Le Olimpiadi, Israele, la Russia: civiltà contro la barbarie?
- di Giuseppe Savagnone*
Netanyahu
negli Stati Uniti
C’è
un collegamento, anche se non immediatamente evidente, tra la visita del
premier israeliano Benjamin Netanyahue la grandiosa apertura il 26 luglio, a
Parigi, delle Olimpiadi 2024.
Per
comprenderlo, bisogna fare attenzione al concetto cruciale del discorso rivolto
da Netanyahu, il 24 luglio, al Congresso degli Stati Uniti che, a Camere
riunite, lo ascoltava, con frequenti applausi e standing ovation: «Quello che
sta accadendo», ha detto, riferendosi alla guerra, «non è uno scontro di
civiltà, ma tra barbarie e civiltà, tra coloro che glorificano la morte e
coloro che glorificano la vita».
Civiltà
(Israele) contro barbarie (Hamas). Dei palestinesi nessuna menzione. È del
resto lo schema a cui si sono attenuti i governi e gli opinionisti occidentali,
a cominciare da quelli italiani, anche se con un crescente imbarazzo.
Appena
qualche giorno fa la premer Meloni, pur ribadendo «la forte preoccupazione per
la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza», «ha ribadito la vicinanza del
Governo italiano ad Israele e la ferma condanna del terrorismo di Hamas».
Nessuna
condanna, invece, anzi neppure una generica menzione, delle violenze
dell’esercito israeliano nei confronti della popolazione di Gaza. Nel suo
discorso al Congresso americano del resto il premier israeliano le
aveva già ha liquidate come semplici invenzioni.
Peccato
che invece tutte le fonti internazionali indipendenti confermino la diretta
responsabilità di Israele nel determinare la crisi umanitaria, impedendo
l’accesso di generi alimentari, acqua e medicine, così come quelle sulla strage
di civili – 40.000 su due milioni e mezzo di abitanti (in Ucraina, dopo più di
due anni, sono 10.000 su 40 milioni!), in maggioranza donne e bambini, senza
contare i feriti e i mutilati -, causata dai bombardamenti indiscriminati di
case, scuole, ospedali, moschee, da parte dell’aviazione di Tel Aviv, giorno e
notte. Strage largamente prevedibile e inevitabile, perché queste bombe sono
stante lanciate su un’area popolata da due milioni e mezzo di persone e grande
poco più della metà della città di Madrid.
Vi
ha fatto cenno la vicepresidente e candidata democratica alla presidenza Kamala
Harris che, nell’incontro personale con il premier israeliano il giorno dopo,
ribadendo l’impegno «incrollabile» degli Stati Uniti nei confronti di Israele e
della sua sicurezza, ha sottolineato che Israele ha «il diritto di difendersi,
ma come si difende è importante», facendo presente che «quanto accaduto a Gaza
negli ultimi nove mesi è devastante» e concludendo: «Non possiamo girarci di
fronte a queste tragedie. Non possiamo permetterci di diventare insensibili
alla sofferenza. Io non starò in silenzio».
La
reazione di Tel Aviv è stata espressa da un funzionario israeliano, citato dai
media, secondo cui «le dichiarazioni della vice presidente Kamala Harris sulla
“grave crisi umanitaria” a Gaza e la necessità di “porre fine alla guerra”
danneggiano le trattative per il rilascio degli ostaggi e sono “da respingere
entrambe”».
«Il
danno ai civili palestinesi è davvero il problema in questo momento?» ha
osservato il funzionario di Tel Aviv. Poi, sempre citato dai media, ha
aggiunto: «Cosa dovrebbe pensare Hamas quando sente questo?».
Sulla
stessa linea il commento del ministro delle Finanze israeliano Bezalel
Smotrich, esponente dell’estrema destra, su X: «Kamala Harris ha rivelato
al mondo intero quello che ho detto per settimane, cosa c’è veramente dietro
l’accordo, arrendersi a Sinwar, porre fine alla guerra in un modo che
permetterebbe ad Hamas di riabilitarsi e abbandonare la maggior parte degli
ostaggi prigionieri. Non cadete in questa trappola».
