“Potenza
e banalità
della menzogna”
-di
Luciano Manicardi
Mentire:
un fenomeno universale
Per quanto sia normalmente esecrato
e stigmatizzato, il mentire è un fenomeno trasversale a ogni tempo e a ogni
cultura. Mentiamo a tutti, alle persone più care e agli estranei, e anche a noi
stessi. Dunque, il mentire e anche la costellazione ad esso connessa
dell’ingannare, dell’imbrogliare, del dissimulare, del fingere, è fenomeno
universalmente umano. Possiamo dire che “a differenza del rubare, commettere
abusi sessuali o uccidere, quello di mentire è un crimine morale che
commettiamo tutti e regolarmente”[i]. Un libro che analizza da un punto di
vista cognitivo-sociale il problema della menzogna riporta questo dato: “In una
inchiesta fatta in un liceo di ragazze, alla prima domanda: ‘lei mente?’ il 50%
ha risposto spesso, il 20% molto spesso, il 20% qualche volta, il 10% mai. Alla
seconda domanda: ‘Bisogna condannare la menzogna?’ il 95% ha risposto Sì“[ii].
Una
questione oscura
Se il fenomeno è diffuso e
universale, il suo studio e la sua analisi sono tutt’altro che semplici. Anzi,
affrontare la questione della menzogna è impresa ardua. Lo sapeva Agostino,
quando, nel suo trattato De mendacio (395 d.C.), affermava che si tratta di una
“questione straordinariamente oscura” (latebrosa nimis), questione che “spesso
elude tramite nascondigli cavernosi l’intento di chi indaga, come se sfuggisse
dalle mani ciò che si era trovato, che ora riappare e ora sparisce di
nuovo”[iii]. E lo sa chi ancora oggi esamina questo argomento da un determinato
punto di vista (filosofico, psicologico, pedagogico, giuridico, linguistico,
politico…), nella coscienza che solo un approccio interdisciplinare può darne
una visione sufficientemente completa, o almeno non troppo lacunosa[iv]. A
questi problemi si affiancano poi quelli di etica, qualora si affronti la
menzogna come “figura del male”[v]. Occorre allora distinguere la menzogna
dalla bugia innocente, dalla finzione che struttura una persona,
dall’imitazione e identificazione con altro da sé, dalla sperimentazione
linguistica che consente creatività, protesta e trasgressione, come ha scritto
George Steiner: “Il linguaggio è il principale strumento del rifiuto dell’uomo
di accettare il mondo per come è”[vi]. Ora, se non può essere considerata
menzogna una cosa non vera detta per ignoranza o per errore o per convinzione
che sia vera mentre non lo è, si deve cercare nella volontà, nella
intenzionalità di ingannare, il nucleo decisivo che rende menzognera
un’affermazione. Per Agostino, alla base della menzogna c’è la voluntas
fallendi, la volontà deliberata di ingannare l’altro. Mentre non è affatto
detto che della menzogna faccia necessariamente parte la voluntas nocendi, cioè
l’intenzione di nuocere all’altro e di danneggiarlo. Ci sono menzogne che sono
un’autodifesa, una protezione di sé, ma che non intendono minimamente fare del
male agli altri. Jean Jacques Rousseau afferma: “Asserire il falso è mentire
soltanto se esiste l’intenzione d’ingannare; e perfino l’intenzione
d’ingannare, lungi dall’essere sempre unita con quella di nuocere, qualche
volta ha un fine addirittura contrario”[vii].
Potere
e piacere del mentire
La potenza della menzogna è
evidente e andrebbe semplicemente riconosciuta. Spesso invece noi ci
aggrappiamo alla menzogna della “forza della verità” e ci rifiutiamo di
ammettere la verità della “forza della menzogna”. La forza della menzogna
risiede nel suo potere di ricreare la realtà, di plasmarla a piacimento, di
manipolare altre persone inducendole a credere e a fare ciò che noi vogliamo in
base alle nostre menzogne. L’uomo sente il proprio potere molto più mentendo
che dicendo la verità, che attenendosi alla faticosa e opaca adesione e
corrispondenza tra le parole e i fatti. La definizione di verità di stampo
tomista parla di adaequatio rei et intellectus, “corrispondenza tra realtà e
intelletto”, ovvero di corrispondenza tra la “cosa”, la realtà, e la sua
rappresentazione linguistica e concettuale. La menzogna spezza intenzionalmente
questa corrispondenza al fine di ingannare altri. Vi è qualcosa di
perversamente divino nella menzogna, cioè nella manipolazione e distorsione
della realtà che scimmiotta l’azione creatrice del Dio che parlò e ciò che
disse “fu”, venne all’esistenza[viii]. Il menzognero fa esistere ciò che lui
dice o, meglio, induce altri a credere vero ciò che lui dice e che dice
sapendolo falso. È una forma di seduzione che esprime la dimensione anche
erotica del mentire. Inducendo l’altro a credere le mie menzogne, penetro in
lui e lo possiedo, lo determino, ma l’unica soddisfazione è del mio ego.
Dunque, una dimensione della menzogna è il piacere che essa dona a chi “mente
sapendo di mentire” per ottenere i risultati che si è prefisso. Faccio notare
che l’espressione “mentire sapendo di mentire” è ridondante e tautologica
perché mentire implica già l’intenzione di ingannare e dunque implica sapere
che ciò che si dice è falso. Sapere, piacere, potere si trovano perversamente
intrecciati nell’atto menzognero.
Menzogna
e politica
Parlando di potere della menzogna
non possiamo dimenticare che sul piano politico la menzogna si presenta come
straordinario strumento di potere, come un’arma. Sono tante le forme del
mentire politico: occultamento della verità, distorsione del significato degli
eventi, presentazione come veri di fatti non veri. Ormai tutti sappiamo che
erano false le notizie che affermavano che l’Iraq era in possesso di armi di
distruzione di massa[ix]. Ma quelle menzogne hanno avuto il potere di scatenare
una guerra grazie alla diffusione che i media hanno dato loro. Infatti, il
successo di una menzogna dipende dalla sua accettazione sociale. Per questo il
politico ha bisogno di controllare i mezzi di informazione. Un articolo del New
York Times del 30 maggio 2004, in cui l’articolista definiva “fallimento
istituzionale e non individuale” l’informazione data a suo tempo dal suo
giornale sulle armi possedute dall’Iraq, portava come titolo: “Armi di
distruzione di massa o di distrazione di massa?” (Weapons of Mass Destruction? Or Mass
Destraction?)[x].
Etica della parola
Dietro
alla mia scelta di parlare della potenza della menzogna, e di un certo uso e
abuso della parola, vi è la convinzione dell’urgente necessità che la nostra
società oggi ha di recuperare un’etica della parola. Di riscoprire il potere
della parola per non cadere succubi della parola del potere il quale tale
parola manipola e distorce per i propri fini. Vi è la convinzione della
necessità di riscoprire lo statuto della parola, la dimensione etica di ogni
atto di parola, in riferimento a se stessi, il locutore, all’altro, il
destinatario della parola, e, infine, alla parola stessa[xi].
Menzogna
e psicoanalisi
In psicoanalisi la menzogna detta
dal paziente all’analista è un sintomo che va anzitutto riconosciuto,
rispettato e accolto. L’analista ha a che fare quotidianamente con le bugie del
paziente ed esse sono importanti per il paziente in quanto gli servono come
barriera difensiva contro affermazioni che lo condurrebbero a una condizione di
tumulto o confusione psicologica[xii]. Quando per contenuto, funzione,
significato e frequenza, la menzogna coinvolge la personalità e l’esistenza
intera di una persona, ci si può trovare di fronte a bugiardi patologici.
