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venerdì 21 marzo 2025

PHILOSOPHY FOR CHILDREN


PER UNA MENTE AUTONOMA 

E RIFLESSIVA

 

Presso il Collegio dei Gesuiti di Mazara del Vallo si è tenuto un incontro rivolto alle insegnanti dell'AIMC (Associazione Italiana Maestri Cattolici) incentrato sulla metodologia educativa e di ricerca della Philosophy for Children (P4C). L'evento è stato condotto dalle formatrici e insegnanti Antonella Santi (insegnante di scuola dell’infanzia e formatrice esperta del metodo P4C) e Valentina Roversi (filosofa e formatrice esperta del metodo P4C), che da anni si occupano in collaborazione con l’Università degli Studi di Padova, di promuovere la pratica del filosofare a scuola ed in altri contesti educativi. La Philosophy for Children è un approccio pedagogico sviluppato dal filosofo ed educatore statunitense Matthew Lipman alla fine degli anni '70. Lipman, insoddisfatto delle tradizionali metodologie educative, ha ideato la P4C con l'obiettivo di stimolare nei bambini la capacità di ragionare in modo critico, creativo e collaborativo, trasformando la classe in una comunità di ricerca in cui il dialogo e la riflessione collettiva sono al centro del processo di apprendimento. Questo metodo si basa sull'idea che il pensiero filosofico non sia riservato solo agli adulti, ma possa rappresentare un potente strumento educativo sin dall'infanzia.

Lipman riteneva che l'educazione dovesse andare oltre la semplice trasmissione di nozioni e puntare allo sviluppo di una mente autonoma e riflessiva. Il suo metodo si è dimostrato particolarmente efficace anche nella scuola dell'infanzia, dove il dialogo filosofico viene facilitato attraverso l'uso di racconti e narrazioni capaci di stimolare nei bambini domande profonde e significative. Attraverso la P4C, anche i più piccoli imparano a confrontarsi, a rispettare le idee degli altri e a sviluppare un pensiero critico in modo naturale e coinvolgente. I bambini e le bambine hanno bisogno di momenti quotidiani dedicati al dialogo per imparare a riflettere sulla propria esperienza.

Il programma ha previsto un inquadramento contestuale e teorico del curricolo di Philosophy for Children, sviluppato negli Stati Uniti alla fine degli anni '70 da Lipman. La P4C è una metodologia che stimola i bambini/ragazzi a prendersi cura del proprio pensiero, attraverso il dialogo, la condivisione di idee ed il gioco, all’interno di una comunità di ricerca.

Le formatrici hanno illustrato le caratteristiche principali di questa metodologia, soffermandosi sulle fasi essenziali di un'esperienza pratica di P4C. Tra gli aspetti approfonditi, particolare attenzione è stata dedicata all'attività di sintonizzazione, fondamentale per predisporre i partecipanti al dialogo, e alla costruzione dell'agenda, che consente di organizzare il percorso di discussione in base agli interessi emergenti.

Successivamente, è stata spiegata la raccolta delle domande, stimolata a partire dagli spunti e dagli interessi della comunità di ricerca, seguita dalla fase di discussione filosofica vera e propria. Infine, il processo si è concluso con un'attività di autovalutazione, volta a riflettere sull'esperienza vissuta e sugli apprendimenti maturati.

Dopo questa spiegazione, le partecipanti all'incontro hanno vissuto in prima persona un'esperienza diretta di P4C, prendendo parte attivamente all'attività proposta.

L'entusiasmo con cui hanno partecipato ha reso evidente il valore di questa metodologia, mostrando concretamente come il dialogo possa essere utilizzato sia come metodo che come valore educativo a scuola.

Con questo incontro, ispirato al metodo Philosophy for Children, impariamo a creare con i bambini e le bambine spazi di conversazione e dialogo, seguendo un metodo di ascolto e di rispetto reciproco, avvicinandoci alle loro domande con un approccio educativo che sviluppa un pensiero complesso attento alla partecipazione: creativo, critico e caring. Alla base l’idea di scuola come comunità educante.

L'incontro ha rappresentato un'importante occasione di formazione e confronto per le insegnanti dell'AIMC, fornendo strumenti teorici e operativi utili per l'applicazione della Philosophy for Children nelle pratiche educative quotidiane.

In conclusione, come affermato da Matthew Lipman (Thinking in Education, 2003), "La filosofia con i bambini non consiste solo nel trasmettere conoscenze, ma nel suscitare il loro pensiero, stimolando la curiosità e l’autonomia", dimostra che l'educazione filosofica è fondamentale per sviluppare la capacità di riflettere, interrogarsi e affrontare la realtà con una mente aperta e critica.



mercoledì 16 agosto 2023

IN DIFESA DEL VUOTO

 


 Nel giorno in cui tutti ci affanniamo per fare qualcosa di divertente che ci faccia sentire vivi e completi una riflessione sull’importanza di mantenere uno spazio interiore che non è riempito da niente: è lì che nascono i desideri e la creatività.

