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mercoledì 3 aprile 2024

BEATI I GIUSTI

"L’uomo giusto è retto, semplice e schietto, 

non indossa maschere"

 


-di Veronica Giacometti - -         Città del Vaticano, (ACI Stampa).

 

Papa Francesco torna in Piazza San Pietro per l'Udienza Generale. "Buona Pasqua", dice subito Papa Francesco. Poi, il Papa, continuando il ciclo di catechesi su “I vizi e le virtù”, incentra la sua riflessione sul tema "La Giustizia".

 Francesco nella catechesi spiega che la giustizia è "rappresentata allegoricamente dalla bilancia, perché si propone di pareggiare i conti tra gli uomini, soprattutto quando rischiano di essere falsati da qualche squilibrio".

 "Tutti comprendiamo come la giustizia sia fondamentale per la convivenza pacifica nella società: un mondo senza leggi che rispettano i diritti sarebbe un mondo in cui è impossibile vivere, assomiglierebbe a una giungla. Senza giustizia, non c’è pace. Infatti, se la giustizia non viene rispettata, si generano conflitti. Senza giustizia, si sancisce la legge della prevaricazione del forte sul debole", commenta Papa Francesco.

 "Le mezze verità, i discorsi sottili che vogliono raggirare il prossimo, le reticenze che occultano i reali propositi, non sono atteggiamenti consoni alla giustizia. L’uomo giusto è retto, semplice e schietto, non indossa maschere, si presenta per quello che è, ha un parlare vero. Sulle sue labbra si trova spesso la parola grazie: sa che, per quanto ci sforziamo di essere generosi, restiamo debitori nei confronti del prossimo. Se amiamo, è anche perché siamo stati prima amati", continua il Pontefice.

 Ma soprattutto il giusto "aborrisce le raccomandazioni e non commercia favori. Ama la responsabilità ed è esemplare nel vivere e promuovere la legalità. Ancora, il giusto rifugge comportamenti nocivi come la calunnia, la falsa testimonianza, la frode, l’usura, il dileggio, la disonestà. Restituisce quanto ha preso in prestito, riconosce il corretto salario agli operai", aggiunge il Papa.

 "I giusti non sono moralisti che vestono i panni del censore, ma persone rette che «hanno fame e sete della giustizia» (Mt 5,6), sognatori che custodiscono in cuore il desiderio di una fratellanza universale. E di questo sogno, specialmente oggi, abbiamo tutti un grande bisogno. Abbiamo bisogno di essere uomini e donne giusti e questo ci farà felici", conclude infine il Papa.



giovedì 10 agosto 2023

CHIARI COME CHIARA


 LA CHIAREZZA DI CHIARA


-         di Antonio Tarallo

-          

Chiara, chiarore, chiarezza: tutte parole che riconducono la mente a un solo concetto, la luce.

E se c’è luce, c’è verità.

Quante volte utilizziamo, nel nostro parlare abituale, frasi del genere: “questo è chiaro!”, oppure “grazie per la chiarezza della tua esposizione”, o anche “tutto si è palesato ai nostri occhi chiaramente”.

Che bella la chiarezza!

Forse, non ci pensiamo poi così tanto a quanto sia importante una dote del genere.

Eppure, se non c’è “chiarezza” il messaggio - qualsiasi messaggio che si voglia dare, ad esempio, ad un interlocutore - non arriva, non “passa” diremmo.

E, invece, grazie solo alla “chiarezza” è possibile il dialogo: semplice strumento della comunicazione.

E di comunicazione, se ne intendeva parecchio la nostra Chiara di Assisi, donna moderna, donna oltre il proprio tempo, per diversi aspetti.

E soprattutto una donna “chiara” con tutti, a cominciare da sé stessa.

Che non è, poi, cosa semplice, lo sappiamo bene.

È stata “chiara” con la sua famiglia, senza nessun compromesso.

