SMASCHILIZZARE LA
CHIESA
Una Chiesa materna - quante volte ci siamo sentiti dire che la Chiesa è madre? - ha bisogno delle donne. Allora è necessario ascoltarle e riconoscere le loro ragioni. La reciprocità donna – uomo è necessaria anche nella Chiesa, per un mondo a misura dell’umanità intera.
- di Paola
Bignardi
Le
ventenni abbandonano la comunità cristiana a un tasso maggiore dei maschi. Il
motivo? L'esclusione dalle decisioni e dal fatto di essere poco valorizzate
nelle loro risorse originali
Una
recente pubblicazione ha posto all’attenzione delle comunità cristiane
l’esigenza di “smaschilizzare la Chiesa” (e “Avvenire” ha avviato una
discussione con alcuni interventi già pubblicati). L’aspetto forse più
interessante: si tratta del resoconto di una riflessione sollecitata dallo
stesso Papa Francesco e proposta alla sua presenza. Annosa, anzi secolare
questione, che ogni tanto viene agitata senza che su di essa si facciano
significativi passi avanti; è vero che la Chiesa si è espressa con importanti
documenti - basti pensare alla Mulieris dignitatem (1988) o alla lettera Alle
donne (1995) di Giovanni Paolo II - o a qualche discorso di Papa Francesco, ma
non si vedono all’orizzonte cambiamenti degni di nota. Nel frattempo, le
giovani donne abbandonano la Chiesa in misura sempre più massiccia.
Nel
2012 il teologo Armando Matteo pubblicava un saggio dedicato alla fuga delle
quarantenni; ora, poco più di dieci anni dopo, bisognerebbe parlare della fuga
delle ventenni. La velocità del loro abbandono della Chiesa è superiore a
quella dei loro coetanei maschi.
Nel
2013 le giovani donne che si sono dichiarate appartenenti alla religione
cristiana cattolica erano il 61,2%; nel 2023 sono diventate il 33% (Fonte:
Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo). Un cambio che non può non far
pensare e preoccupare e che invoca una presa in considerazione urgente della
situazione. «Alla Chiesa interessano le donne? – si chiede una giovane -. A me
sembra proprio di no. Negli ultimi anni, pur con tutte le difficoltà e le
contraddizioni del caso, stiamo assistendo a una sempre maggiore presa di
coscienza da parte della società nei confronti delle questioni di genere e
delle difficoltà che le donne hanno in tutti gli ambiti. Se ne parla a tutti
livelli: politico, sociale, lavorativo, scolastico, sanitario... ma nella
Chiesa? La questione femminile all'interno della Chiesa continua ad essere un
grande tabù e sembra che a nessuno interessi».
Con
questo contributo vorrei dare voce alle donne concrete, quelle che non si
occupano di questioni teoriche, ma che sono alle prese con le soddisfazioni e
le fatiche della vita quotidiana e che vorrebbero esprimere il loro sentire, i
loro pensieri, il loro disagio, la loro esperienza. La distanza che le giovani
stanno prendendo dalla Chiesa, almeno all’inizio, è tutta interna alla Chiesa,
riguarda la fede solo in un secondo tempo, e talvolta non la tocca nemmeno, ma
la trasforma: da fede comunitaria, condivisa con un popolo, a esperienza
intima, personale, privata, solitaria.
L’allontanamento
delle giovani donne dalla Chiesa è diverso da quello dei loro coetanei maschi;
lo segnalano i numeri ma soprattutto le ragioni con cui le giovani spiegano le
loro scelte. È un fatto che chiama in causa la condizione femminile nella Chiesa:
richieste di impegno pastorale molto più dei loro coetanei, eppure marginali
perché escluse dalle decisioni; spesso giudicate con superficialità, poco
valorizzate nelle loro risorse originali. «Le donne - afferma una giovane -
sono presenti e indispensabili in ogni ufficio religioso, ma è un po’ come se
fossero entrate dalla porta di servizio».
In
una Chiesa che si esprime con linguaggi desueti, che fa proposte da cui non si
sentono interpretate, che ha uno stile che non lascia spazio al dialogo e al
confronto, le giovani si sentono estranee. Sentono che quello non può essere un
mondo che le riguarda e che in esso non sono libere di portare le loro domande
e le loro inquietudini, le loro obiezioni e il loro desiderio di vita. Scrive
una donna: «Come possiamo sentirci parte di una Chiesa che esclude da venti
secoli l’altra metà del cielo, e nemmeno piange? che si sta perdendo una
ricchezza enorme, e non piange? Come posso sentirmi parte di una Chiesa
immobile, fissa, sempre uguale a se stessa, se io sono diversa ogni giorno? di
una Chiesa monotona, grigia, monocorde, mentre il mondo è variopinto? di una
Chiesa che pretende di leggere il vangelo, sempre contemporaneo, mentre lei
contemporanea non lo è?». Parole molto forti che dicono di una sofferenza
grande, anzi di un pianto, quello che questa donna vorrebbe vedere nella
Chiesa.