Ovvero, i bugiardi che fanno della menzogna un habitus, che mentono per
manipolare, per ottenere vantaggi senza preoccuparsi delle conseguenze emotive
e relazionali che il loro comportamento può produrre negli altri. Normalmente
il bugiardo patologico è poco attento alla dimensione emotiva e psicologica
degli altri, è autocentrato e narcisista: egli ha talmente interiorizzato il
meccanismo menzognero che ci convive in maniera egosintonica e non riesce a
percepire il suo modo di fare come patologico. Più analiticamente, il bugiardo
patologico ha come elementi caratterizzanti della sua personalità questi
atteggiamenti: mente gratuitamente anche se non è necessario; è impaziente;
tende a essere manipolativo nei confronti degli altri; è seduttivo e
disinibito; è intollerante alle critiche; pretende, perché ritiene che tutto
gli sia dovuto; non prova rimorsi; è incapace di instaurare relazioni affettive
mature. Nell’ambito patologico, per esempio nel quadro dei disturbi di
personalità, certamente occorrerebbe andare più nello specifico e vedere come
le bugie svolgono funzioni differenti e assolvono compiti diversi a secondo del
quadro patologico dell’individuo al cui interno la menzogna appare come sintomo.
La tipologia di menzogne che il paziente mette in atto è normalmente riflesso
della sua sintomatologia. Si possono notare differenziazioni significative in
pazienti con disturbo narcisistico, in pazienti borderline, in pazienti
afflitti da disturbo ossessivo compulsivo[xiii]. Di certo, in analisi, la bugia
– quale che sia la sua gravità – è
materiale che chiede di essere interrogato ed elaborato all’interno di quel
lavoro psicoterapeutico che ha anche una valenza etica “perché ogni guarigione
psicoterapeutica è un’attività morale, e ogni attività morale è indirettamente
terapeutica”[xiv]. Così, si esprime lo psicoanalista Luigi Zoja, secondo il
quale la dimensione etica assume la forma di un’attenzione coltivata all’ascolto
delle urgenze oscure dell’umano per elaborarne una più acuta consapevolezza.
Infatti, il discernimento delle ombre può scoprire tesori. Sempre Zoja inizia
così un suo libro tutto teso ad affermare lo statuto etico della pratica
analitica e dunque anche del comportamento dell’analista stesso: “Il cuore
dell’analisi è etico: si propone di combattere la menzogna, prima di tutto
quella che raccontiamo a noi stessi. L’etica dell’analisi non è dunque un
espediente per dare rispettabilità alla professione. È una presenza originaria.
Non ci affaccendiamo per anni con i sogni e le fantasie inconsce di qualcuno
perché è stimolante. Siamo alla ricerca di una maggiore sincerità. […]
L’analisi è una conoscenza umanistica”[xv]. E più avanti enuclea tre principi
etici basilari per psicoanalisti e analisti: “La psicoterapia si occupa
dell’intero essere umano… non di una parte specifica del suo corpo o della sua
psiche. Anche il soggetto professionale (il terapeuta) opera con tutto il suo
essere, non usando solo le sue capacità professionali o un segmento
specialistico della sua personalità. La personalità del professionista è, come
quella di ogni altro essere umano, una individualità: qualcosa di non
divisibile”[xvi]. Il richiamo è all’integrità personale. Quindi propone
un’etica della responsabilità, nel senso di Max Weber (che la distingue
dall’etica della convinzione), ovvero attenta alle conseguenze delle proprie
parole e azioni, e non solo alle conseguenze intenzionali ma anche alle
conseguenze inconsce. Qui occorre una conoscenza e un rispetto dei limiti non
solo deontologici, ma anche personali, uscendo dal nefasto atteggiamento del
“salvatore”[xvii]. Infine egli propone di considerare il problema psichico non
solo malattia perché “dietro alla sofferenza mentale si trova quasi sempre una
spinta costruttiva o un bisogno che non riesce a trovare il suo sbocco”[xviii].
Il problema della veridicità e del mentire andrebbe dunque collocato in una più
vasta riflessione di tipo etico[xix].
L’uomo:
l’animale che mente
Se forme di inganno sono messe in
atto anche da animali, possiamo dire che l’uomo è l’animale che mente. Mentire
non è solo una perversione della nostra natura umana, ma un suo aspetto
fondamentale. “La capacità di ingannare consapevolmente e di riconoscere
l’inganno è esclusivamente umana e svolge un ruolo in tutti i nostri rapporti.
È impossibile comprendere la società umana e persino capire noi stessi senza
prima comprendere cosa significa mentire”[xx]. In genere i comportamenti
ingannevoli degli animali sono volti alla sopravvivenza, a difendere la
nidiata, il cibo, dunque dovuti all’istinto che l’animale ha sviluppato. Questi
comportamenti sono presenti soprattutto in quegli animali che vivono in gruppi
sociali: l’inganno permette loro di avvantaggiarsi rispetto a possibili
concorrenti nell’accesso a risorse alimentari o in vista della ricerca di
partner e dell’accoppiamento. Gli umani ricorrono al medesimo comportamento
ingannevole, ma in più rispetto agli animali gli umani mettono in atto certi
tipi di menzogna che sono legati a bisogni di tipo egocentrico che gli animali
non presentano. È l’intelligenza sociale, quella cioè che si è dovuta
sviluppare vivendo insieme ad altri, che ha portato l’uomo a raffinare la
propria immaginazione, la capacità di preveggenza, di comprendere cosa l’altro
abbia in animo, di immaginarne e prevenirne le mosse, elementi tutti essenziali
per attuare un comportamento menzognero. L’evoluzione dice che la menzogna
costituisce una strategia, di natura
squisitamente sociale, essenziale per la sopravvivenza. Capacità di inganno
comporta capacità di prevedere gli effetti del proprio agire sugli altri,
capacità di immaginazione del futuro, buona memoria. Negli umani, poi, questa
capacità è particolarmente sviluppata grazie a quello straordinario mezzo
simbolico che è il linguaggio. Insomma, la menzogna, intesa come falsa
affermazione fatta con l’intenzione di trarre altri in errore sembra una
competenza che gli umani hanno sviluppato in modo speciale e che li caratterizza.
Indipendentemente da ogni giudizio morale, la menzogna è opera di ingegno. Solo
l’idiota, colui che è totalmente trasparente, non può mentire.
Iniziare
a comunicare, iniziare a mentire
Il poeta e scrittore russo Josif
Brodskij, rievocando in un suo racconto[xxi] la sua infanzia a Leningrado,
ricorda la sua prima bugia. O almeno, la prima bugia di cui ha ricordo. E apre
il ricordo con questa affermazione: “La vera storia della coscienza comincia
con la prima bugia”[xxii]. Scrive: “la mia prima bugia ebbe a che fare con la
mia identità. Niente male come inizio”[xxiii]. All’età di sette anni dice di
non conoscere la sua nazionalità all’impiegata di una biblioteca pubblica in
cui doveva comporre un modulo di iscrizione. A quindici anni lascia la scuola e
si mette a lavorare in una fabbrica come fresatore. Lo fa dicendosi che la sua
famiglia aveva bisogno del suo lavoro, il che non era vero. “Era quasi una
bugia, ma così sembrava meglio, e ormai avevo imparato ad amare le bugie
proprio per questa ‘quasità’ che rende più netti i contorni della verità: dopo
tutto, la verità finisce dove cominciano le bugie. […] Qualunque cosa fosse –
una bugia, la verità o, assai probabile, un miscuglio dell’una e dell’altra –
all’origine di quella decisione, io le sono immensamente grato per avermi
indotto a quello che si può considerare il mio primo atto libero”[xxiv]. La
bugia appare qui nella sua valenza positiva di atto di libertà, di autocoscienza,
di indipendenza, di emancipazione. Qual è stata la nostra prima bugia?
