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domenica 28 luglio 2024

INTELLIGENZA ?

 Si fa presto a dire intelligenza

L’intelligenza umana si è scoperta evolutivamente contigua a quella vegetale e animale ed è essa stessa plurivoca. La sfida odierna è pensare che l’intelligenza artificiale, il più impressionante prodotto di quella naturale, debba ormai servire da modello per interpretare anche la mente degli umani e dei viventi in generale

 

-      -   di COSTANTINO ESPOSITO

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Mai come oggi, essere “intelligenti” è davvero un problema. Credevamo di sapere, per esperienza diretta, che cosa significasse, ma ormai l’intelligenza deborda progressivamente in avanti rispetto a noi, con i prodotti smart generati da un algoritmo intelligente. Non solo: essa deborda anche all’indietro rispetto a noi, esseri coscienti, indotti come siamo a riconoscere una particolare intelligenza anche al polpo o al lichene, e in generale al sistema incredibilmente complesso e meravigliosamente architettato della vita fisica e biologica. Con la conseguenza che proprio il fattore che ci aveva reso per secoli il centro dell’universo, ora sembra decentrarci ogni giorno di più: una sinapsi particolare, un passaggio transeunte nella grande rete intelligente del mondo. Un capovolgimento che per portata e conseguenze si può forse paragonare alla rivoluzione copernicana in astronomia, quando si scoprì che le leggi del mondo celeste erano le stesse del mondo terrestre. Su questa situazione si parla di continuo e dappertutto, avendo come estremi da un lato coloro che lamentano la perdita del carattere specificamente umanistico e teleologico dell’intelligenza, dall’altro coloro che sono impegnati a ripensare la stessa intelligenza umana come una pura procedura di calcolo. Ma sono due posizioni astratte, che mancano entrambe l’obiettivo di capire cosa sta succedendo oggi agli esseri dotati di intelligenza e di accettare la sfida per poterci riappropriare del suo significato e delle sue funzioni. Per questo oggi è arrivato (o è tornato) il tempo di chiedersi: che significa essere intelligenti? Più oggettivamente: che cos’è e come agisce un essere dotato di intelligenza? Non possiamo infatti limitarci ad attribuire la funzione intelligente ad un essere, senza cercare di capire in che modo l’intelligenza costituisca o possa costituire la natura o l’azione propria di quell’essere.

 Le intelligenze

Come dicevamo, questa qualifica è stata riconosciuta nella nostra lunga storia naturale e culturale, come la caratteristica di tutta una serie di esseri, non solo coscienti ma anche semplicemente viventi, e oggi anche di dispositivi puramente artificiali come le macchine. Dalle intelligenze angeliche che muovono i cieli alle anime razionali incarnate nei corpi sensibili; dalle anime vegetative che muovono internamente il ciclo della crescita degli enti di natura, come le piante e gli animali, fino a quello spirito (chiamiamolo ancora così) artificiale che è il codice algoritmico, quello che fa girare la rete virtuale del mondo. Di fronte a questa varietà potremmo accontentarci semplicemente di distinguere natura, funzioni e ruoli delle diverse intelligenze. Ma questo finirebbe per raddoppiare il problema, piuttosto che risolverlo. Infatti, “chi” è che dal di fuori o al di sopra di un territorio così diversificato può tentare uno sguardo d’insieme? Chi può distinguere e separare i diversi esseri intelligenti, e chi può connetterli tra loro? Quando si parla dell’intelligenza non è come parlare solo di un tema o di un “oggetto” da definire. Possiamo e dobbiamo farlo, certo. Ma resta il fatto non scontato che, parlando dell’intelligenza, noi stessi, i parlanti, al tempo stesso stiamo usando l’intelligenza. Come succede per ogni aspetto della vita degli “io” che noi siamo, il discorso può essere sempre alla terza persona ma inevitabilmente deve esserlo anche alla prima persona.

L’esperienza

Per questo è difficile parlare dell’intelligenza in generale senza tener conto dell’esperienza che noi stessi facciamo nell’essere intelligenti, e viceversa è difficile parlare dell’intelligenza umana senza confrontarla, incrociarla e verificarla con le intelligenze diverse dalla nostra. E questo non certo per ridurle tutte a quest’ultima (sarebbe una presunzione irrealistica), ma per il fatto che l’intelligenza si può e si deve comprendere insieme dall’esterno e dall’interno.

