sabato 20 luglio 2024

LA SFIDA DEI POPULISMI


-         di Giuseppe Savagnone*

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Il tentativo di Giorgia Meloni di sdoganare il populismo di destra

Negli stessi giorni, sulle due sponde dell’Atlantico, si sono svolte due vicende che hanno comportato la sfida del populismo alle tradizionali istituzioni democratiche. La prima è stata quella, successiva alle elezioni europee, che ha visto il fallito tentativo del gruppo dei Conservatori, guidati da Giorgia Meloni, di entrare a far parte – almeno indirettamente – della maggioranza della Commissione UE.

La seconda ha avuto come sue tappe fondamentali l’attentato a Donald Trump, la sua scelta, come vice-presidente, di J. D. Vance e la convention repubblicana di Milwaukee. Vale forse la pena di soffermarsi su queste due storie per cogliere il significato di ciò che esse significano per il nostro presente e il nostro futuro.

Partiamo dall’Europa. Le ultime elezioni per il parlamento europeo erano state precedute da sondaggi e previsioni che davano per certa una forte crescita dei consensi per i partiti populisti di destra, anche se non era sicuro che essa avrebbe scalzato la maggioranza costituita dall’alleanza tra Popolari, Socialisti e Liberali.

Nel dubbio, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, si era molto avvicinata alla leader del Conservatori, la premier italiana Giorgia Meloni, da cui si aspettava un sostegno per un’eventuale rielezione, nell’eventualità di un crollo dei partiti che l’avevano sostenuta fino a quel momento.

Il crollo, in realtà, non c’è stato, anche se effettivamente l’estrema destra, costituitasi nel gruppo dei “Patrioti”, ha goduto dell’affermazione elettorale del Ressemblement National di Marine Le Pen (controbilanciato, però, dal drastico ridimensionamento della Lega) e i Conservatori hanno aumentato i loro consensi grazie all’affermazione di Fratelli d’Italia.

Così, i partiti della vecchia coalizione hanno conservato la maggioranza e hanno potuto rinnovare per altri cinque anni il loro accordo di governo, malgrado le ire di chi, come Salvini, schierato con i “Patrioti”, li ha accusati di misconoscere i risultati elettorali, parlando addirittura di «colpo di Stato».

Ma la vera sconfitta, in questa vicenda, è stata Giorgia Meloni, non solo perché sulla crescita del prestigio dell’Italia in Europa aveva investito molto della sua immagine in politica estera, ma soprattutto perché contava su questo rinnovo del Parlamento e della Commissione UE per rompere finalmente, a livello europeo, il “cordone sanitario” che confinava la destra  populista all’opposizione. E il suo rapporto privilegiato con la von der Leyen, sottolineato dai ripetuti viaggi diplomatici fatti insieme, aveva illuso sulla riuscita del suo progetto.

Di fatto, invece – una volta rassicurata sulla possibilità di essere rieletta dai partiti che l’avevano sostenuta in passato – , la presidente uscente ha lasciato che l’“amica” venisse lasciata fuori dalle decisioni sul futuro assetto dell’Unione.

Umiliata e furiosa per questa inattesa emarginazione, ma non ancora rassegnata, la Meloni ha cercato di far leva, per avere un peso politico, sulla esigenza della von der Leyen di garantirsi dei voti anche al di fuori della propria coalizione, per neutralizzare i probabili franchi tiratori. Ma la presidente in pectore ha preferito appoggiarsi ai Verdi, rendendo ininfluente il ruolo dei Conservatori, che alla fine hanno votato contro.  

La Meloni si è trovata così ancora una volta emarginata e il suo tentativo di assumere una pozione moderata – che la rendesse in qualche mediatrice e arbitra tra i partiti democratici e i  “Patrioti” – l’ha portata alla fine ad essere tra due fuochi: da un lato questi ultimi (rafforzati dalla confluenza di “Vox”, che ha abbandonato i Conservatori), che l’accusano di avere tradito le posizioni radicali del sovranismo; dall’altro la maggioranza di centro-sinistra, che non vuole avere a che fare con lei perché troppo di destra.