«Non
ci sarà nessuna tregua, signora candidata», ha scritto, sempre su X, il
ministro israeliano Itamar Ben-Gvir, anche lui di estrema destra, rispondendo
alle parole della vicepresidente americana.
Le
prese di posizione di due tribunali internazionali
La
tesi del governo israeliano, però, non è condivisa non solo dal suo maggiore
alleato, gli Stati Uniti, ma anche dai due massimi organismi giuridizionali a
livello mondiale. Già il 26 gennaio scorso la Corte Internazionale di Giustizia
(CIG) aveva riconosciuto l’esistenza di un reale e imminente rischio di
genocidio nei confronti dei palestinesi, attirandosi l’accusa del ministro
Ben-Gvir di essere un «tribunale antisemita».
E
lo scorso 20 maggio Karim Khan, il procuratore capo della Corte Penale
Internazionale (ICC) – il principale tribunale internazionale per crimini di
guerra e contro l’umanità (da non confondere con la Corte Internazionale di
Giustizia, che è un organismo dell’ONU e si occupa di dirimere le controversie
tra gli Stati membri) – , ha chiesto alla Corte di emettere un
mandato di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, per il
ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, oltre che per il leader di Hamas
nella Striscia di Gaza, Sinwar, per il capo politico di Hamas, Haniyeh, e
per il capo delle brigate al Qassam, l’ala armata di Hamas nella Striscia Deif.
Le
accuse contro Netanyahu e Gallant includono «l’aver provocato lo sterminio,
l’aver usato la fame come metodo di guerra, compreso il rifiuto delle forniture
di aiuti umanitari e l’aver deliberatamente preso di mira i civili durante un
conflitto»
Ora
un collegio di giudici dell’ICC dovrà decidere se approvare la sua richiesta o
meno. Ma è significativo che la Gran Bretagna abbia comunicato in questi
giorni di voler ritirare le obiezioni che aveva presentato alla Corte contro la
richiesta dei mandati di arresto nei confronti dei due esponenti del governo
israeliano.
A
completare questo quadro è la notizia che il 19 luglio la Corte Internazionale
di Giustizia, chiudendo un procedimento che non diretto rapporto con la guerra
di Gaza né con Hamas – perché riguarda la Cisgiordania, il cui governo dipende
dall’autorità Nazionale Palestinese (in conflitto con Hamas) – ha deliberato
che le colonie israeliane nei Territori palestinesi e l’utilizzo delle risorse
naturali che Israele fa in quelle zone vìolano il diritto internazionale.
Secondo
i 15 giudici della Corte, «il trasferimento di coloni in Cisgiordania e a
Gerusalemme da parte di Israele, e il mantenimento della loro presenza da parte
di Israele, sono contrari all’articolo 49 della Quarta
Convenzione di Ginevra», che insieme alle altre tre convenzioni forma
la base del diritto
internazionale umanitario.
La
risposta di Netanyahu è stata molto significativa, perché non ha negato i
fatti, ma ne ha dato una lettura che li giustifica: «Il popolo ebraico non è
occupante nella propria terra, né nella nostra capitale eterna Gerusalemme, né
nella terra dei nostri antenati in Giudea e Samaria». Ha poi aggiunto
che «nessuna falsa decisione all’Aia distorcerà questa verità storica,
così come non può essere contestata la legalità dell’insediamento israeliano in
tutti i territori della nostra patria». Insomma, la Palestina è nostra.
In
coerenza, del resto, con la risoluzione approvata dalla Knesset –
il parlamento israeliano – contro la nascita di
uno Stato palestinese autonomo e dunque in aperta opposizione
alla soluzione dei due Stati caldeggiata dagli Stati Uniti e dai paesi europei.
Insomma,
siamo davanti a un progetto, consapevolmente e deliberatamente perseguito,
ora espressamente dichiarato, che prevede l’integrale occupazione della
Palestina da parte di Israele, con la cacciata o la sottomissione dei
suoi precedenti abitanti palestinesi.