Sentita la chiamata, si oppone alla famiglia che vede per lei la vita di ogni ragazza “di buona famiglia” dell’epoca.

Chiara cerca di far capire ai genitori il suo disegno di vita o, meglio, il disegno che aveva Dio per lei.

La sera della Domenica delle Palme del 1211 (o 1212) la bella ragazza appena diciottenne fugge dalla sua casa in Assisi e corre alla Porziuncola, dove l’attendono Francesco e il gruppo dei suoi frati minori.

Le fanno indossare un saio da penitente, le tagliano i capelli e poi la ricoverano in due successivi monasteri benedettini, a Bastia e a Sant’Angelo.

Chiara è stata “chiara” fin da subito: la chiamata al servizio di Dio non poteva, certo, attendere.

È stata “chiara” con Francesco.

Chiara non fugge di casa “per andare dalle monache”, ossia per entrare in una comunità già prestabilita: vuole dare vita a una famiglia di claustrali radicalmente povere, come singole e come monastero, viventi del loro lavoro e di qualche aiuto dei frati minori, immerse nella preghiera per sé e per gli altri, al servizio di tutti.

E con San Francesco è “chiara”: da lui, ottiene una prima regola per il nuovo ordine religioso, fondato sulla povertà.

Francesco - è vero - consiglia, Francesco ispira, Francesco l’aiuta ma è lei a decidere, bisogna pur sempre specificarlo.

Grazie a quella sua decisione - in un certo modo - preannuncia la forte iniziativa femminile che il suo secolo e il successivo vedranno svilupparsi nella Chiesa.

E’ “chiara” con il suo tempo.

È “chiara” anche quando scrive ad Agnese, la beata Agnese di Praga: “Sorella carissima, o meglio signora degna di ogni venerazione, poiché siete sposa, madre e sorella del Signor mio Gesù Cristo, insignita dello smagliante stendardo della inviolabile verginità e della santissima povertà, riempitevi di coraggio nel santo servizio che avete iniziato per l’ardente desiderio del Crocifisso povero”.

“Riempitevi di coraggio”: non usa “mezze misure” in questa lettera, arrivando subito al “punto”.

A ciò che più gli preme: infondere coraggio ad Agnese.

Oppure, come scrive nella sua seconda lettera: “Memore del tuo proposito, come un’altra Rachele, tieni sempre davanti agli occhi il punto di partenza.

I risultati raggiunti, conservali; ciò che fai, fallo bene; non arrestarti; ma anzi, con corso veloce e passo leggero, con piede sicuro, che neppure alla polvere permette di ritardarne l’andare, avanza confidente e lieta nella via della beatitudine che ti sei assicurata”.

Un periodare così “chiaro”, un’espressione così lineare, è davvero sorprendente. In queste parole c’è tutta la “chiarezza” della determinazione di Santa Chiara: raccomanda sì queste parole ad Agnese, ma è come se le scrivesse per sè stessa, in fondo.

E lo fa, con proverbiale “chiarezza”.

Chiara

 

mercoledì 2 agosto 2023

GRAZIE DI CUORE

 "Non tralasciamo di ringraziare: se siamo portatori di gratitudine, anche il mondo diventa migliore, magari anche solo di poco, ma è ciò che basta per trasmettergli un po' di speranza"(Papa Francesco).

Ringraziare qualcuno è il segreto della felicità, sia per chi dice grazie sia per chi lo riceve, è un modo per dare importanza a qualcosa che si è fatto, a qualcosa che si è detto: è un modo per dare importanza a qualcuno.

“Grazie” è la migliore preghiera che chiunque possa dire. Grazie esprime gratitudine estrema, umiltà, comprensione (Alice Walker).