-         di Vito Mancuso

                                  

 Alcuni tra i più grandi filosofi hanno sostenuto che l’inizio del pensiero umano prenda origine dalla comparsa improvvisa e meravigliata nella mente di questa domanda: «Perché c’è l’essere, e non il nulla?». Così affermarono Leibniz, Schelling, Heidegger. In questa giornata di agosto, tutto solo nel mio appartamento cittadino, con le strade deserte che regalano un irreale silenzio, io sento sorgere nella mente, con altrettanta repentinità e meraviglia, quest’altra domanda: perché c’è questo vuoto dentro di me?

 Prendo così a indagare la natura di questo mio vuoto interiore, rivolgendomi a esso come se fosse una cosa viva dentro di me.

 Caro vuoto interiore, ti chiamo “vuoto”, e non “nulla”, perché tu non ti contrapponi all’essere. Il nulla è non-essere, e se c’è lui è impossibile che vi sia l’essere, come decretò Parmenide agli inizi del pensiero occidentale: «L’essere è, e non può non essere; il non essere non è, e non può essere». Tu vuoto, però, non coincidi con il nulla e significativamente i fisici per descrivere la realtà primordiale parlano di “vuoto quantistico”, e dicono che, ben lungi dall’equivalere al nulla che è privo di energia, tale vuoto quantistico possiede una sua peculiare energia e lo descrivono come “stato di energia minima”. Da esso, dicono, talora si producono delle fluttuazioni da cui emergono particelle, e che fu proprio da una fluttuazione di questo tipo che prese origine l’universo. Per cui tutto, caro vuoto, nasce da te.

 Lo stesso accade a me: quando sono pieno, non scaturisce nulla di nuovo in me, solo ripetizione dell’identico, un “eterno ritorno dell’uguale”; è quando sono vuoto, quando prendi il comando tu, che in me può nascere qualcosa di nuovo, di creativo, di inatteso, di libero. Tu, vuoto, sei la condizione della mia creatività e della mia libertà.

 Attenzione però: il più delle volte tu agisci come una specie di motore che genera una spinta verso l’interno tendente a riportare tutto a te, sei un vortice che produce un continuo risucchio, una cavità, talora una voragine, da cui promana una tensione ininterrotta. Cosa sono quindi io che ti porto nel mio centro?

 Ho peculiarità di tipo fisico come la statura eretta, la neocorteccia, il codice genetico; ne ho di tipo psichico come le emozioni, i sentimenti, le passioni; ne ho di tipo intellettivo, come l’intelligenza analitica e la ragione sintetica. Tutte queste caratteristiche, però, non sono tali da rinchiudermi in una definizione esaustiva perché vi è in me qualcosa di ancora più essenziale: ci sei tu. Presente nel mio fondo, a causa tua io risulto strutturalmente non-finito, indefinito, imprevedibile e quindi creativo. Tu fai sì che la mia peculiarità consista nella singolare possibilità di essere e, insieme, di non essere il mio corpo, i miei sentimenti, il mio intelletto. Tu mi offri la possibilità di identificarmi con le mie proprietà fondamentali oppure di prenderne le distanze, così che posso risultare unificato oppure scisso, sentirmi a casa dentro di me oppure viceversa in esilio.

 Da te, vuoto, procede la mia tensione psichica detta desiderio, generata da te per il tuo bisogno strutturale di essere riempito. Spinoza identificava l’essenza specifica degli esseri umani nel desiderio (“Cupiditas est ipsa hominis essentia”), ma è chiaro che si può dare desiderio solo perché prima si sente il bisogno di qualcosa, e se ne sente il bisogno perché se ne è privi. Quindi all’origine c’è la privazione, la mancanza; ci sei tu, caro vuoto.

 Come ho detto, tu agisci in me come un motore tendente a riportare tutto a sé, e quello che vale per me lo vedo all’opera anche nei miei simili, tutti più o meno abitati da questa tensione che non li fa stare tranquilli con se stessi. Osservava Pascal: «Ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa: dal non saper restarsene tranquilli, in una camera». Proseguiva il matematico e filosofo francese: «Non si rendono conto della natura insaziabile della loro cupidigia. Credono sinceramente di cercare il riposo, ma cercano soltanto l’agitazione. C’è in loro un istinto segreto che li porta a cercare fuori di sé la distrazione e l’occupazione».

