla forza del desiderio
- di Lucia
De Ioanna
Un
viaggio esistenziale vertiginoso intorno ai volti del desiderio: di fronte al
folto pubblico presente martedì 16 luglio 2024 al Parco Ducale per ascoltarlo,
Massimo Recalcati, ospite con lo spettacolo I volti del desiderio della
rassegna Summertime, avvia il suo discorso a partire dall’immagine di una
pioggia che batte obliqua sui vetri, ricordo infantile e, nello stesso tempo,
figura delle nostre vite: l’origine di tutto per Lucrezio avviene con una
pioggia di atomi in cui si verificano piccole deviazioni, scarti imprevisti,
l’irruzione del caso a smagliare la trama della necessità: “La nostra vita
assomiglia a questa gocce che cadono, nessuna da sola. Ed è l’incontro con le
altre gocce che devia il nostro cammino”.
Il
primo nome del desiderio è incontro perché “siamo quello che abbiamo fatto
degli incontri che ci hanno fatto”. Il punto è saperlo afferrare al volo quel
momento, saper cogliere la luce di quella goccia e l’invito disegnato dalla sua
traiettoria.
Nella
vita dello studioso, la goccia lucente che ha saputo tracciare una traiettoria
imprevista sul vetro corrusco dell’adolescenza rifletteva il volto di Giulia,
giovane professoressa di Lettere incontrata all’istituto Agrario di Quarto
Oggiaro, “uno dei quartieri della periferia di Milano più poveri e inquieti”.
Giulia
fa il suo ingresso nella classe del giovane Recalcati “come un corpo celeste
che proviene da un altro universo”. Motore di qualsiasi didattica, è
un’erotica, la capacità di un insegnante di testimoniare, incarnandolo, il suo
amore per lo studio: la voce di Giulia ispira, il suo volto si illumina quando
legge le poesie ed è “una traccia luminosa nella notte che non ci si aspetta e
che quando arriva sembra trasformare ogni cosa”.
Le
tessere per tentare di comporre i volti del desiderio sono schegge di film,
quadri, romanzi forse perché è il territorio dell’arte quello in cui le
tensioni possono mostrarsi senza necessariamente doversi risolvere.
Se
il padre, fitoterapista, curava le piante malate con trattamenti che, agli
occhi del bambino, apparivano come “pozioni magiche per curare il dolore delle
foglie”, prefigurazione della possibilità di curare il dolore degli uomini, la
svolta che porta Recalcati a orientarsi verso la psicoanalisi dopo gli studi
filosofici è un incrocio tragico del destino: sopraggiunto per primo sul luogo
di un incidente, vede il corpo di una donna sbalzato sull’asfalto e, al
volante, un morto. Da lì, la necessità di “dare alla vita una seconda
possibilità mettendomi in psicoanalisi per curare la mia angoscia”.
Incontrare
il limite della vita significa intuire che, come ricorda ai suoi allievi il
professor John Keating, “siamo destinati a diventare concime per i fiori”. Se
siamo polvere destinata a tornare polvere, la gioia brilla nell’attimo e “il
desiderio esige adesso la sua soddisfazione, non in altro tempo o in un altro
mondo”. Lo insegna Gesù nel momento in cui, desiderando mangiare un fico e
trovando che l’albero ne era privo, lo maledice. “Il peccato più grande è
diventare simili a quel fico che non genera frutti” perché “non è importante
avere una vita lunga ma avere una vita larga, capace di moltiplicare i mondi,
di allargare gli orizzonti grazie alla forza del desiderio”.
E,
così come Gesù moltiplica pochi pani e pesci, allo stesso modo noi “con quel
poco che abbiamo”, se siamo nel desiderio – miracolo laico e umano - possiamo
arricchire la nostra vita, moltiplicarne le forze.
Mentre
il volto della madre è respiro che “ossigena la vita del figlio che, desiderato
e atteso, diventa a sua volta capace di desiderare”, quando la parola del
figlio non viene ascoltata, si ha un deperimento della vita, una sua
mortificazione.
Ma
incontrare l’ascolto può significare salvezza. Così fu per la giovane
Margarethe, l’ultima paziente di Freud, che, in un’intervista a Repubblica,
ricordò come il padre della psicoanalisi, dopo avere messo alla porta una madre
che copriva la voce della figlia rispondendo puntualmente al suo posto, fu la
prima persona capace di interessarsi alla sua parola.