Probabilmente non lo sappiamo perché gli studi di psicologia ci dicono che
iniziamo a dire bugie a quattro anni. Ma in realtà anche prima. Possiamo dire
che i bambini cominciano a dire bugie più o meno nello stesso momento in cui
imparano a parlare. Certo, i bambini piccoli tendono a essere mentitori non
molto bravi: le loro bugie sono pensate per raggiungere obiettivi semplici, di
difesa, e sono confessate con facilità. Quando mente, un bambino di tre anni lo
fa in modo istintivo e spontaneo, senza metodo. Poi, intorno ai quattro anni,
cambia qualcosa. Si inizia da allora a mentire meglio e più spesso. Cosa
succede ai bambini di quattro anni? A quell’età capiscono compiutamente che esistono
delle altre persone a cui mentire. È allora che nasce nei bambini la capacità
di lettura del pensiero altrui, quindi la cosiddetta ‘funzione esecutiva‘, cioè
un complesso di capacità mentali che rimandano alla possibilità di immaginare
il futuro e di produrre strategie e ragionamenti, e infine, il cosiddetto
intelletto creativo, cioè la capacità di immaginare versioni alternative della
realtà. “Mentire è difficile. I bambini che dicono bugie devono essere in grado
di distinguere la verità, concepire una storia alternativa falsa ma coerente e
giostrare le due versioni nella propria testa mentre spacciano la realtà
alternativa a un’altra persona, senza mai scordare ciò che l’altro potrebbe con
maggiore probabilità pensare o provare. È straordinario che un bambino di
quattro anni sia in grado di fare tutto questo”[xxv]. Lo psicologo Michael F.
Hoyt scrive: “La prima bugia riuscita del bambino infrange la tirannia
dell’onniscienza genitoriale, cioè il bambino comincia a sentire di possedere
una mente propria, un’identità privata ignota ai genitori. […] Il possesso (da
parte del bambino) di un segreto dà il senso di avere qualcosa di
esclusivamente proprio, di essere un individuo a se stante”[xxvi].
Se questo è il lato positivo, va
anche detto però che la bugia può divenire sintomo di disagi più o meno gravi.
La bugia è una difesa contro chi è più forte e fa sentire al bambino la sua
debolezza e inferiorità: “le persone deboli non possono essere sincere”[xxvii].
La menzogna diviene così un momento significativo in una pratica di resilienza.
A volte, anche in persone adulte è l’unica maniera per sopravvivere a un
rapporto schiacciante, per trovare scampo da un carattere dominante, per scavarsi
una nicchia di respiro in un rapporto asfissiante. Come sintomo di disagio, la
bugia del bambino può essere una reazione di difesa rispetto a sensazioni di
pericolo e di attacco del mondo esterno, ma può arrivare a costituire una
corazza protettiva contro la realtà e divenire un habitus da cui è difficile
liberarsi. Una bugia, poi, spesso ne richiama un’altra: per stare a galla il
bambino può arrivare ad aver bisogno di moltiplicare le bugie. “Se l’intero
senso di sé di un bambino giunge a fondarsi sulle bugie, smettere di usarle è
molto difficile … Di solito nei bambini più grandi mentire con regolarità è il
segnale di un disagio profondo, un modo per sfogare le frustrazioni, ottenere
attenzione o tenere a bada un’insicurezza profonda. I bambini di una coppia che
sta per divorziare, per esempio, ricorrono spesso a bugie manipolatorie per
esercitare un qualche livello di controllo su una situazione di fronte alla
quale si sentirebbero impotenti”[xxviii]. Paul Ekman, che ha studiato per
decenni la menzogna e ha dedicato un libro alle bugie dei ragazzi afferma che
due sono le età critiche. Quella intorno ai tre-quattro anni e l’adolescenza.
Le bugie raggiungono il culmine nella prima adolescenza, per ridursi
normalmente in seguito. Molto dipende dalla capacità dei genitori di far fronte
ai bisogni di privacy e autonomia dell’adolescente e dal fatto che riescano ad
accordargli un crescente margine di potere e responsabilità in campi nuovi
della sua vita. In particolare Ekman mette in guardia da un fattore: la frequenza
delle bugie, l’abitudine alle bugie da parte del figlio, del bambino o
dell’adolescente. “Le menzogne abituali sono un problema da prendere sul
serio”[xxix]. E prosegue: “I ragazzi che
dicono abitualmente bugie sono più disadattati degli altri e la tendenza
precoce alla menzogna è effettivamente predittiva di una maggiore probabilità
di comportamenti antisociali in età adulta”[xxx]. Sul piano pedagogico, Ekman
afferma che intorno ai tre-quattro anni è il momento buono per cominciare a
educare i bambini alla sincerità. Quello che il bambino può capire
sull’argomento a questa età è ben diverso da quello che sarà possibile
spiegargli più avanti. Prima un bambino impara che le bugie possono essere
controproducenti, meglio è. Occorre insegnare ai bambini il piacere della
sincerità, anziché instillare in loro la paura di essere smascherati. Il modo
più affidabile per crescere bambini affidabili è fidarsi di loro, agire sui
loro istinti migliori anziché tentare di estirpare quelli peggiori, insomma creare
un ambiente in cui essere sinceri e onesti appaia come la linea politica
migliore.
Ambivalenza
e ambiguità del mentire
La menzogna è fenomeno ambivalente
e ambiguo. È manipolazione della realtà, ma è anche espressione della
creatività dell’uomo, risorsa vitale e perfino salvifica. Hannah Arendt ha
potuto affermare: “La nostra capacità di mentire… appartiene a pochi chiari e
dimostrabili dati che confermano l’esistenza della libertà umana”[xxxi]. Ma è
anche vero che, se la menzogna diviene consuetudine incontrastata, si apre la
strada a una società totalitaria e a comportamenti distruttivi. In particolare,
se si diffonde una pratica menzognera e di inganno si prepara il campo ad abusi
e alla perdita della fiducia, che è il legame che tiene insieme i rapporti
interpersonali e le società: “La struttura della fiducia sociale è spesso
sottile e non appena le menzogne si diffondono… questa fiducia è danneggiata.
Tuttavia la fiducia è un bene sociale da proteggere quanto l’aria che
respiriamo o l’acqua che beviamo: se è danneggiata, la comunità nel suo insieme
ne soffre e se viene distrutta le società vacillano e crollano”[xxxii]. Forse
niente meglio di questa espressione del genitore verso il figlio esprime
l’ambivalenza della bugia: “Non si devono dire le bugie. Se dici le bugie ti si
allunga il naso come quello di Pinocchio”. Si ingiunge di non dire bugie
dicendo una bugia. Probabilmente è la migliore introduzione per il bambino alla
scoperta della doppiezza, del doppio ruolo e della doppia morale della menzogna
che attraverserà tutta la sua vita relazionale futura. L’ambivalenza del
mentire risiede nel fatto che le abilità da esso richieste – memoria,
previsione, cambiamento di prospettiva, rapidità di pensiero e di parola,
controllo delle emozioni, capacità di leggere le intenzioni e di tener conto
del punto di vista dell’altro – sono anche le competenze necessarie per
diventare adulti e maturi. Non stupisce pertanto che la menzogna abbia sempre
suscitato riprovazione ed elogio, condanna e ammirazione. Alla posizione di chi
afferma che la menzogna va evitata nel modo più assoluto, si oppone la
posizione decisamente più flessibile e sfumata, che fa maggiormente i conti con
la realtà e le sue infinite sfaccettature, di altri pensatori. Esemplare è il
dibattito che ha opposto Kant a Constant. Scrive Kant: “La maggiore infrazione
del dovere dell’uomo verso se stesso, considerato unicamente come essere morale
(riguardo all’umanità che risiede nella sua persona), è l’opposto della
sincerità, vale a dire la menzogna. […] Il disonore infatti… segue la menzogna
e accompagna anche il mentitore come la sua ombra. La menzogna può essere
esterna (mendacium externum) o anche interna. Con la prima l’uomo si rende
oggetto di disprezzo agli occhi degli altri, con la seconda, ed è ancora
peggio, agli occhi propri, e offende la dignità dell’umanità nella sua propria
persona. […] La menzogna è l’avvilimento, anzi l’annientamento della dignità
umana”[xxxiii]. E Benjamin Constant scrive nel capitolo VIII (Sui principi) del
suo saggio Sulle relazioni politiche (1797): “Il principio morale che dire la
verità sia un dovere, se fosse preso in modo assoluto e isolato, renderebbe
impossibile ogni tipo di società… Dire la verità è un dovere in rapporto a
coloro che hanno diritto alla verità. Ora, nessun uomo ha diritto a una verità
che nuoccia agli altri”[xxxiv]. Siamo sempre all’interno dell’inaggirabile
ambivalenza della menzogna. Con humour e realismo conclude Ian Leslie: “I
nostri obblighi verso gli altri finiranno prima o poi col confliggere con il
nostro desiderio di dire sempre la verità. Un teologo o un filosofo metafisico
possono proporre imperativi morali universali, noi altri desideriamo restare in
buoni rapporti con la suocera, o salvare un amico dai guai”[xxxv].