 Tutto questo deriva da te, caro vuoto. Tu sei la trappola strutturale in cui siamo nati e con cui dobbiamo convivere fino alla morte, dopo chissà. Per questo ti voglio regalare una delle più belle definizioni di religione, opera del matematico e filosofo inglese Alfred North Whitehead: «Religione è ciò che l’individuo fa della propria solitudine». Solitudine è un altro nome per te, caro vuoto, e in questo senso essere religiosi, ben lungi dal professare dottrine stabilite anticamente da altri e dal partecipare a riti celebrati da altri, significa viverti come sentimento di essere alla presenza di qualcosa o qualcuno più importante di me. E significa capire ciò che afferma sant’Agostino rivolto al suo Dio all’inizio delle Confessioni: «Ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te».

 In questa silenziosa e vuota giornata di agosto di una città deserta, riflettendo su di te, caro vuoto, ho capito che la verità di me dipende da te: da come ti tengo pulito, da come ti curo e ti proteggo da tutti i ciarlatani che continuamente mirano a riempirlo con mille seducenti, e per loro lucrose e convenienti, suggestioni. Ti devo custodire dalle erbacce che sempre tendono a insidiarsi in te come se tu fossi un giardino, anche perché tu per davvero sei il mio giardino, il terreno da cui fuoriescono i miei fiori e i miei frutti, cioè il mio pensiero e la mia volontà. Se saprò coltivarti, resistendo alla tendenza a riempirti a tutti i costi pur di non sentire il tuo risucchio, avrò ottenuto l’indipendenza spirituale. E come insegna Montaigne: «La più grande cosa del mondo è saper essere per sé».

 La partita della vita si gioca dentro di me, alle prese con te, caro vuoto. Per questo sempre Montaigne insegna: «Bisogna riservarsi un retrobottega tutto nostro, del tutto indipendente, nel quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine». Se ti manterrò pulito e terso, tu cesserai di agire come un vortice da cui proviene un continuo risucchio e diverrai il mio rifugio più sicuro. È l’insegnamento di tutte le grandi tradizioni spirituali, induismo e buddhismo, confucianesimo e taoismo, ebraismo, cristianesimo e islam, e ovviamente della grande filosofia classica sintetizzata così da Marco Aurelio rivolto a se stesso: «Ricordati che il tuo principio direttivo diventa invincibile quando, rinserrato in se stesso, si contenta di sé e non fa niente che non voglia. La mente libera da passioni è una fortezza: l’essere umano non ha niente di più forte dove rifugiarsi ed essere sempre inespugnabile».

 Acquisire la pratica di convivere con te significa imparare a stare fermo sul mio abisso, a guardare il cratere del mio vulcano interiore, a stare in ascolto, a zittire la mente, a udire il suono del mio silenzio. È questo il lavoro giusto da fare. A partire da questa giornata di agosto, con le strade deserte che quasi sorridono per il loro surreale silenzio.

 La Stampa

sabato 24 giugno 2023

IL TEMPO DELL'ATTESA


 Crepet: “Abbiamo insegnato ai giovani a vivere in un mondo che corre, non ad aspettare”

“Un omaggio all’attesa nell’epoca di Whatsapp”. Così lo psichiatra Paolo Crepet ha definito la traccia proposta per l’esame di maturità, ispirata a un articolo del critico letterario Marco Belpoliti.

 “C’è un tempo per ogni cosa, e non è mai un tempo immediato”. E subito dopo si pone – e ci pone – un interrogativo: oggi, nell’era di WhatsApp, del botta e risposta, “chi ha tempo di attendere e di sopportare la noia?”.

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Crepet vede l’attesa non come un ostacolo, ma come un’acquisizione preziosa della mentalità romantica, un concetto che risente di un’evoluzione moderna.

 L’accelerazione, l’urgenza di efficienza, sono influenze profonde dell’era tecnologica sulla mentalità contemporanea. “Abbiamo insegnato ai giovani a vivere in un mondo che corre, non ad aspettare” sostiene Crepet. E cita la transizione dalla penna stilografica alla macchina da scrivere come esempio di questa evoluzione costante verso la rapidità, al costo della lentezza meditativa di un tempo.

 Non è solo una questione di tecnologia, argomenta Crepet, ma un cambiamento nel cuore del nostro modo di vivere. L’attesa, valorizzata durante l’epoca del Romanticismo, è stata sostituita da un bisogno d’immediatezza nel presente. E non si tratta solo di rapidità, ma di sacrificare la qualità sull’altare della velocità.

 E cosa significa tutto ciò per i giovani di oggi? Crepet sottolinea la difficoltà che i ragazzi hanno nel comprendere il valore dell’attesa, una competenza che hanno perso nel mare dell’immediatezza. Crepet ricorda un’esperienza in cui insegnava a dei bambini a rallentare, un’esperienza sia gioiosa che dolorosa, in quanto i bambini faticavano a sottrarsi al ritmo frenetico della loro vita quotidiana.

