L’intelligenza
umana si è scoperta evolutivamente contigua a quella vegetale e animale ed è
essa stessa plurivoca. La sfida odierna è pensare che l’intelligenza
artificiale, il più impressionante prodotto di quella naturale, debba ormai
servire da modello per interpretare anche la mente degli umani e dei viventi in
generale
- - di COSTANTINO ESPOSITO
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Mai
come oggi, essere “intelligenti” è davvero un problema. Credevamo di sapere,
per esperienza diretta, che cosa significasse, ma ormai l’intelligenza deborda
progressivamente in avanti rispetto a noi, con i prodotti smart generati
da un algoritmo intelligente. Non solo: essa deborda anche all’indietro
rispetto a noi, esseri coscienti, indotti come siamo a riconoscere una
particolare intelligenza anche al polpo o al lichene, e in generale al sistema
incredibilmente complesso e meravigliosamente architettato della vita fisica e
biologica. Con la conseguenza che proprio il fattore che ci aveva reso per
secoli il centro dell’universo, ora sembra decentrarci ogni giorno di più: una
sinapsi particolare, un passaggio transeunte nella grande rete intelligente del
mondo. Un capovolgimento che per portata e conseguenze si può forse paragonare
alla rivoluzione copernicana in astronomia, quando si scoprì che le leggi del
mondo celeste erano le stesse del mondo terrestre. Su questa situazione si
parla di continuo e dappertutto, avendo come estremi da un lato coloro che
lamentano la perdita del carattere specificamente umanistico e teleologico
dell’intelligenza, dall’altro coloro che sono impegnati a ripensare la stessa
intelligenza umana come una pura procedura di calcolo. Ma sono due posizioni
astratte, che mancano entrambe l’obiettivo di capire cosa sta succedendo oggi
agli esseri dotati di intelligenza e di accettare la sfida per poterci
riappropriare del suo significato e delle sue funzioni. Per questo oggi è
arrivato (o è tornato) il tempo di chiedersi: che significa essere
intelligenti? Più oggettivamente: che cos’è e come agisce un essere dotato di
intelligenza? Non possiamo infatti limitarci ad attribuire la funzione
intelligente ad un essere, senza cercare di capire in che modo l’intelligenza
costituisca o possa costituire la natura o l’azione propria di
quell’essere.
Come
dicevamo, questa qualifica è stata riconosciuta nella nostra lunga storia
naturale e culturale, come la caratteristica di tutta una serie di esseri, non
solo coscienti ma anche semplicemente viventi, e oggi anche di dispositivi
puramente artificiali come le macchine. Dalle intelligenze angeliche che
muovono i cieli alle anime razionali incarnate nei corpi sensibili; dalle anime
vegetative che muovono internamente il ciclo della crescita degli enti di
natura, come le piante e gli animali, fino a quello spirito (chiamiamolo ancora
così) artificiale che è il codice algoritmico, quello che fa girare la rete
virtuale del mondo. Di fronte a questa varietà potremmo accontentarci
semplicemente di distinguere natura, funzioni e ruoli delle diverse
intelligenze. Ma questo finirebbe per raddoppiare il problema, piuttosto che
risolverlo. Infatti, “chi” è che dal di fuori o al di sopra di un territorio
così diversificato può tentare uno sguardo d’insieme? Chi può distinguere e
separare i diversi esseri intelligenti, e chi può connetterli tra loro? Quando
si parla dell’intelligenza non è come parlare solo di un tema
o di un “oggetto” da definire. Possiamo e dobbiamo farlo, certo. Ma resta il
fatto non scontato che, parlando dell’intelligenza, noi stessi, i parlanti, al
tempo stesso stiamo usando l’intelligenza. Come succede per ogni aspetto della
vita degli “io” che noi siamo, il discorso può essere sempre alla terza persona
ma inevitabilmente deve esserlo anche alla prima persona.
L’esperienza
Per
questo è difficile parlare dell’intelligenza in generale senza tener conto
dell’esperienza che noi stessi facciamo nell’essere intelligenti, e viceversa è
difficile parlare dell’intelligenza umana senza confrontarla, incrociarla e
verificarla con le intelligenze diverse dalla nostra. E questo non certo per
ridurle tutte a quest’ultima (sarebbe una presunzione irrealistica), ma per il
fatto che l’intelligenza si può e si deve comprendere insieme dall’esterno e
dall’interno.