Una
storia incredibile
Affrontiamo ora un aspetto
dell’ambivalenza della menzogna, ovvero la sua intrinseca polarità potenza –
banalità. E lo facciamo esaminando un romanzo che ha proposto in chiave
letteraria un inquietante caso di cronaca. Anzi, quella che potremmo chiamare
“una storia incredibile”. La potenza della menzogna non si manifesta solo
nell’atto verbale, ma anche nei gesti, nei comportamenti, negli atti
quotidiani, in una vita[xxxvi]. E tocca abissi di oscurità che vanno ben oltre
ciò che intendeva Agostino parlandone come di questione oscura. Evoca qualcosa
di infero che è in noi, nell’uomo. Cercherò di evocare la potenza della
menzogna evocando una storia incredibile. Storia incredibile che ha per
protagonista un uomo totalmente incredibile. Assolutamente non-credibile. Ma
che per anni e anni è parso alle persone vicine (moglie, figli, amici, parenti,
conoscenti) la persona più affidabile e credibile di questo mondo. Parlerò
della potenza della menzogna rifacendomi alla storia vera di un impostore. E la
prima domanda che sorge è: come può essere vera la storia di un uomo che ha
fatto della sua intera vita un’impostura? Non solo. Ma questa storia vera la
accosterò attraverso un romanzo. E tutti sappiamo come i rapporti tra romanzo,
verità e menzogna siano quantomeno problematici[xxxvii]. Ma noi crediamo che la
menzogna romanzesca, o meglio, la finzione romanzesca, sia in grado di dire
verità profonde sull’argomento che più ci interessa: l’umano, la condizione
umana. Condizione umana che affrontiamo a partire da un caso particolare, la
vicenda di un uomo, Jean-Claude Romand. Non ci inibisce né ci frena il fatto
che si tratti di uno solo, di un caso unico, perché noi sappiamo che, come
scrive Montaigne, “ogni uomo porta la forma intera dell’umana condizione”[xxxviii].
E affronterò dunque il tema che mi sono proposto in maniera narrativa più che
argomentativa, perché la sensazione è che anche le più sofisticate
argomentazioni razionali e logiche cedano il passo di fronte a un enigma, a un
incomprensibile, a un assurdo che può perfino spaventarci. Un assurdo che, in
questo caso, sconfina nel criminale, e in un criminale tra i più atroci che
possano esistere. Un assurdo che ci atterrisce e ci affascina morbosamente. E
questo perché oscuramente percepiamo che dice qualcosa di umano, qualcosa che è
anche potenzialmente nostro. Ha scritto il poeta Wystan Hugh Auden: “Il Male
non è spettacolare ed è sempre umano, e divide il nostro letto, mangia alla
nostra mensa”[xxxix]. Evocando la vicenda di Jean-Claude Romand non parliamo di
quel che si dice “un mostro”, ma di una persona normale, quotidiana,
rispettabile, che, cominciando a mentire, ha visto la sua vita trasformata
dalla menzogna. La menzogna è divenuta una potenza che ha dominato e guidato la
sua intera vita. Fino all’epilogo tragico.
La
vicenda di Jean-Claude Romand
Il sabato 9 gennaio 1993 il
trentottenne Jean-Claude Romand ha ucciso sua moglie Florence e i suoi figli,
Antoine e Caroline; quindi, si è recato a casa dei suoi genitori anziani e ha
ucciso anche loro, insieme al cane. Poi ha cercato di strangolare l’amante.
Rientrato a casa, dove giacevano i corpi della moglie e dei figli, ha dato
fuoco alla casa verso le 4 del mattino, ha ingerito dei barbiturici scaduti da
diversi anni. È stato salvato dal rapido intervento dei pompieri allertati dai
netturbini che proprio a quell’ora del mattino passavano lungo la strada. Ciò
che tuttavia è stupefacente è che dopo, e in tempi anche piuttosto rapidi, si è
scoperto il motivo di tale carneficina: Jean-Claude mentiva da quasi vent’anni
su se stesso e su tutto. Si diceva medico e non lo era, si diceva funzionario
dell’OMS a Ginevra, impegnato spesso in convegni internazionali, ricercatore
stimato, amico di personalità importanti, e non lo era. Era tutto inventato.
Jean-Claude era uomo capace di relazioni amicali semplici, di amicizie vere con
altre coppie del paese nella Francia Orientale in cui viveva, padre esemplare
di un bimbo e una bambina entrambi sotto i dieci anni. L’omicidio plurimo era
avvenuto perché ormai la struttura di bugie che aveva retto per almeno diciotto
anni stava per crollare. I soldi fattisi dare in prestito da suoceri, genitori,
perfino dall’amante, con promesse di investimenti e alti tassi di rendita, ma
in realtà sottratti e usati per mantenere uno status di vita degno di un medico
di tale levatura internazionale, ormai avrebbero svelato la loro vera fine. E
tutta la sua vita si sarebbe rivelata un’impostura.
L’intera sua vita, ogni ora della
sua vita era scandita e segnata dalla menzogna. Egli partiva in auto al mattino
per andare al lavoro ma non è mai andato alla sede dell’OMS, bensì passava ore
in auto a leggere giornali, o faceva passeggiate nei boschi, o andava in bar in
paesi dove nessuno lo conosceva e passava lì le ore prima di rientrare a casa
alla sera dopo il lavoro. E quando diceva di partire per convegni per esempio
in Brasile o in Russia, ecco che studiava i posti, il clima del luogo dove
diceva di andare, andava all’aeroporto, affittava una stanza di hotel in cui si
rinchiudeva per i giorni di durata del convegno, portava ai bambini regali
acquistati in qualche grande magazzino, e poi si metteva a riposare perché era
stanco per il fuso orario. Al processo Jean-Claude Romand è stato condannato
all’ergastolo.
“L’Avversario”,
di Emmanuel Carrère
Una storia come questa non poteva
non sedurre lo scrittore Emmanuel Carrère, uno dei maggiori romanzieri
francesi, affascinato com’è sempre da uomini che hanno vissuto molte vite o che
se ne sono inventate diverse[xl]. Carrère riesce a entrare in contatto con
Jean-Claude, ad avere colloqui con lui, segue le sedute del processo, si
informa presso gli amici di Jean-Claude, visita i luoghi dove Jean-Claude
viveva, prova a rifare i suoi percorsi, a rivivere le giornate fatte di niente
in cui obbediva all’imperativo della sua menzogna, un’obbedienza ascetica,
pervasiva, che ormai strutturava e dava forma a ogni ora delle sue giornate, a
ogni gesto delle sue relazioni, a ogni parola dei suoi discorsi. Carrère prova
a immaginare a cosa potesse mai pensare in quelle ore in cui “andava a
perdersi, da solo, tra le foreste del Giura”[xli], raccoglie i faldoni del
processo, pur sapendo che ciò che sta cercando e che lo affascina, lo intriga,
e lo fa anche vergognare di interessarsene tanto (in fondo si interessa
dell’assassino, non delle vittime), non troverà lì la risposta.