Come legare però questi due aspetti, quello dell’esperienza di un sé individuale e quello della descrizione di una funzione generale? Per diverso tempo si è creduto di poterlo fare grazie alla misurazione dell’intelligenza attraverso dei test. Dalla psicologia alla computer science, l’intelligenza coinciderebbe con una prestazione di cui è possibile esibire un “quoziente”. Pensiamo ad esempio alle seguenti misurazioni dell’intelligenza, adattabili sia agli umani che alle macchine: x è più o meno rapido nel calcolare; x ha una memoria di maggiore o minore estensione; x è sufficientemente o insufficientemente abile nel trovare soluzioni adeguate; x apprende con grande o con scarsa facilità, anche dai suoi errori ecc.

 Misurare l’intelligenza

Questo modo di affrontare il problema lascia inevasa però la questione se l’intelligenza sia qualcosa di adeguatamente misurabile o se in essa siano presenti fattori che, per la loro stessa costituzione, non ricadono in una misura. O più radicalmente se non siano l’indice di un fenomeno non misurabile o incommensurabile, proprio come il rapporto pitagorico tra il lato e la diagonale del quadrato. Sta di fatto che da quando Alfred Binet, tra il XIX e il XX secolo, ha testato il Quoziente di Intelligenza ne è passata di acqua sotto i ponti, ed è cresciuta l’insofferenza verso questa idea di misurazione, arrivando ad una proliferazione di tipi diversi di intelligenza, non misurabili secondo un canone unico. Ad esempio, i sette famosi tipi di intelligenza di cui parla Howard Gardner (1983): intelligenza linguistica, musicale, logico matematica, spaziale, corporeo-cinestetica, intra-personale e interpersonale. Oppure la distinzione proposta negli stessi anni da Robert Sternberg, tra un’intelligenza analitica, una pratica e una creativa. O la proposta di un’“intelligenza emotiva” avanzata negli anni Novanta da Daniel Goleman.

 Intelligenza plurivoca

Dunque, l’intelligenza umana, oltre a scoprirsi evolutivamente contigua a quella vegetale e animale, diventa essa stessa plurivoca. Per questo gli studiosi hanno sempre cercato anche un filo conduttore che possa assicurare un minimo di continuità nelle differenze. Prendiamo a prestito la definizione canonica di Gardner: «un’intelligenza è la capacità di risolvere problemi, o di creare prodotti, che sono apprezzati all’interno di uno o più contesti culturali». Successivamente (2007) Shane Legg e Marcus Hutter stabiliscono come significato universale di intelligenza, quello di un’abilità nel raggiungere determinati obiettivi in ambienti diversi, sulla base della capacità di apprendimento e di adattamento. In altri termini, ancora la capacità di problem solving. Una definizione, questa, che ambisce a essere universale perché lega esplicitamente in continuità l’àmbito psicologico e l’àmbito informatico. Fino a invertire la rotta: pensiamo a Stuart Russell e Peter Norwig che nel 2020 partono da un significato “artificiale” di intelligenza come paradigma per definire qualsiasi tipo di intelligenza. In sintesi, l’intelligenza sarebbe formalizzabile come la capacità di “fare la cosa giusta” nel proprio ambiente. Essa è la rational agency degli “esseri intelligenti”, e può essere sintetizzata così: sentire, capire, valutare, agire, conseguendo un buon risultato, anzi un buon punteggio, nella performance finale. Ecco la sfida odierna: pensare che l’intelligenza artificiale, il più impressionante prodotto performante dell’intelligenza naturale, debba ormai servire da modello per interpretare, a ritroso, anche l’intelligenza degli umani e dei viventi in generale (secondo il modello della macchina di Turing). Non solo la vita ma anche la coscienza sarebbe così codificabile in senso algoritmico.

Ma questa lettura retroattiva permette di rendere conto, calcolandole, di tutte le capacità dell’intelligenza naturale? Se l’intelligenza è apertura al mondo, alla natura e agli altri esseri, fin dove può arrivare – intus legere, inter legere – la sua freccia?

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www.avvenire.it

 

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