-         di Valeria Bonora

 

Chi riceve un ringraziamento si sente meglio, sa di essere stato utile, sa di aver fatto qualcosa di buono e questo aumenta la sua autostima e si sente motivato a offrire di più, dall’altro lato chi ringrazia sa che sta dando valore e questo lo rende felice, aumenta il livello di buona salute fisica, può rafforzare le relazioni sociali, produrre stati emotivi positivi e aiuta a far fronte in modo migliore ai periodi di stress nella vita.

 A dimostrare questa teoria sono stati Adam M. Grant e Francesca Gino i quali hanno esaminato, in una serie di studi pubblicati recentemente sul Journal of Personality and Social Psychology, un campione di persone alle quali veniva chiesto di aiutare un fantomatico ragazzo a scrivere una lettera di accompagnamento al curriculum. Gli studi hanno dimostrato che coloro i quali avevano ricevuto lettere di ringraziamento da parte del giovane che avevano aiutato sono stati più propensi sia a continuare ad aiutarlo che ad aiutare anche un altro ragazzo, rispetto a coloro che non avevano ricevuto ringraziamenti in risposta alla loro offerta di aiuto.

 Dire grazie non è solo una questione di buone maniere. E una questione di buona spiritualità ( Alfred Painter).

 A supportare questa teoria c’è anche la consapevolezza che vivere positivamente sia sicuramente una tecnica magica per vivere meglio, ogni giorno ringraziare qualcuno per qualcosa, raccogliere le idee alla sera e ringraziare per un bel momento passato durante la giornata, ringraziare il compagno per un gesto carino, ringraziare i genitori per il loro amore, ringraziare i figli perché esistono, ringraziare…. fa subito sentire meglio, trasmette positività e la espande verso l’esterno, verso gli altri.

 A volte bisogna ringraziare anche per qualcosa che non ci ha aiutato o magari ci ha fatto soffrire, perché ogni esperienza dona alla vita un insegnamento, e la prossima volta si saprà come affrontarlo.

 Una sola parola, logora, ma che brilla come una vecchia moneta: “Grazie!”

~ Pablo Neruda

 Ci sono tre motivi validi per dire grazie:

1. Essere in grado di dire “grazie” rende più felici.

2. Dire “grazie” fa bene alla salute e alla psiche.

3. Ringraziare aiuta nel rapporto con gli altri.


Quando si ringrazia qualcuno non è solo un atto di gentilezza, ma è un gesto di stima e di amore, che fa uscire il meglio da entrambi le parti e questo è indiscutibilmente un atto che rende felici.

 Uno studio effettuato da un team di ricercatori di un’azienda americana che si occupa di temi esistenziali, ha riscontrato un aumento della felicità in un gruppo di persone che ha ringraziato qualcuno che avesse avuto una grande influenza su di loro, e ha riscontrato un aumento notevole di felicità in coloro che ricevevano i ringraziamenti.

 Per aumentare questo senso di felicità c’è una cosa semplice da fare e cioè smettere di dare tutto per scontato e cominciare nuovamente a meravigliarsi come i bambini.

 Anche varie religioni affermano che la gratitudine porta felicità e attraverso la felicità si riesce a trovare una pace interiore che giova al sistema immunitario, aiuta a de-contrarre la muscolatura, e ad innestare sinapsi di pensieri positivi. Questo lega la psiche al corpo e aiuta anche ad affrontare meglio le difficoltà con fiducia ed ottimismo.

 Dicendo “grazie” tu crei amore (Daphne Rose Kingma)

 E come ultima cosa ma non meno importante, dire grazie aiuta a sentirsi meno soli ma connessi con gli altri socialmente, in rapporti dove non ci sono perdenti, dove da entrambe le parti si ricevono solo benefici e sintonia.

 Tutti sanno quanto sia difficile ringraziare per questo motivo bisogna allenarsi per rendere il dire grazie un atto sincero, normale e sentito.