Dopo l’evento tragico, le reazioni
degli amici, soprattutto del miglior amico di Jean-Claude, Luc Ladmiral, sono
di stupore e incredulità, di rifiuto di credervi per diversi giorni anche di
fronte all’evidenza. Scrive Carrère parlando della loro amicizia: “Ognuno di
loro [l’amico Luc e Jean-Claude] conosceva tutto della vita dell’altro, la
facciata ma anche i segreti, segreti di uomini onesti, di persone perbene, e
quindi ancor più vulnerabili alle tentazioni. Quando Jean-Claude gli aveva
confidato che aveva una relazione, e voleva mollare tutto, Luc era riuscito a
farlo ragionare: ‘Mi restituirai il favore quando sarò io a essere in vena di
cazzate'”[xlii]. Eppure l’impalcatura di impostura regge poche ore alle prime
indagini e ai primi riscontri della polizia. “Con il trascorrere delle ore la
realtà è diventata sempre più simile a un incubo. Convocato alla polizia nel
pomeriggio, nel giro di cinque minuti Luc ha scoperto che nella macchina di
Jean-Claude avevano trovato un biglietto in cui si accusava dei delitti, e che
tutto ciò che credevano di sapere sulla sua carriera e sul suo lavoro era pura
invenzione. Erano bastate quattro telefonate e qualche semplice verifica per
smascherarlo. All’OMS nessuno lo conosceva. All’ordine dei medici non era
nemmeno iscritto. Il suo nome non figurava nelle liste degli ospedali parigini
in cui sosteneva di aver fatto il tirocinio, né in quelle della Facoltà di
Medicina di Lione, benché lo stesso Luc e molti altri giurassero di essere
stati suoi compagni di università. Aveva cominciato gli studi, è vero, ma aveva
smesso di dare esami alla fine del secondo anno, e da quel momento in poi era
tutto falso”[xliii]. “Sono bastate poche telefonate, il giorno dopo l’incendio,
per far crollare l’intero castello di carte”[xliv]. La domanda che tutti si
sono posti e che chi mi ascolta ora si sta ponendo è: ma come è possibile?
“Durante tutta l’istruttoria il giudice non riusciva a capacitarsi che quelle
telefonate non fossero state fatte prima, non con malizia o sospetto, ma solo
perché è assurdo che uno, per quanto sia un tipo ‘a compartimenti stagni’,
lavori dieci anni senza che sua moglie o i suoi amici lo chiamino mai in
ufficio, roba da non credere. Impossibile pensare a questa storia senza
immaginare che sotto ci sia un mistero, una spiegazione nascosta. Il mistero,
però, è che non esistono spiegazioni, e che, per quanto inverosimile possa
sembrare, questo è ciò che è accaduto”[xlv]. Un uomo a compartimenti stagni: la
fatica ascetica della menzogna di Jean-Claude è stata quella di tenere insieme
questi scomparti, ogni santo e benedetto giorno.
Non entro nei dettagli
dell’organizzazione e della pianificazione quotidiana della menzogna: del
sistema messo a punto per le telefonate della moglie, le modalità di
conquistare la fiducia di tutti e di farsi dare somme da investire con un alto
tasso e che invece lui sottraeva, ma anche questo fa parte della fatica estrema
che la menzogna ha comportato per Jean-Claude. È stata una vera ascesi
mantenersi fedele a quella menzogna che è divenuta la strutturazione
dell’intera sua vita. Scrive Carrère: “Fingere di fare Medicina gli richiedeva
uno zelo e un’energia pari a quelli di cui avrebbe avuto bisogno per farla
davvero”[xlvi]. Seguiva le lezioni, studiava anche con amici, ma poi non dava
gli esami. Perché? All’esame di ammissione al terzo anno di Medicina J.C. non
si era presentato e quando i genitori gli telefonano per sapere com’è andata,
egli risponde che l’esame è andato bene. Nelle tre settimane che separavano il
giorno dell’esame e l’affissione dei risultati egli avrebbe potuto ancora confessare
la menzogna, ma: “Si vergognava troppo a confessare una bugia tanto puerile ai
suoi genitori, poteva sempre raccontare di essere stato bocciato. […] Non
sostenere un esame e affermare di averlo passato non è un bluff audace, il
rilancio azzardato di un giocatore, che può funzionare o no: il risultato in
questo caso è uno solo, essere smascherati e cacciati dall’Università
coprendosi d’infamia e di ridicolo, le due cose al mondo che più lo
spaventavano. Ma come poteva immaginare che esisteva un’ipotesi peggiore,
quella di non essere smascherato, e che quella bugia puerile lo avrebbe portato
diciott’anni dopo a massacrare i suoi genitori, Florence e i figli che ancora
non aveva?”[xlvii].
Qui si situa la straordinaria e
mortale potenza della menzogna, che ha colpito Carrère e che l’ha portato a
intitolare il libro L’Adversaire, con la A maiuscola[xlviii]. Descrivendo
l’assassinio degli anziani genitori scrive Carrère: “Per i credenti l’ora della
morte è l’ora in cui si vede Dio, non più in modo oscuro, come dentro uno
specchio, ma faccia a faccia. Perfino i non credenti credono in qualcosa di
simile: che nel momento del trapasso si veda scorrere in un lampo la pellicola
della propria vita, finalmente intelligibile. Per i vecchi Romand, questa
visione, anziché rappresentare il pieno coronamento, aveva segnato il trionfo
della menzogna e del male. Avrebbero dovuto vedere Dio e al suo posto avevano
visto sotto le sembianze dell’amato figlio, colui che la Bibbia chiama Satana:
l’Avversario”[xlix]. In una lettera scritta da Carrère (il 30 agosto 1993) a
Jean-Claude in carcere in cui gli presenta il progetto di scrivere un libro su
di lui, gli specifica anche il suo interesse: “Ai miei occhi ciò che lei ha
fatto non è il gesto di un comune criminale, né di un pazzo, ma di un uomo
spinto agli estremi da forze che non controlla, e vorrei mostrare all’opera
proprio queste terribili forze”[l]. Egli dirà di aver visto in lui “non un uomo
che ha fatto qualcosa di agghiacciante, ma un uomo al quale è accaduto qualcosa
di agghiacciante, vittima sventurata di forze demoniache”[li]. Nella Bibbia, in
particolare nel IV Vangelo, il Satana, l’Avversario, il Diavolo, riceve nome di
Menzognero: “Il diavolo… quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è
menzognero e padre della menzogna” (Giovanni 8,44). La metafora diabolica
appare a Carrère come la più adatta per esprimere la potenza della menzogna,
che si manifesta come forza irresistibile a cui Jean-Claude non è riuscito a
opporre resistenza.
Storia
di una menzogna
Se il bambino è il padre
dell’adulto, che ne fu del bambino Jean-Claude? “I Romand sono grandi
lavoratori, timorati di Dio, e la loro parola vale quanto un impegno
scritto”[lii]. “Racconta [Jean-Claude] che sua madre si angustiava per
qualsiasi cosa, e lui ha imparato presto a nascondere la verità per evitarle
ulteriori preoccupazioni. Ammirava suo padre perché non lasciava mai trasparire
le proprie emozioni, e si è sforzato di imitarlo. Bisognava che andasse sempre
tutto bene se non voleva che sua madre peggiorasse, e lui sarebbe stato davvero
un ingrato a farla peggiorare per delle sciocchezze, piccoli dispiaceri da
bambini. Era meglio nasconderli”[liii]. “Era consueta la pratica della bugia a
fin di bene in quella famiglia dove vigeva il divieto assoluto di
mentire”[liv]. “Da piccolo non potevo parlare [delle mie sofferenze di bambino]
perché i miei genitori non avrebbero capito, li avrei delusi. […] A quei tempi
non mentivo, ma non confidavo mai le mie vere emozioni, se non al mio cane. […]
Ero sempre sorridente e credo che i miei genitori non abbiano mai sospettato
che ero triste. […] Non avevo nient’altro da nascondere allora, ma nascondevo
questo: la mia angoscia, la mia tristezza. […] Magari sarebbero stati pronti ad
ascoltarmi, come Florence del resto, eppure non sono mai riuscito a parlare … E
quando rimani incastrato in questo ingranaggio, per non deludere, la prima
bugia chiama la seconda, e poi vai avanti tutta la vita…”[lv].
