Padre Didon
ispirò
il
motto olimpico
In questo articolo il
Cardinal Ravasi ci parla di Angela Teja e di come analizza le dimensioni
filosofiche ed etico-spirituali di «Citius, altius, fortius» e del profilo del
domenicano, straordinario spirito eclettico nei suoi interessi.
- di Gianfranco Ravasi.
Non ho mai praticato
nessuno sport, se si eccettua la camminata chilometrica quasi quotidiana, che
non è però riconosciuta come disciplina sportiva. Eppure, forse sono
l’ecclesiastico che ha intrattenuto il maggior numero di contatti, rapporti e
dialoghi col Comitato Olimpico Internazionale e col suo presidente Thomas Bach,
al punto tale che – quando ho concluso il mio mandato di capo-dicastero
vaticano della Cultura, nell’ottobre 2022 – ho ricevuto dalle sue mani come
omaggio simbolico una delle medaglie d’oro delle Olimpiadi di Tokyo.
Questa premessa
autobiografica, forse un po’ spudorata, è tuttavia necessaria per presentare un
saggio di Angela Teja, la più importante studiosa dello sport come fenomeno
storico e culturale e, per certi versi, imparentato con la religione (tanti
sportivi hanno evocato i loro esordi nei campetti degli oratori parrocchiali
del passato). Infatti, in appendice al volumetto è raccolta tutta la
documentazione degli incontri e dei carteggi tra la Santa Sede e il Cio,
compresi quelli diretti tra il presidente Bach e il papa Francesco,
particolarmente sensibile a questo tema tanto da avallare la costituzione di
un’Athletica Vaticana che ha iniziato ad affacciarsi anche in alcune
competizioni internazionali.
Il cuore ideale di questa
connessione della Chiesa cattolica con la massima istituzione sportiva è da
ricercare in una componente ignota ai più che risale alle radici stesse
dell’olimpismo. Il celebre artefice di questa realtà ormai universale a livello
istituzionale (si pensi al rilievo del nostro Coni), il barone Pierre de
Coubertin (1863-1937) aveva come guida spirituale un domenicano, p. Martin
Didon (al secolo Henri Louis Rémy), a cui era legato da profonda amicizia. Fu
questo religioso, nato nel 1840 e dotato di uno straordinario spirito eclettico
nei suoi interessi, a suggerire il motto latino olimpico
«Citius-Altius-Fortius», di implicita matrice tomista.
In realtà, questa triade
che rimanda – attraverso un comparativo assoluto – a una tensione progressiva
nella velocità, nell’altezza e nella forza era stata elaborata inizialmente nel
1891 all’interno dell’attività pedagogica che p. Didon esercitava nel collegio
francese di Arcueil. La studiosa nel suo saggio ricostruisce la genesi di
questo motto anche nelle sue dimensioni filosofiche ed etico-spirituali, prima
che entrasse ufficialmente nella “Carta olimpica” nel 1949, quando p. Didon e
lo stesso de Coubertin erano da tempo morti (il domenicano si era spento nel
1900), ma con un’accezione tendenzialmente “fisica”. Tuttavia il Comitato
Olimpico si era sforzato di assegnare ad esso implicitamente una qualità più
morale come codice di condotta nelle competizioni sportive.
L’ottica iniziale era,
infatti, legata al rinnovamento del sistema educativo ai fini di una formazione
integrale della persona: fin dalla classicità si promuoveva un equilibro
interattivo tra corpo e anima. Chi non ricorda il detto Mens sana in corpore sano,
tratto da un verso (il 356) della X Satira del poeta latino Giovenale (I-II
sec. d.C.)? La paideia greca esaltava una formazione basata sull’euritmia
fisica, psichica e intellettuale, tant’è vero che gli eventi olimpici classici
erano persino generatori di poesia, come le odi Olimpiche di Pindaro (VI-V sec.
a.C.).
A questo punto, però,
ritorniamo al rapporto vaticano col CIO suggellato da una mia visita ufficiale
nella sede di Losanna nell’aprile 2016. Fu già in quell’occasione che – anche
attraverso la sensibilità del presidente Bach – sul tappeto fu posta la questione
dell’aggiornamento del motto olimpico tenendo conto di alcuni fenomeni di
prevaricazione o di tifo esasperato e della necessità di recuperare lo spirito
autentico della “competizione”, che nella sua stessa etimologia latina suppone
un petere cioè un “gareggiare” cum “insieme”.
Le molteplici visite di
Bach in Vaticano, l’impegno della stessa istituzione olimpica, i vari convegni
e gli incontri con le altre religioni attorno ai temi
dell’inspiration-inclusion-involvement, e la stessa presenza della Santa Sede
con un suo osservatore ai vari Giochi e Sessioni olimpiche condussero all’idea
di trasformare la triade in una tetralogia: Citius-Altius-Fortius-Communiter,
che poteva essere resa in inglese come Faster-Higher-Stronger-Together
(inizialmente il CIO aveva proposto una sgrammaticatura latina, Communis). In
tal modo, a distanza di quasi cent’anni si completava il progetto di p. Didon
con una dimensione, tra l’altro, cara a papa Francesco, quella della
fratellanza sportiva.
Dopo tutto, un suo
predecessore, Pio XI, era stato alpinista quasi “professionale”, tant’è vero
che alcune vette e sentieri d’ascesa recano ancora oggi il suo cognome
originario, Ratti. Per non parlare di Giovanni Paolo II, definito «l’atleta di
Dio», fotografato mentre sciava, faceva canoa e nuoto e si rivolgeva spesso
agli sportivi di ogni disciplina, mentre papa Francesco era ed è tifoso della
squadra di calcio S. Lorenzo di Buenos Aires, della quale è tesserato (n.
88235N-O). D’altronde, il simbolo del gioco è una delle categorie analogiche
usate anche in teologia, e lo scrittore francese André Maurois osservava che
«il vero spirito sportivo partecipa sempre dello spirito religioso» spesso
usandone simboli e riti.
Cortile
dei Gentili
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