 Per prima cosa bisogna ringraziare senza chiedere niente in cambio, senza aspettarsi nulla, basta un messaggio, una telefonata, un bigliettino che faccia da catalizzatore perché si inneschi questa pratica. Ringraziare la vita, gli obiettivi raggiunti, i dolori passati, le battaglie superate perché non è tutto così scontato. Poi bisogna imparare a non invidiare chi sembra avere di più o, meglio, in fondo non è tutto oro quel che luccica e solo noi conosciamo la strada che ha portato a determinati risultati.

E come ultimo esercizio per imparare a dire grazie bisogna imparare a essere gentili sempre, cercando di comprendere, di imparare e crescere sfruttando ogni occasione sia bella che brutta e per questa crescita ringraziare.

 Nessuno è più povero di colui che non ha gratitudine. La gratitudine è una moneta che possiamo coniare da soli, e spendere senza timore di fallimento (Fred De Witt Van Amburgh)

 Quando si impara a ringraziare per le piccole cose allora si scoprirà un mondo migliore dove la felicità e l’amore potranno finalmente trionfare.

 

Eticamente




venerdì 19 maggio 2023

BUONE RELAZIONI a SCUOLA e NON SOLO


 Ecco perché il vero “Pnrr” 

comincia in aula docenti

 

- di  Nicola Campagnoli

 Il mondo scolastico, come ogni altro ambiente lavorativo, è sempre più condizionato dalla qualità delle relazioni che vi si instaurano. Quali sono i rischi più frequenti in cui si cade?

Primo: è sempre più evidente l’erronea convinzione che una persona possa, da leader solitario, cambiare una situazione. Che un professore illuminato possa guidare al meglio una classe, un responsabile d’indirizzo il suo dipartimento, un preside un intero istituto scolastico.

In nome di alcuni presupposti teorici ben saldi e chiari, in nome di alcune iniziative innovative che si hanno chiare alla mente, in nome di una strategia sulla carta più efficace e comunicativa, si finisce per cozzare contro il muro della realtà dei colleghi, dei ragazzi o dei docenti che difficilmente si adattano ai nuovi schemi. A quel punto il collega o il dipendente, o anche lo studente, diventano l’ostacolo disturbatore, l’elemento conservatore che “non capisce”, e quindi rallenta tutto il processo che si vorrebbe attivare.

Non è difficile rendersi conto di questa piaga: un prof che parla male dei suoi colleghi perché “non comprendono i ragazzi, invece io…”, un dirigente che vuole creare un nuovo indirizzo nel plesso scolastico (che magari per niente si adatta alla natura di quell’istituto, ma farebbe “passare alla storia” il suo nome proprio per la novità introdotta), un capo dipartimento che obbliga i suoi colleghi ad adottare un libro piuttosto che un altro “visto che le altre pubblicazioni sono tutte obsolete”…

Tale errore si fonda su una visione che non coglie due profonde verità. La prima, che solo una comunità – un villaggio – educa (come ripete spesso Papa Francesco). La seconda, che il cambiamento parte non da una preventiva pianificazione teorica, bensì dal mettere le mani in pasta su un particolare, su una situazione, tenendo gli occhi bene aperti su ciò che la realtà in quel caso vuole indicarci, sulla direzione insita dentro le cose, dentro le circostanze. Questo lavoro può esser portato avanti solo “insieme”, non uno sull’altro, condividendo insieme “in azione” un pezzo di realtà e cercando di sottolineare – uno all’altro – i segnali che dalla realtà emergono.