Una
sistematica “pulizia etnica” iniziata, secondo le incontestabili ricerche dello
storico (ebreo israeliano!) Pappè, già alle origini dello Stato ebraico, prima
sotto la guida di Ben Gurion come capo dell’Haganà, poi dai suoi successori,
fino ad oggi.
Le
Olimpiadi vetrina di civiltà
«La
civiltà contro la barbarie», ha spiegato Netanyahu. E queste Olimpiadi,
malgrado le riserve degli stessi governi occidentali, rispecchiano questo
schema. Alla grande manifestazione sportiva sono state ammessi solo
gli atleti delle nazioni “civili”, tra cui quelli israeliani. Sono stati
lasciati fuori solo i “barbari.” E non solo, come è ovvio, Hamas. Nel
traboccante calderone mediatico di notizie sulle Olimpiadi non ha quasi
trovato posto la decisione del CIO (Comitato Olimpico Internazionale) che ha
escluso dalla partecipazione la Russia.
Una
scelta tutt’altro che irrilevante, dal punto di vista sportivo, se è vero che
un noto giornale del settore la commentava così: «Una cosa è certa: Parigi
vedrà un’Olimpiade mutilata e il medagliere finale sarà viziato dall’assenza di
centinaia di atleti della Russia, una potenza sportiva di primissimo piano, che
svetta da sempre insieme a Usa e Cina. Sarà una ferita profonda» («Gazzetta
dello Sport» del 20 marzo 2024).
La
ragione dell’esclusione è la stessa che, dopo il 24 febbraio 2022, ha visto la
stessa misura applicata a tutti gli atleti russi – in una prima fase perfino a
quelli che chiedevano di gareggiare a titolo personale – da tutte le
manifestazioni sportive internazionali. La si può trovare chiaramente espressa
nelle parole con cui il presidente degli Stati Uniti esprimeva l’intenzione di
dimostrare «quanto la guerra di Putin abbia fatto della Russia un paria (…).
Noi continueremo a lavorare con le nazioni per far rispondere la Russia delle
atrocità commesse, e (…) isolare la Russia dal palcoscenico
internazionale».
Si
può discutere se lo sport debba essere il campo in cui esercitare queste
pressioni politiche. Ma se, alla fine, si decide di escludere chi viola le
leggi internazionali, come mai Israele è stato ammesso, in presenza di
pronunzie ufficiali che denunziano le gravissime illegalità e disumanità di cui
è responsabile e – forse ancora di più – di fronte alla sua dichiarata
intenzione di perseverare in esse, infischiandosene dei giudizi di organismi e
tribunali internazionali?
L’abusata
formula secondo cui non si possono mettere sullo stesso piano aggressore e
aggredito – a ogni pie’ sospinto ripetuta dal governo di Tel Aviv e purtroppo
anche da molti responsabili delle comunità ebraiche in tutto il mondo –
assolutizza il problema dell’inizio di una guerra, nascondendo quello del modo
di combatterla, anch’esso soggetto alle leggi internazionali e su cui si
appuntano il sospetto di genocidio e l’accusa di crimini di guerra nei
confronti dello Stato ebraico
Di
più: alla luce dell’ultima sentenza della Corte Internazionale di Giustizia
(CIG), nella guerra in Medio Oriente il vero aggressore, all’inizio di tutto, è
stato Israele, procedendo all’invasione illegale dei territori palestinesi.
L’evento del 7 ottobre, che resta atroce e assolutamente ingiustificato, non
può essere assunto come il principio di tutto (lo già aveva detto, all’indomani
della tragedia, il segretario generale dell’ONU, Guterres, pur deprecando la
strage compiuta da Hamas), ma si inserisce in una storia – documentata
accuratamente da Pappè – in cui gli aggrediti sono stati i palestinesi.
«La
civiltà contro la barbarie», ha proclamato Netanyahu al Congresso americano. Le
Olimpiadi traducono fedelmente questa formula, legittimando la collocazione di
Israele nel primo polo. E tutti – almeno i governi e la stampa – faranno finta
di nulla. Ma non si potrà cancellare la domanda: è davvero questa la civiltà?
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