La potenza della menzogna si
manifesta non solo nei confronti degli ingannati, ma anche e soprattutto del
mentitore stesso. La menzogna diviene la sua prigione. Emergono i momenti in
cui egli avrebbe voluto finalmente dire all’amico o a un’altra persona la
verità, ma non ce l’ha mai fatta. La vergogna glielo impediva. C’è un rapporto
stretto fra vergogna e menzogna: entrambe sono caratterizzate dal nascondimento
del volto[lvi]. Chi si vergogna vuole sparire, nasconde il proprio volto, chi
mente indossa una maschera e nasconde il proprio volto dietro di essa.
Nascondendo il volto il mentitore si sottrae allo sguardo dell’altro e diviene
senza volto. Diviene aprosopos, “senza volto”, “senza identità”, termine che
nell’antichità designava gli schiavi. “Nessuna donna poteva amarlo per quello
che lui era veramente. Si chiedeva se esistesse al mondo verità più
inconfessabile, se mai un uomo si fosse vergognato tanto di se stesso. Forse
certi maniaci sessuali, quelli che in carcere sono disprezzati e maltrattati
dagli altri detenuti”[lvii].
Vi sono qui il narcisismo e la
cecità di chi è chiuso ormai su di sé, e non riesce più a distinguere il vero
dal falso, non riesce più a riconoscere la realtà. Lui stesso rievocando altre
menzogne inventate durante la sua vita passata (una falsa aggressione subita
mentre era andato in discoteca con amici), non riesce più a sapere con certezza
ciò che gli è avvenuto. La menzogna che lui stesso pratica lo espropria della
sua verità, della sua vita, del suo passato, dei suoi ricordi, della sua storia,
se mai ne ha una. “‘Dopo aver raccontato ai miei amici l’aggressione non sapevo
più se quell’episodio era vero o falso. Ovviamente non ricordo di aver subito
una reale aggressione, so che non si è mai verificata, però non ricordo neppure
di averla simulata, di essermi strappato la camicia o graffiato con le mie
mani. Se ci penso, mi dico che devo averlo fatto per forza, eppure non me lo
ricordo. Così alla fine mi sono convinto di essere stato davvero
aggredito'”[lviii]. La potenza della menzogna diviene la potenza di una forza
che espropria il mentitore della sua stessa vita. Jean-Claude soggiace al
potere che lui stesso ha dato alla menzogna e ne viene oppresso, imprigionato.
Paradossalmente, quando si trova realmente in carcere è più libero. “Non sono
mai stato così libero, la mia vita non è mai stata così bella. Sono un
assassino. La mia immagine agli occhi della società è la peggiore che possa
esistere, ma è più facile da sopportare che i miei vent’anni di menzogne”[lix]
confessa Jean-Claude. O almeno, questo è ciò che dice. Ma è credibile?
Di fronte alle accuse argomentate
di una parente che al processo ricorda a Jean-Claude la promessa di un farmaco
in via di sperimentazione, non ancora in commercio ma di cui lui avrebbe potuto
fornire qualche dose, ovviamente a un prezzo esorbitante, e che si rivelò
inutile, visto che dopo l’assunzione di diverse dosi, il marito malato di
cancro morì, “di fronte all’evidenza, si è difeso come l’uomo che aveva preso a
prestito un paiolo nella storia cara a Freud: al proprietario che lo rimprovera
di averlo restituito bucato, lui prima ribatte che quando l’ha riportato, il
paiolo non era ancora bucato, poi che lo era già quando glielo aveva prestato e
infine di non aver mai preso a prestito un paiolo in vita sua”[lx]. Su tutto
ciò che Jean-Claude dirà dal processo in poi scende un inesorabile velo di
diffidenza e incredulità da parte di chiunque. Quando si scopriranno sempre più
menzogne, quando si arriverà a sospettare che abbia anche commesso un altro
omicidio, perché suo suocero morì cadendo da una scala mentre era solo in casa
con lui, Jean-Claude, e il suocero vantava crediti nei suoi confronti, da
allora in poi ogni sua parola, ogni sua rivelazione è necessariamente sospetta,
non getta luce ma opacizza. Come credervi? La potenza della menzogna è tale che
disgrega l’identità del menzognero, o almeno distrugge l’immagine che gli altri
avevano di lui e ora se ne distanziano atterriti: chi è costui? Lui che si è
nascosto agli altri facendo credere loro di tutto e di più, ora vive un
contrappasso per cui tutto ciò che dice, magari anche il vero, non è creduto,
non può essere creduto. Una relazione degli psichiatri che lo hanno seguito
dice: “Romand si rende conto che qualsiasi sforzo di comprensione dell’accaduto
da parte sua verrà visto come un accomodante tentativo di recupero. I dadi sono
truccati. ‘Non gli sarà mai possibile’, conclude il rapporto ‘essere
considerato una persona sincera, e teme che nemmeno lui riuscirà mai a
ritenersi tale. Prima tutti credevano a tutto ciò che diceva, adesso nessuno
crede più a niente, e lui stesso non sa cosa credere, perché non ha accesso
alla propria verità, ma la ricostruisce con l’aiuto delle interpretazioni che
gli offrono gli psichiatri, il giudice e i media. Poiché attualmente non si può
affermare che si trovi in uno stato di grave sofferenza psichica, risulta
difficile imporgli un trattamento psicoterapeutico che lui non richiede,
limitandosi ad avere dei colloqui con una volontaria. Si può solo auspicare che
giunga, anche a costo di una depressione endogena il cui rischio resta alto, a
difese meno sistematiche, a una maggiore ambivalenza e autenticità'”[lxi]. “Gli
psichiatri incaricati di esaminarlo sono rimasti colpiti dalla precisione con
cui si esprimeva e dalla sua costante preoccupazione di dare di sé un’immagine
positiva”[lxii]. Gli psichiatri “durante i colloqui successivi, l’hanno visto
singhiozzare e mostrare segni palesi di sofferenza, ma non sono stati in grado
di dire se fosse sincero o simulasse. Avevano la sconcertante impressione di
trovarsi davanti a un robot, totalmente incapace di provare sentimenti, ma
programmato per analizzare gli stimoli esterni e adeguare a quelli le proprie
reazioni. Abituato com’era a funzionare secondo il programma ‘dottor Romand’,
gli ci è voluto un periodo di adattamento per elaborare un nuovo programma,
‘Romand l’assassino’, e imparare a usarlo”[lxiii].
La potenza della menzogna che lui
ha spinto fino a quel punto estremo, fino al crimine, è anche la potenza della
distruzione della fiducia, cioè di quel legame che consente di vivere, che è la
matrice della vita. I Ladmiral, la coppia degli amici di Jean-Claude,
“avrebbero dovuto fare i conti con la realtà: non soltanto con la perdita di
chi non c’era più, ma con la morte della fiducia, con una vita interamente
corrosa dalla menzogna”[lxiv]. Il terrore dell’infamia e del ridicolo lo
paralizzano. Nemmeno la storia di amore con una donna da cui arriva ad avere
due figli lo conduce a un cambiamento. Ed egli rivendica durante il processo:
“‘Il lato sociale era falso, ma il lato affettivo era autentico’. Dice Romand.