Il secondo grande rischio in cui è facile cadere sono la maldicenza e il pettegolezzo, tentazioni letali in ogni ambiente scolastico. Sembra non si riesca a farne a meno, tanto sono forti e inestirpabili. Si potrebbe addirittura affermare che se Dio ha permesso all’uomo di collaborare con Lui nella creazione continua dell’universo, nell’uso delle risorse e nella costruzione di un mondo più vivibile, il demonio cerchi di impedire questo “lavoro costruttivo” proprio attraverso l’invidia, le parole dette alle spalle, il rancore interiore. Riguardo a questo aspetto non credo ci sia bisogno di fare esemplificazioni: è così presente, così forte, così evidente nelle nostre scuole che lo abbiamo continuamente sotto gli occhi. Cosa si può dire su queste “lingue lunghe”, che sono fardello di ognuno di noi? Nulla. Sembra quasi che occorra rassegnarsi a tale oscurità. Però ci si può accorgere di due aspetti. Uno è che questi “difetti” appartengono a tutti noi, ma principalmente a chi vive una insicurezza esistenziale di fondo; a chi vive il lavoro non come contributo alla realizzazione del destino del mondo, ma a chi lo svolge per colmare una “solitudine affettiva”, una “insoddisfazione esistenziale” di fondo. Costoro usano il lavoro per affermare se stessi, non per costruire un bene comune.

L’altro aspetto è che fa molto meglio chi dice apertamente le cose che pensa e vede, chi le mette a confronto – magari col rischio di toccare la suscettibilità dell’altro – senza farle pesare dall’ombra dei gruppuscoli o delle amicizie complici e sotterranee. Meglio un ambiente in cui si litiga, si discute animatamente, che una scuola in cui c’è un finto perbenismo che nasconde veleni e accuse taciute.

Sembra nulla, ma cominciare a rendersi conto di tali situazioni può far meglio alle scuole dei fondi del Pnrr.

 Il Sussidiario

mercoledì 3 marzo 2021

LA MALDICENZA E' COME UN FILO


 L'EQUILIBRIO 

NON ESISTE PROPRIO

 - Riccardo Maccioni

A volte la differenza tra il parlare bene e la maldicenza è sottile come un filo invisibile. Per passare dalla parte sbagliata della riva basta un aggettivo infelice, una virgola, un silenzio che sa di condanna. Succede se la bontà resta senza allenamento, quando, da equilibristi quali siamo un po’ tutti, ci si sporge troppo sul bordo del pericolo con il rischio, presto o tardi, di finirci dentro. Gli esperti dell’animo umano e delle sue distorsioni sono chiari: più della caduta la colpa sta nell’esporsi alla possibilità di scivolare, quella che comunemente chiamiamo tentazione. Il desiderio di apparire migliori di come siamo, la brama di salire ancora un po’ nella scala del potere, la 'necessità' di tarpare le ali a chi volerebbe più in alto di noi. E il 'parlare bene', nel senso di trovare vocaboli forbiti e immagini affascinanti, non è affatto un antidoto, anzi spesso apre le porte al 'parlare male' che vuol dire denigrare, insultare, calunniare. Costruire delle storie così verosimili da sembrare vere, accusare l’altro dei comportamenti sbagliati che teniamo noi, chiamare  male il bene e viceversa. L’indugiare nella maldicenza, nel chiacchiericcio cattivo, tante volte insomma è un vulnus colto, di persone intelligenti, capaci di costruire un ordito maligno, una ragnatela in grado di soffocare anche i migliori, se non sono altrettanto scaltri.

Il pensiero va al grande Barcellona, 'più di un club calcistico', come recita il suo motto, il cui ex presidente Josep Maria Bartomeu, ieri è stato arrestato insieme all’attuale direttore generale, al capo dell’ufficio legale e all’ex responsabile del personale. L’accusa, ma vale per tutti la presunzione d’innocenza, è pesante: si sarebbero avvalsi di una società esterna per diffondere sui social commenti negativi nei confronti dei giocatori, e non solo, contrari alla linea della dirigenza. Tra di loro Piqué e lo stesso Messi, proprio il grande Messi. Non potendolo colpire sotto il profilo tecnico si sarebbe puntato a svilire il suo attaccamento alla maglia, l’unico patrimonio che non sfuma, in quanto sentimentale e non commerciabile, di una società sportiva.