Isolamento – sia detto di passaggio – che, inevitabilmente, ricade sull’Italia, anche se l’UE non può certo prescindere dal nostro paese, che è tra i suoi fondatori, per cui – come da sempre si prevedeva – la Commissione affiderà comunque ad esso degli incarichi significativi. Solo che lo farà non per, ma malgrado, la politica del nostro governo.

Esito paradossale, per una destra populista che si è affermata al grido di «prima gli italiani!» e che aveva accusato aspramente e ripetutamente il governo Draghi (in realtà sempre molto considerato a livello europeo e a cui si deve, tra l’altro, lo stanziamento di 191,5 miliardi, il maggiore dato dall’UE ai suoi membri) di non sapersi fare valere a Bruxelles. Ora la svolta c’è, ma in senso opposto a quello auspicato.

E per di più non può non pesare sulla compattezza del governo italiano l’esplicitarsi e accentuarsi, in questo rinnovo dei vertici europei, della conflittualità tra Fratelli d’Italia e Lega, entrambi peraltro divisi da Forza Italia, che fa parte dei Popolari.

Sia a livello europeo che a quello italiano, questa situazione problematica dei partiti populisti non può far dimenticare la fragilità di quelli che difendono, contro di essi, le tradizionali logiche della democrazia rappresentativa – Popolari, Socialisti, Liberali – e la cui perdita, anche se limitata, di consensi è il sintomo di un progressivo esaurimento.

Non si tratta di difficoltà strettamente politiche, ma innanzi tutto culturali. È l’anima dell’Europa che essi, nei cinque anni trascorsi, si sono dimostrati incapaci di recuperare. Né l’inserimento dei Verdi sembra sufficiente a colmare questo vuoto. La logica dei diritti individuali – sempre più declinata, per di più, in chiave difensiva nei confronti dei migranti – ha finito per prevalere sul senso della solidarietà e della responsabilità verso il bene comune. Per non dire che il tenace nazionalismo dei singoli Stati ha reso difficile perfino individuare questo possibile fine condiviso e operare concordemente per raggiungerlo.

La debolezza della presidenza di Biden

Abbastanza diverso il quadro del populismo che, negli Stati Uniti, ha trovato il suo lancio definitivo, dopo l’attentato a Trump, nella convenzione repubblicana di Milwaukee. Sullo sfondo, il progressivo declino della candidatura dell’attuale presidente Biden, lo sbandamento dei democratici e la crescita esponenziale delle possibilità di Trump di vincere le ormai vicine elezioni di novembre.

In realtà anche in questo caso, come in Europa, il populismo si è alimentato con la debolezza della democrazia. La presidenza Biden è apparsa piena di contraddizioni, più protesa a cercare di non perdere consensi che ad assumere posizioni nette e dando spesso un’impressione di debolezza.

Emblematica la difficoltà di gestire in modo chiaro e autorevole la crisi di Gaza. Da mesi Biden va ripetendo che l’unica soluzione possibile è quella prevista dalla risoluzione dell’ONU del 29 novembre 1947, e cioè la creazione di uno Stato palestinese accanto a quello ebraico.

Una posizione che il premier israeliano Netanyahu e, recentissimamente, anche la Knesset, hanno espressamente rifiutato. Un evidente contrasto, che avrebbe richiesto da parte degli Stati Uniti una ferma presa di posizione.

Invece quando, il 18 aprile scorso, è stata messa a votazione un bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU che raccomandava l’adesione della Palestina alle Nazioni Unite, il rappresentane americano è stato l’unico a votare contro, bloccando la risoluzione con il veto.