Dice di essere stato un finto medico, ma un vero marito e un vero padre, di
aver amato con tutto il cuore moglie e figli, i quali lo ricambiavano”[lxv]. È
mai credibile? Il rapporto del primo caso clinico di impostura studiato da uno
psicoanalista, Karl Abraham, agli inizi del secolo scorso, narra la vicenda di
un uomo impostore, truffatore, che si inventava identità, mestieri e vite, che
ebbe continui guai con la giustizia, ma che, grazie alla storia d’amore con una
donna, riuscì, almeno per diversi anni, a essere una persona responsabile, con
un lavoro stabile, una residenza fissa, una vita, come si dice, normale. Il
tutto connesso al rapporto con la moglie[lxvi].
Jean-Claude ha sempre vissuto con
la moglie fingendosi ciò che non era. O forse la sua verità, ormai, era la sua
menzogna? Scrive Carrère: “Di norma una bugia serve a nascondere una verità,
magari qualcosa di vergognoso, ma reale. La sua non nascondeva nulla. Sotto il
falso dottor Romand non c’era un vero Jean-Claude Romand”[lxvii]. Se l’uomo è
l’essere parlato dal linguaggio, la parola menzognera che ha avvolto totalmente
la vita di Jean-Claude che cosa ha reso la sua vita? Jean-Claude ha forse
salvato la sua vita mentendo? La menzogna come forma di difesa di sé, di
sopravvivenza, è comprensibile. Ma qui forse altro non c’era che lo strascico e
l’ingigantimento di una banale bugia originaria, un vero e proprio peccato
originale: una bugia banale e frequente come quella di ragazzi che dicono di
aver dato un esame all’Università ed essere stati promossi quando non è vero.
Custodire quella doppiezza diviene allora il compito di chi deve salvaguardare
a ogni costo l’immagine buona di sé, pena la propria squalifica umana, ed
effettivamente Jean-Claude aveva costruito un’immagine di sé molto migliore di
quella che egli avrebbe avuto se avesse detto la verità. Non sarebbe più stato
il ricercatore importante amico di ministri e scienziati. Nel chiuso di una
mente paurosa e narcisista, ecco che la morte è preferibile alla scoperta e
alla vergogna che ne deriva. Ecco che Jean-Claude a un certo punto si inventa
malato di cancro per suscitare la compassione di coloro che gli stanno vicino,
e per continuare a giostrare con i loro soldi.
In Jean-Claude non c’è la menzogna
come dimostrazione di disprezzo verso l’altro e come considerazione dell’altro
come uno stupido[lxviii]. Questa riflessione di Adorno (“La menzogna mostra di
considerare l’altro a cui si mente come uno stupido e serve all’espressione del
disprezzo”) esula dal meccanismo vissuto da Jean-Claude. Egli vive della sua
menzogna, non può non mentire. E deve anzitutto mentire a se stesso. Uno dei
giorni precedenti la strage compra pallottole e un silenziatore per carabine
calibro 22 a canna lunga. Gli chiede la presidente del tribunale durante il
processo: “‘Quindi lei non pensava soltanto al suicidio. Viveva con sua moglie
e i suoi figli pensando che li avrebbe uccisi’. ‘L’idea mi ha sfiorato. […] Ma
veniva subito nascosta da altri falsi progetti, altre idee fittizie. Era come
se non esistesse. […] Facevo finta di ignorarla. […] Mi dicevo che non era
quello che volevo fare, che lo scopo era un altro, però intanto… intanto
compravo le pallottole che avrebbero trafitto il cuore dei miei figli”[lxix].
“‘Perché ha preso la carabina di suo padre impacchettata con cura, prima di
partire per Clairvaux [dove abitavano i genitori di Jean-Claude]? ‘ ‘Per
ucciderli, ovviamente, ma continuavo a dire a me stesso che volevo semplicemente
restituirla a mio padre'”[lxx]. La potenza della menzogna consiste anche in
questa disumanizzazione di Jean-Claude. La menzogna l’ha distaccato da
sentimenti di pietà verso i figli, verso gli anziani genitori, verso la moglie.
E gli ha fatto inscenare un tentativo di suicidio in modo tale che potesse
essere facilmente scoperto e lui potesse venire rapidamente messo in salvo.
La
banalità della menzogna
E ora, in carcere, adattatosi al
nuovo ruolo di assassino riprovevole, ma toccato dalla grazia di Dio, divenuto
un fervente orante, ecco che ha indossato il nuovo ruolo di abietto peccatore
in via di redenzione mistica. Scrive Carrère: “Il romanzo narcisistico continua
in carcere”[lxxi]. E prosegue: “Mentre tornavo a Parigi per rimettermi al
lavoro, non vedevo più ombra di mistero nella sua lunga impostura, ma solo una
misera commistione di cecità, disperazione e vigliaccheria”[lxxii]. E dopo aver
parlato della conversione mistica di Jean-Claude e del suo impegno come
intercessore che prega tutte le notti fra le due e le quattro del mattino,
Carrère termina dicendo: “Sono sicuro che non stia recitando per ingannare gli
altri, mi chiedo però se il bugiardo che c’è in lui non lo stia ingannando.
Quando Cristo entra nel suo cuore, quando la certezza di essere amato
nonostante tutto gli fa scorrere sulle guance lacrime di gioia, non sarà caduto
ancora una volta nella rete dell’Avversario? Ho pensato che scrivere questa
storia non poteva essere altro che un crimine o una preghiera”[lxxiii].
Ho iniziato questa riflessione
parlando della potenza della menzogna. Posso terminarla parlando della banalità
della menzogna. Una banalità di potenza mortifera, una potenza di una banalità
sconcertante. La “banalità del male” di cui ha parlato Hanna Arendt[lxxiv].
______________________________________________________________________
Note
[i]
I. Leslie, Bugiardi nati. Perché non possiamo vivere senza mentire, Bollati
Boringhieri, Torino 2011, p. 11.
[ii]
C. Castelfranchi – I. Poggi, Bugie, finzioni, sotterfugi. Per una scienza
dell’inganno, Carocci, Roma 1998, p. 253.
[iii]
Agostino, De mendacio 1,1; cf. Agostino, Sulla bugia, Testo latino a fronte, a
cura di Maria Bettetini, Rusconi, Milano 1994, p. 29.
[iv]
Segnalo qualche titolo fra i tantissimi: Cf. D. Goleman, Bugie, bugie, Milano
1987; R. Villari, Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento,
Laterza, Roma-Bari 1987; Frassinelli, F. Cardini (a cura di), La menzogna,
Ponte alle Grazie, Firenze 1989; M. Lavagetto, La cicatrice di Montaigne. Sulla
bugia in letteratura, Einaudi, Torino1992; F. Di Trocchio, Le bugie della
scienza. Perché e come gli scienziati imbrogliano, Mondadori, Milano 1993; T.
Accetto, Della dissimulazione onesta, Einaudi, Torino 1997; V. Sommer, Elogio
della menzogna. Per una storia naturale dell’inganno, Bollati Boringhieri,
Torino1999; M. Bettetini, Breve storia della bugia. Da Ulisse a Pinocchio,
Raffaello Cortina, Milano 2001; A. Tagliapietra, Filosofia della bugia. Figure
della menzogna nella storia del pensiero occidentale, Bruno Mondadori, Milano
2001; J. Campbell, La grande bugia. La necessità e l’utilità della menzogna in
natura, nella storia, nella politica, in amore e nelle arti, Garzanti, Milano
2002; S. Tisseron, Vérité et mensonges de nos émotions, Albin Michel, Paris
2005; F. Nietzsche, Su verità e menzogna, Bompiani, Milano 2006; G. Lecuppre,
L’impostura politica nel Medioevo, Dedalo, Bari 2007; M. G. Profeti (a cura
di), La menzogna, Alinea Editrice, Firenze 2008; F. D’Agostini, Menzogna,
Bollati Boringhieri, Torino 2012.
[v]
Cf. M. A. Pranteda, «Menzogna», in P. P. Portinaro (a cura di), I concetti del
male, Einaudi, Torino 2002, pp.184-210.