L’effetto, come si ricorderà dal clima velenoso dei mesi scorsi, è stato devastante: crollo di credibilità del club, diminuzione del valore economico degli atleti, sconcerto, rabbia, nel migliore dei casi distacco da parte dei tifosi. Se infatti ogni colpa del singolo ha anche ricadute su chi gli vive accanto e lo frequenta, quello del parlare male è per così dire un peccato particolarmente sociale. Basta pensare ai muri di sospetto e incomunicabilità che dividono tante famiglie o alle spaccature interne a comunità religiose malate di carrierismo. Il Papa ne parla spesso, l’ultima volta domenica all’Angelus, e usando parole forti, fortissime.

Il pettegolezzo uccide, ha sottolineato in più di un’occasione, paragonando la lingua a una spada affilata, intrisa di veleno. La prevenzione allora è nel fare un passo indietro, nel rifiuto a dialogare con il male, nel silenzio, nel digiuno suggerito per questa Quaresima: dalla maldicenza, dal pettegolezzo. Dall’esporsi all’uso di parole anche apparentemente buone, per fare, consapevoli o no, il male. Perché la colpa non è cadere ma camminare sul filo, da equilibristi precari quali siamo, senza rete di protezione. Prima o dopo si scivola giù.

 www.avvenire.it

 

sabato 15 febbraio 2020

DENTRO AL CUORE DELLA NORMA

- " GLI ANTICHI VI HANNO DETTO, 
          MA IO VI DICO .... " -
  
Dal Vangelo secondo Matteo 
- Mt 5, 17-37

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio”. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna.
Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono.
Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!
Avete inteso che fu detto: “Non commetterai adulterio”. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore.
Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna.
Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.
Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno».

Commento di P. Ermes Ronchi
Gesù viene a guarirci, non a rifare un «codice»

Un altro Vangelo impossibile: se chi dà del matto a un fratello in un impeto d’ira fosse trascinato in tribunale, non ci sarebbe più nessuno a piede libero sulla terra e, nei cieli, Dio tutto solo a intristire nel suo paradiso vuoto! 
Il Vangelo non è un manuale di facili istruzioni, anzi! Ci chiede di pensare con la nostra testa convocando la coscienza, che non si delega a nessun legislatore.
Gesù stesso sembra contraddirsi: afferma l’inviolabilità della legge e ne trasgredisce il precetto più grande, il riposo del sabato. Ma ogni sua parola converge verso un unico obiettivo: andare dentro al cuore della norma, verso il suo senso più profondo.
Non è né lassista né rigorista, Gesù; non è più rigido o più accondiscendente degli scribi; fa un’altra cosa, prende la norma e la porta avanti, le fa fare un salto di qualità, la fa schiudere come un fiore in due direzioni decisive: la linea del cuore e la linea della persona.
La linea del cuore: Fu detto: non ucciderai; ma io vi dico: chiunque si adira col fratello, cioè alimenta rabbie e rancori, è omicida dentro. Non amare qualcuno è togliergli vita; non amare è un lento morire.
Gesù va dritto al laboratorio dove si forma ciò che uscirà fuori come parola e gesto, e indica: ritorna al tuo cuore, alla sorgente, alla radice che genera vita o morte, e guarisci lì. Solo dopo potrai curare la tua vita. E non giurare affatto! 
Dal divieto del giuramento, Gesù punta al divieto della menzogna: dì la verità sempre, e non ti servirà giurare.
La linea della persona: Se guardi una donna per desiderarla sei già adultero … Non dice: se tu desideri una donna o se tu desideri un uomo. Non è il desiderio ad essere condannato, poiché egli è un servitore necessario alla vita. Ma quel viscido ‘per’, vale a dire quando ti adoperi con gesti o parole per manipolare l’altro, quando trami per ridurlo ai tuoi scopi, tu compi un reato contro la sua profondità e dignità, perché alteri, falsifichi, manipoli la sua bellezza. Sappi che rubi a Dio la sua icona! Gli rubi il suo sogno!
Le persone non sono per questo, esse sono abisso e cielo, profondità e vertigine, pezzetti di divinità lungo la strada, angeli di sconvolgimento e pace.
Il reato allora non è contro la morale, ma un delitto contro la persona e la sua dignità. 