Ed
è la parola, strumento umano per eccellenza, che può cambiare la traiettoria di
una vita, rimettendone in moto le energie bloccate da un trauma: parlando della
sua insonnia, del suo risvegliarsi ogni notte nell’ora in cui i nazisti fecero
irruzione nella sua casa per avviare il micidiale meccanismo della
deportazione, “quando Suzanne pronuncia la parola Gestapo, Lacan si alza e le
accarezza il volto dicendo geste à peau, carezza. Gesto di tenerezza
inaspettato che riformula la parola traumatica in una parola di salvezza”.
La
Parabola dei ciechi di Bruegel è porta di accesso su un “desiderio cieco,
mosso da costante inquietudine, sempre alla ricerca di ciò che manca: tratto
della contemporaneità, siamo ipnotizzati dall’oggetto del desiderio che è
sempre altro rispetto a ciò che abbiamo”. Da qui, una spirale di illusione e
delusione da cui è difficile uscire restando nel recinto di un’eterna
insoddisfazione. La salvezza non può trovarsi nel feticismo degli oggetti che –
abiti o amori seriali che siano - sempre si rivelano deludenti rispetto
all’ideale: “l’appropriazione dell’oggetto implica uno scadimento del valore
dell’oggetto”.
Come
è possibile liberarsi, scartare di lato e uscire dalla colonna dei ciechi? “Se
il desiderio maschile feticizza il corpo femminile, facendo dei dettagli di un
corpo qualcosa di divino”, come ben rappresenta Roth ne Il professore di
desiderio in cui il protagonista rimane “rapito dall’oggetto” - una ciocca di
capelli, un paio di gambe che dondolano sotto al tavolo, un dito che sfiora le
labbra – sembra esserci “qualcosa che non si concilia tra il maschile e il
femminile, come se ci fossero due idiozie simmetriche: l’ipnosi feticistica
maschile e la domanda d’amore femminile”.
Tanto
quanto l’idiozia maschile è “compulsiva nel frammentare il corpo in pezzi”,
così quella femminile “è compulsiva nell’interrogare l’amore”.
Se
l’analisi è una via di liberazione, emblematico che “un uomo spesso finisce il
percorso quando impara ad amare mentre le donne terminano l’analisi quando
riducono la domanda d’amore rivolta all’altro e rivendicano un desiderio deciso
per la propria affermazione”.
L’ultimo
volto del desiderio, quello che testimonia della possibilità di sottrarsi alla
colonna dei ciechi (che rischiano di svegliarsi scoprendo di avere sognato il
sogno di un altro), ha i tratti di Billy Eliot, il giovane che segue con
decisione la sua vocazione alla danza perché “il desiderio è un fuoco che
accende la vita” e “quando lui è nel desiderio della danza, scompare il suo io
e diventa fuoco, elettricità”.
Un
fuoco, il desiderio, che, quando è autentico brucia lo steccato che,
moralisticamente, nel senso comune divide piacere e dovere: Billy Eliot ci
insegna a pensare che “il dovere e il desiderio sono due facce della stessa
medaglia: siamo salvi quando il nostro dovere coincide con il nostro desiderio
mentre c’è malattia quando il fare e il desiderare divergono”.
In
questo senso, avverte lo studioso, “non c’è alcun egoismo nel rispondere alla
chiamata del nostro desiderio facendo il possibile e l’impossibile per
realizzarlo, a volte anche nel nome dell’irresponsabilità”. Mentre il peccato è
“vivere per appagare il desiderio di altri, egoismo è quello di chi vuole
imporre alla nostra vita la misura della sua felicità. Se c’è una vocazione del
desiderio, il nostro compito è non fare della nostra vita un fico secco”.
Vocazione
riporta alla voce di Giulia, alla voce di chi sa chinarsi sulle parole,
amandole e coinvolgendo l’altro in questo amore, a chi sa che “la ricerca
aumenta i dubbi senza avere mai la pretesa di risolverli”. L’incontro con
quella giovane professoressa, come tutti gli incontri decisivi del nostro
destino, “non si è esaurito, non è impallidito, non si è estinto, ma continua a
compiersi: la voce di Giulia ascoltata in quell’istituto professionale continua
a essere in me e ad accompagnare la mia vita.
L’ultimo volto del desiderio è
quello della gratitudine”.
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