Come
legare però questi due aspetti, quello dell’esperienza di un sé individuale e
quello della descrizione di una funzione generale? Per diverso tempo si è
creduto di poterlo fare grazie alla misurazione dell’intelligenza attraverso
dei test. Dalla psicologia alla computer science, l’intelligenza
coinciderebbe con una prestazione di cui è possibile esibire un
“quoziente”. Pensiamo ad esempio alle seguenti misurazioni dell’intelligenza,
adattabili sia agli umani che alle macchine: x è più o meno rapido nel
calcolare; x ha una memoria di maggiore o minore estensione; x è
sufficientemente o insufficientemente abile nel trovare soluzioni adeguate; x
apprende con grande o con scarsa facilità, anche dai suoi errori ecc.
Questo
modo di affrontare il problema lascia inevasa però la questione se
l’intelligenza sia qualcosa di adeguatamente misurabile o se in essa siano
presenti fattori che, per la loro stessa costituzione, non ricadono in una
misura. O più radicalmente se non siano l’indice di un fenomeno non misurabile
o incommensurabile, proprio come il rapporto pitagorico tra il lato e la
diagonale del quadrato. Sta di fatto che da quando Alfred Binet, tra
il XIX e il XX secolo, ha testato il Quoziente di Intelligenza ne è
passata di acqua sotto i ponti, ed è cresciuta l’insofferenza verso questa idea
di misurazione, arrivando ad una proliferazione di tipi diversi di
intelligenza, non misurabili secondo un canone unico. Ad esempio, i sette
famosi tipi di intelligenza di cui parla Howard Gardner (1983): intelligenza
linguistica, musicale, logico matematica, spaziale, corporeo-cinestetica,
intra-personale e interpersonale. Oppure la distinzione proposta negli
stessi anni da Robert Sternberg, tra un’intelligenza analitica, una pratica e
una creativa. O la proposta di un’“intelligenza emotiva” avanzata negli anni
Novanta da Daniel Goleman.
Dunque,
l’intelligenza umana, oltre a scoprirsi evolutivamente contigua a quella
vegetale e animale, diventa essa stessa plurivoca. Per questo gli studiosi
hanno sempre cercato anche un filo conduttore che possa assicurare un minimo di
continuità nelle differenze. Prendiamo a prestito la definizione canonica di
Gardner: «un’intelligenza è la capacità di risolvere problemi, o di creare
prodotti, che sono apprezzati all’interno di uno o più contesti culturali».
Successivamente (2007) Shane Legg e Marcus Hutter stabiliscono come significato
universale di intelligenza, quello di un’abilità nel raggiungere determinati
obiettivi in ambienti diversi, sulla base della capacità di apprendimento e di
adattamento. In altri termini, ancora la capacità di problem solving. Una
definizione, questa, che ambisce a essere universale perché lega esplicitamente
in continuità l’àmbito psicologico e l’àmbito informatico. Fino a
invertire la rotta: pensiamo a Stuart Russell e Peter Norwig che nel 2020
partono da un significato “artificiale” di intelligenza come paradigma per
definire qualsiasi tipo di intelligenza. In sintesi,
l’intelligenza sarebbe formalizzabile come la capacità di “fare la cosa giusta”
nel proprio ambiente. Essa è la rational agency degli “esseri
intelligenti”, e può essere sintetizzata così: sentire, capire, valutare,
agire, conseguendo un buon risultato, anzi un buon punteggio, nella performance
finale. Ecco la sfida odierna: pensare che l’intelligenza artificiale, il
più impressionante prodotto performante dell’intelligenza naturale, debba
ormai servire da modello per interpretare, a ritroso, anche l’intelligenza
degli umani e dei viventi in generale (secondo il modello della macchina di
Turing). Non solo la vita ma anche la coscienza sarebbe così codificabile in
senso algoritmico.
Ma
questa lettura retroattiva permette di rendere conto, calcolandole, di tutte le
capacità dell’intelligenza naturale? Se l’intelligenza è apertura al mondo,
alla natura e agli altri esseri, fin dove può arrivare – intus legere,
inter legere – la sua freccia?
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