Cos’è la legge morale? Ascolti Gesù e capisci che per lui la norma è a servizio e a salvaguardia della vita, custodia di ciò che fa crescere o diminuire in umanità, coltivazione e fioritura dell’umano.
Allora il Vangelo non è impossibile, è facile! Facile e felice anche quando dice parole da vertigini. E non aggiunge fatica, non cerca eroi, ma uomini e donne veri che passino dalla legge alla persona, e dalla religione dell’apparire a quella dell’essere.



mercoledì 3 maggio 2017

ALLA RISCOPERTA DELLE VIRTU' "CAVALLERESCHE"

Il codice virile
Lo psicoterapeuta Marchesini: «Dove sono più i veri uomini?
La nostra è una società irresponsabile, in cui contano solo i “like”.
 Riscopriamo le virtù del cavaliere, di colui che è pronto a dare la vita per il bene degli altri»


Intervista di ANTONIO GIULIANO

Quando il gioco si fa duro, scendono in campo i veri uomini. Ma questa è una società di “mammolette”, tutt’altro che virile. Bombardati da modelli e messaggi effeminati, dell’uomo maschio se ne son perse le tracce. Abbondano invece i fifoni e i “mammoni” e anche il “macho”, il palestrato con tatuaggio, in realtà nasconde una personalità fragile e insicura. È un quadro impietoso ma documentato che Roberto Marchesini, psicologo e psicoterapeuta, ha già fatto emergere in un saggio controcorrente Quello che gli uomini non dicono (Sugarco). Da studioso consapevole della posta in gioco ha pensato bene di rilanciare il tema con un nuovo manuale impavido che punta in alto e fa riscoprire l’orgoglio agli uomini (ma di riflesso anche alle donne) della propria identità di genere: Codice cavalleresco per l’uomo del terzo millennio (Sugarco, pagine 144, euro 12,50).
Maschi si nasce (checché ne dica l’ideologia gender), ma uomini si diventa è il cardine del suo ragionamento. Però abbiamo smarrito la stessa etimologia del termine “uomo”.
«Esatto. Il greco lo definisce con due parole: anthropos e aner. Il primo indica l’essere umano di sesso maschile, il secondo l’uomo pienamente realizzato, l’eroe. Così i latini usavano homo e vir da cui virtus (la virtù) vis (forza) e virilitas (virilità). L’essere umano di sesso maschile nasce homo (o anthropos) e deve diventare vir (o aner) cioè forte, coraggioso, virtuoso. Il dovere connesso al nascere maschio è di diventare uomo, di realizzare quel potenziale donatoci al concepimento di diventare un eroe».
Perché non sentiamo più questo compito?
«L’umanità ha sempre abitato un mondo metafisico, nel quale la realtà non era limitata ai nostri sensi. Ogni donna e ogni uomo sapeva di avere un compito da realizzare, un progetto da compiere, dei ta- lenti da mettere a frutto. Ora viviamo in un mondo in cui non c’è un domani, un orizzonte, un fine: la vita è un eterno presente senza senso. Il problema è che una vita senza significato è, come diceva Viktor Frankl, una vita grigia, vuota, impossibile. E anche la ricerca spasmodica del piacere è una conseguenza dell’impossibilità di vivere una vita senza uno scopo».
A che cosa serve un codice cavalleresco?
«È una guida per l’uomo di oggi per riscoprire se stesso. Un compendio tutto fuorché “buonista”. Il cavaliere non è tale per nascita, ma per virtù, non ha privilegi, ma doveri, che egli accetta liberamente. Il cavaliere è generoso e domina le passioni senza farsi dominare perché le indirizza verso il bene.
È un uomo che teme più la vergogna e il peccato della morte stessa. Anzi sacrificare la propria vita per il bene degli altri è il suo destino, il suo compimento».