[vi]
G. Steiner, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Garzanti,
Milano 1994, p. 266. Più estesamente dice il passo di Steiner: “Sono convinto
che non faremo molti progressi nel comprendere l’evoluzione del linguaggio e i
rapporti tra parola e atto umano, finché considereremo la ‘falsità’ come
fondamentalmente negativa, finché giudicheremo la controfattualità, la
contraddizione e le numerose sfumature della condizionalità come modi
specialistici, spesso spuri sul piano logico. Il linguaggio è lo strumento
principale del rifiuto dell’uomo di accettare il mondo com’è. Senza tale
rifiuto, senza l’ininterrotta generazione da parte della mente di ‘anti-mondi’…
noi saremmo imprigionati per sempre nel presente. La realtà sarebbe… ‘tutte le
cose come stanno’ e niente di più. Nostra è la capacità, l’esigenza, di
contraddire o di dis-dire il mondo, di immaginarlo e di parlarlo altrimenti”.
[vii]
J.-J. Rousseau, Le fantasticherie del passeggiatore solitario, Bompiani, Milano
1998, p. 241 (corsivo nostro).
[viii]
Si pensi alla pagina iniziale della Bibbia, il capitolo primo della Genesi.
[ix]
L. Violante, Politica e menzogna, Einaudi, Torino 2013. Cf. H. Arendt, Politica
e menzogna, SugarCo Edizioni, Milano 1985; Eadem, Verità e politica. Seguito da
La conquista dello spazio e la statura dell’uomo, Bollati Boringhieri, Torino
1995. Una ricostruzione degli eventi che hanno condotto all’esplosione del
conflitto tra Iraq e Usa, visto dall’angolatura delle reciproche menzogne, si
trova in Leslie, Bugiardi nati, pp. 174-182.
[x]
Cf. anche V. Giacché, «La fabbrica del falso sulla guerra in Libia», in
OltreConfine, 14 maggio 2011:
http://www.comunisti-italiani-trentinoaltoadige.it/PdciTAAHOME_file/news_file/news628.htm.
[xi]
Cf. L. Manicardi, Verso un’etica della parola, Qiqajon, Bose 2015.
[xii]
M. Scarnecchia (a cura di), Il paziente che mente. Psicoanalisi e malafede,
Franco Angeli, Milano 2004.
[xiii]
Cf. S. Mastroberardino, Psicologia della menzogna, Carocci, Roma 2012, pp.
46-60.
[xiv]
L. Zoja, Giustizia e bellezza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 9.
[xv]
L. Zoja, Al di là delle intenzioni. Etica e analisi, Bollati Boringhieri,
Torino 2007, p. 7.
[xvi]
Ivi, p. 115.
[xvii]
Ivi, pp. 128-130.
[xviii]
Ivi, pp. 130-131.
[xix]
Cf. L. Manicardi, «Per un’etica dell’integrità in un’azienda», in Recenti
Progressi in Medicina 4 (2015), pp. 155-160.
[xx]
Leslie, Bugiardi nati, p. 13.
[xxi]
Si tratta del racconto Meno di uno contenuto in J. Brodskij, Fuga da Bisanzio,
Adelphi, Milano 1987, pp. 13-43.
[xxii]
Ivi, p. 17.
[xxiii]
Ivi, p. 18.
[xxiv]
Ivi, pp. 22-23.
[xxv]
Leslie, Bugiardi nati, p. 37.
[xxvi]
Citato in P. Ekman, Le bugie dei ragazzi, Giunti, Firenze 1993, p. 98.
[xxvii]
F. de La Rochefoucauld, Massime, Newton, Roma 1993, p. 48 (è la massima 316).
[xxviii]
Leslie, Bugiardi nati, p. 39.
[xxix]
Ekman, Le bugie dei ragazzi, p. 83.
[xxx]
Ivi, p. 69.
[xxxi]
H. Arendt, Verità e politica, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 60.
[xxxii]
S. Bok, Mentire. Una scelta morale nella vita pubblica e privata, Armando, Roma
2003, pp. 34-35.
[xxxiii]
I. Kant, La metafisica dei costumi, Laterza, Bari 1970, pp. 287-288.
[xxxiv]
I. Kant – B. Constant, La verità e la menzogna. Dialogo sulla fondazione morale
della politica, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 209.210.212.
[xxxv]
Leslie, Bugiardi nati, p. 244.
[xxxvi]
Già Aristotele annota che si può mentire “sia nelle parole sia nelle azioni sia
in ciò che uno pretende di essere” (Etica nicomachea IV,7,1127a).
[xxxvii]
Cf. G. Gramigna, La menzogna del romanzo, Garzanti, Milano 1980; G. Manganelli,
La letteratura come menzogna, Adelphi, Milano 1985; M. Vargas Llosa, La verità
delle menzogne. Saggi sulla letteratura, Rizzoli, Milano 1992; U. Eco, Tra
menzogna e ironia, Bompiani, Milano 1998.
[xxxviii]
M. de Montaigne, Saggi, a cura di Fausta Garavini e André Tournon, Bompiani,
Milano 2012, p. 1487 (Saggi III,II, Del pentirsi).
[xxxix]
W. H. Auden, Un altro tempo, Adelphi, Milano 1997, p. 49. Si tratta della
poesia Herman Melville.
[xl]
E. Carrère, Limonov, Adelphi, Milano 2012; Idem, «L’uomo dei dadi», in
Internazionale 1113-1114-1115, 31 luglio 2015, pp. 63-76.
[xli]
E. Carrère, L’Avversario, Adelphi, Milano 2013, p. 29. Citerò sempre da questa
edizione.
[xlii]
Ivi, p. 12.
[xliii]
Ivi, p. 15.
[xliv]
Ivi, p. 73.
[xlv]
Ivi, p. 74.
[xlvi]
Ivi, p. 67.
[xlvii]
Ivi, pp. 60-61 (corsivi miei).
[xlviii] E. Carrère, L’Adversaire, P.O.L., Paris 2000.
[xlix]
Carrère, L’Avversario, p. 24.
[l]
Ivi, p. 30.
[li]
Ivi, p. 33.
[lii]
Ivi, p. 40.
[liii]
Ivi, p. 42.
[liv]
Ivi, p. 45.
[lv]
Ivi, p. 45.
[lvi]
M. Lewis, Il sé a nudo. Alle origini della vergogna, Giunti, 1995; C. L.
Cazzullo, C. Peccarisi, Le ferite dell’anima. I meandri della vergogna,
Frassinelli, Milano 2003; B. Kilborne,
Persone che scompaiono. Vergogna e apparire, Borla, Roma 2005.
[lvii]
Carrère, L’Avversario, p. 93.
[lviii]
Ivi, p. 55.
[lix]
Ivi, p. 142.
[lx]
Ivi, p. 86.
[lxi]
Ivi, p. 142.
[lxii]
Ivi, p. 139.
[lxiii]
Ivi, pp. 139-140.
[lxiv]
Ivi, p. 16.
[lxv]
Ivi, p. 71.
[lxvi]
K. Abraham, «La storia di un impostore alla luce della conoscenza
psicoanalitica», in K. Abraham, H. Deutsch, Ph. Greenacre, H. Kohut, E.
Jacobson, Bugiardi e traditori, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 43-62. Il
caso era stato trattato da Abraham nel 1916 nell’Ospedale militare di Allensten
(Prussia orientale) e la relazione presentata con il titolo Die Geschichte
eines Hochstaplers im Lichte Psychoanalytischer Erkenntnis alla Società
Psicoanalitica di Berlino il 13 novembre 1925 e in seguito pubblicata su Imago,
vol. 11, n. 4, pp. 355-370.
[lxvii]
Carrère, L’Avversario, p. 78.
[lxviii]
T. W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino
1994, pp. 22-23.
[lxix]
Carrère, L’Avversario, p. 120.
[lxx]
Ivi, p. 127.
[lxxi]
Ivi, p. 142.
[lxxii]
Ivi, p. 168.
[lxxiii]
Ivi, p. 169.
[lxxiv]
H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano
2013.
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