Non è l’unico caso in cui le buone intenzioni dichiarate da Biden sono state smentite dalle sue scelte concrete. La sua tardiva condanna dei metodi di guerra di Israele – l’embargo sul cibo, l’acqua e la luce, le deportazioni in massa, le sistematiche distruzioni e i massacri di civili nella Striscia -, a lungo da lui giustificate come espressione del «diritto di Israele di difendersi», non si mai tradotto in un preciso ultimatum per ottenere il cessate il fuoco immediato.

Si potrà dire che Israele è uno Stato sovrano e non può essere costretto a cambiare la sua politica. Ma anche gli Stati Uniti lo sono! Perché in questi mesi gli hanno continuato ad assicurare una costante fornitura di armi (comprese 7.800 bombe ad altissimo potenziale, che il Pentagono sconsiglia da sempre di usare in aree popolate per il loro effetto letale sui civili), permettendo così all’esercito israeliano di perpetrare i massacri che a parole venivano deprecati?

È solo un esempio. E, se diventerà presidente, Trump farà quasi sicuramente scelte molto peggiori. Ma saranno delle scelte. E gli Stati Uniti non appariranno, davanti all’opinione pubblica mondiale, succubi degli umori e dell’arroganza di uno Stato di dieci milioni di abitanti.

Dal “Berlusconi americano” alla ben più seducente figura di Vance

Il tratto che accomuna il populismo americano a quello europeo e italiano è il sovranismo, con la priorità assoluta data agli interessi nazionali – «America First» – e la chiusura delle frontiere ai migranti.

Ma c’è, al di là dei punti programmatici, lo stile di Donald Trump, che ricorda molto quello del fondatore del populismo italiano, Silvio Berlusconi, meritandogli la definizione di «Berlusconi americano».

E, in effetti, ad accomunare strettamente le due figure sono il ruolo del danaro nel loro lancio politico, una vita sessuale frenetica esibita senza remore, il grande carisma comunicativo, la tendenza a piegare le leggi e lo Stato ai propri interessi, l’ostilità nei confronti dei giudici, la sistematica e quasi spontanea manipolazione della verità.

Eppure, forse più pericoloso di Trump, per le istituzioni democratiche americane, sta cominciando ad apparire il giovane vicepresidente (39 anni), James David Vance, che ha galvanizzato la convention. A differenza di Trump, Vance non è l’erede di una dinastia di milionari e neppure è, come Salvini o Meloni, un militante cresciuto negli ambienti di partito.

Egli è cresciuto in una famiglia dove ha sperimentato miseria e violenze. Il padre fuggito, la madre alcolista e di facili costumi. Affidato, con la sorella, ai nonni materni, James e Bonnie Vance (il nonno era operaio in una acciaieria), ha cambiato in loro onore il suo originario cognome, che era Bowman.

Vance è stato in Iraq come marine, si è laureato in filosofia a Yale, si è fatto da sé nel mondo degli affari. Ha conosciuto la notorietà pubblicando, nel 2016, un best seller, Hillbilly Elegy (letteralmente: “Elegia del buzzurro”), in cui raccontava la sua storia, ma anche le difficoltà economiche delle famiglie bianche a basso reddito negli Stati più poveri d’America.

Molto più appropriatamente di Giorgia Meloni, rivendica perciò la sua provenienza dal popolo e ad esso si è rivolto, nel suo discorso, evidenziando una carica sociale che al populismo europeo è sconosciuta: «Alla gente di Middletown, Ohio, e a tutte le comunità dimenticate del Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, Ohio e di ogni angolo della nostra nazione… non dimenticherò mai da dove vengo».

Non basterà lo stanco appello ai diritti individuali, su cui i democratici americani spesso si sono appiattiti – come quelli europei – , a fermare uno così. Le nostre democrazie, in America come in Europa, devono inventarsi un “supplemento d’anima”, se vogliono vincere non una battaglia, ma la guerra contro il populismo. Altrimenti saranno soppiantate dai Vance o, ancora più tristemente, dai Trump.

*Scrittore ed Editorialista- Pastorale della Cultura – Arcidiocesi Palermo

www.tuttavia.eu

 

 

 


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