Lei ne fa una questione di onore, ma gli adulti oggi sembrano più attratti dai social network.
«L’onore non coincide con la reputazione. L’onore dipende dalle virtù della persona, non da quello che altri pensano di lei. Le due cose non coincidono anzi spesso sono in antitesi. “Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi” dice il Vangelo. E in effetti Gesù che incarnava ogni virtù, non godeva di ottima reputazione. La nostra società senza onore - è basata sulla reputazione. Come dimostra il successo dei social, dove agisce il meccanismo perverso dei “like” o dei “followers”. Di avere cioè l’approvazione degli altri anche se estranei. Ma chi elemosina approvazione da chiunque è generalmente una persona molto insicura».
               In questa crisi del maschio, a farne le spese più di tutti oggi è la figura del padre.
«È il grande assente. E difatti la nostra società, materna, iperprotettiva, ci induce a essere timorosi. È la mamma che dice: “Non farlo, che ti fai male”, “È pericoloso”; è invece il padre che ci incoraggia a rischiare, a osare, a lasciare le sottane materne per prendere il largo nel pericoloso mondo. La vita è rischio e la nostra civiltà è stata costruita da coraggiosi, non da vili. Ma oggi prevale il lamento o l’assicurazione che non si avranno conseguenze. Siamo circondati da persone che vogliono avere rapporti sessuali ma non la gravidanza, vogliono avere figli ma devono essere sicuri che saranno sani e belli. E poi sempre a scaricare la responsabilità sugli altri: “Mio figlio è un bravo ragazzo prendetevela con i veri delinquenti”… Stiamo allevando una società di irresponsabili».
Tra le virtù del codice c’è la lealtà…
«Ormai scomparsa. Basta vedere la crisi del matrimonio. Il tradimento (considerato ormai fisiologico) e il divorzio non sono altro che una rottura del giuramento, una slealtà. “Se le cose vanno male” - si obietta - “perché restare insieme?”. Perché si è promesso e le promesse si fanno per quando le cose vanno male, altrimenti non ci sarebbe bisogno di promettere. Ma si sa la fedeltà ha un prezzo e oggi nessuno è educato a pagare per le proprie scelte».
Perché lo sport è un’ottima palestra di virtù?
«Chi ha fatto sport sa che l’avversario è quello che abbiamo dentro di noi: paure, insicurezze, limiti. Colui che abbiamo davanti ci dà l’occasione di superare le nostre fragilità. Nello sport non importa vincere o perdere, ma come si vince e come si perde. La storia (vera) di Rocky Balboa lo dimostra ».
Un eroe anche del cinema, come Braveheart o Batman…
«Sono modelli. Batman è uno che combatte il crimine a mani nude, e senza uccidere mai nessuno; indossa la maschera non per viltà, ma per proteggere chi gli sta vicino. È il Cavaliere Oscuro. Un cavaliere, perché il suo destino è quello di morire combattendo il male. Oscuro perché non esita a sacrificare la propria reputazione, ad accettare di essere deriso e calunniato per il bene delle persone che gli sono affidate».
Un’arma potente è l’educazione.
«La nostra civiltà è stata costruita sul potere delle storie: dai poemi omerici, alle chanson de geste, alla letteratura per l’infanzia, alle storie della Bibbia. Noi stessi del secolo scorso abbiamo capito cos’era un uomo leggendo Sandokan, Michele Strogoff, L’ultimo dei mohicani ... Ma adesso non raccontiamo più nulla ai ragazzi: gli diamo in mano un tablet, uno smartphone perché non diano fastidio. Riprendere in mano questo patrimonio millenario di storie è la chiave per dare ancora un orizzonte a milioni di uomini e donne».


Tratto da www.avvenire.it