Le
donne se ne vanno dalla comunità cristiana perché non vedono in essa quei
cambiamenti che ritengono necessari e che riguardano tutti perché toccano la
qualità dell’esperienza ecclesiale e che loro, con la loro storia e la loro
sensibilità, reclamano con maggiore forza. Il vero cambiamento riguarda la
Chiesa tutta, il suo stile di vita e di relazione, l’esigenza di una nuova
apertura a questo tempo, la sua disponibilità a lasciarsi interpellare e
provocare da un mondo che cambia sempre più rapidamente ed è in cerca di nuove
speranze. Le donne non chiedono potere, non chiedono posti. Chiedono molto di
più: una Chiesa diversa, evangelica, umana, accogliente, misericordiosa,
attenta ai poveri, senza potere; dialogica, capace di ascoltare. Vivesse così,
nelle sue espressioni quotidiane, parrocchiali o locali, la Chiesa mostrerebbe
che il messaggio che annuncia non solo è bello, ma è possibile, nella sua
paradossalità e nella follia del suo radicalismo.
Questo
è il sogno che le donne hanno sulla Chiesa. Potremmo dire che questo è il sogno
di tutti (forse anche quello di Dio!), ma le donne che se ne vanno così
rapidamente stanno dicendo che il tempo è scaduto: il tempo per mostrare che
questo sogno non è utopia. Una delle critiche che le giovani fanno alla Chiesa
è quella di essere fredda, distaccata, anonima, impersonale... e per loro, che
sono sensibili alle relazioni, questo è un aspetto critico, che le mette in
crisi quando nella comunità cristiana sperimentano atteggiamenti di giudizio,
di freddezza, di distacco. Si sentono estranee in assemblee eucaristiche dove
le persone stanno una accanto all’altra come statue, ognuna per sé. Una somma
di individui non fa una comunità, anche se partecipano tutti alla stessa
Eucaristia. La critica va oltre se stessa, a invocare una Chiesa di persone che
si parlano, che si sorridono, che condividono una vita. I linguaggi ecclesiali
- quello liturgico e anche quelli della vita quotidiana - hanno un sapore di
antico.
Hanno
bisogno di trovare casa in un contesto di calore e di bellezza.
Le
donne nella Chiesa cercano bellezza, perché una delle loro tensioni di oggi è
verso l’armonia: di sé, dentro di sé, con il creato, con gli altri.
Cercano
anche nella Chiesa l’armonia, per sentirsi a casa, anzi, in quella casa che il
Vangelo e la fraternità che origina dal Vangelo rende più bella e più
accogliente di qualsiasi altra casa. Ad una Chiesa umana le donne chiedono
calore, accoglienza. Non possono capire questo aspetto le persone che ritengono
che essere cristiani significa semplicemente credere con la testa che Dio
esiste, che Gesù Cristo è esistito, e qualche altra verità contenuta nel
catechismo. Le donne, che pensano anche con il cuore, sentono che la fede è una
vita; o inserisce in una trama di relazioni calde, o non è fede: è dottrina, è
ideologia, con tutto quello che ne consegue. E la prima di queste relazioni è
con Dio, che non è un’idea né un articolo del credo, ma una Persona con cui
stare in relazione.
Ciò
che le giovani donne non sopportano della Chiesa è il modo perentorio con cui
propone i suoi insegnamenti e dà le sue indicazioni. Per qualcuno questo è un
ostacolo decisivo rispetto alla possibilità di un riavvicinamento: «Mi farebbe
avvicinare una chiesa che si pone in discussione, espone i suoi problemi, ha la
volontà di rinnovarsi, di essere fattore di sviluppo non solo per la comunità
ma per la società intera». Le giovani avvertono che le indicazioni della Chiesa
sono senza ascolto della vita, e della storia concreta delle persone. Il Sinodo
è una preziosa occasione. È il segno che si sta iniziando a comprendere che la
Chiesa deve scendere dalla cattedra e farsi attenta alla vita, in ascolto di
essa.
Le
donne vorrebbero che la Chiesa credesse in loro, tenesse conto del fatto che
hanno un punto di vista originale sulla vita, un modo proprio di vedere le
cose, di prendere decisioni, di affrontare le situazioni, diverso da quello
degli uomini; un punto di vista di cui la comunità cristiana ha bisogno, anche
per realizzare in pieno il suo essere madre. Molte sono le donne che operano
nelle comunità. Credere nelle donne, per la Chiesa, significa far loro
percepire concretamente che c’è bisogno non solo delle loro braccia o del loro
tempo, ma della loro testa, del loro cuore, della loro vita. Che c’è bisogno di
loro per una più piena comprensione della fede e dell’esperienza di Dio.
Una
Chiesa materna - quante volte ci siamo sentiti dire che la Chiesa è madre? - ha
bisogno delle donne. Allora è necessario ascoltarle e riconoscere le loro
ragioni. La reciprocità donna – uomo è necessaria anche nella Chiesa, per un
mondo a misura dell’umanità intera.
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