 Crepet osserva che il concetto di attesa è diventato contro natura in un mondo che ci chiede di correre continuamente. “Non lo sopporteremmo, e non solo per una questione fisica, ma per una questione di disponibilità mentale”. E lamenta la perdita dei tempi di attesa, simboli della nostra cultura, come il gioco di carte nei bar, ora considerati un lusso che non possiamo permetterci.

 Orizzonte Scuola

domenica 22 agosto 2021

IL SILENZIO: COMUNICAZIONE EFFICACE

“Il silenzio è la lingua di Dio ma anche il linguaggio dell'amore. …. Tutti abbiamo bisogno del silenzio per scoprire l’altro, umano o divino che sia. È un linguaggio necessario. Quando due persone si vogliono veramente bene, riescono a trasmettere il loro amore anche solo guardandosi negli occhi, avvicinando i loro volti. Non parlano. Ma quella comunicazione misteriosa, fatta appunto di sguardi, genera vita, voglia di stare insieme, condivisione di un pezzo di strada” (Papa Francesco).



 “Abbiamo due orecchie ed una sola bocca”, scommetto che forse hai già sentito questa frase altrove, è una banalità che però spiega molto bene l’importanza dell’ascolto. E l’ascolto può avvenire solo se stai “in silenzio”, una cosa che oggi si nota sempre più raramente tra le persone, che tendono a parlarsi sopra ecc. Il silenzio “dentro e fuori” Come hai avuto modo di sentire il silenzio di cui parliamo oggi non è solo quello “vocale” ma è anche un silenzio interiore, questione che abbiamo già trattato parlando del bellissimo Thích Nhất Hạnh. Ma tecnicamente tutto inizia con il rendersi conto che restare in silenzio è terribilmente difficile soprattutto durante le conversazioni con le persone che conosciamo. Perché, conoscendole, ci sembra di sapere dove vogliono andare a parare, ci sembra di anticipare i loro discorsi e quindi tendiamo ad anticipale. Questo è solo uno dei motivi per cui “odiamo il silenzio”. 
Un altro motivo è legato all’immagine che vogliamo proiettare sugli altri. Sembra infatti che le persone silenziose siano “incapaci di comunicare”, incapaci di rispondere. Il silenzio genera in molti questa sensazione, quella di non essere all’altezza della conversazione, quella di dover riempire tutti gli spazi vuoti senza lasciare spazio a dubbi. 
La verità è che “senza spazi vuoti”, senza silenzio non esiste comunicazione. Parlare di continuo è un po’ come suonare uno strumento senza fare alcuna pausa musicale. Un po’ come quando stai imparando una lingua straniera e all’inizio non riesci a distinguere le singole parole, ti è mai capitato? Infatti uno dei trucchi per apprendere una lingua è quello di ascoltarlo prestando attenzione all’aspetto paraverbale, cioè alle pause e alle intonazioni più che al significato delle singole parole. La prossima volta che ascolti una lingua straniera che conosci poco, concentrati sulle pause e sulle intonazioni, dopo poco ti sembrerà di comprenderla meglio. Se le parole e i gesti sono le due peculiarità della comunicazione umana, allora di certo i suoi aspetti ancora più essenziali sono “il suono ed il silenzio”. 
Potremmo scrivere un libro su questa dicotomia perché vale praticamente ovunque nel nostro mondo: luce ed ombra, figura e sfondo, suono e silenzio. E’ in questi opposti che si radica la nostra percezione della realtà. L’immagine del silenzio Oggi una persona silenziosa non è proprio l’immagine del leader, dell’uomo moderno che sa affascinare tutti con le proprie parole, quell’immagine di carisma di cui ci siamo occupati nella scorsa puntata. La gente viene nel mio studio e mi chiede: “Voglio imparare a rispondere adeguatamente al mio capo” oppure al “bar con gli amici” ecc. Nessuno mi ha mai detto “voglio imparare a stare in silenzio”. Perché l’immagine di successo attuale è quella di chi “parla, parla e parla” e non di chi “ascolta e ascolta”. Eppure posso assicurarti che chi sa davvero comunicare sa anche gestire bene questi due aspetti. 
Parlare e ascoltare sono ancora una volta  facce della stessa medaglia. Se parli sempre senza ascoltare ad un certo punto la gente se ne accorgerà e smetterà anche di ascoltare te. “Dare per ricevere” è una delle regole fondamentali della condotta umana. Se non doni ascolto e attenzione al prossimo prima o poi nessuno lo farà anche con te. La forza del silenzio Se ricordi nella puntata dedicata alla negoziazione abbiamo visto che all’interno delle strategie più potenti è sempre presente “il silenzio” e la capacità di ascolto. Chiunque svolga un lavoro di negoziazione, di vendita di mediazione sa perfettamente che il silenzio ha una forza dirompente. Sa bene quando è il momento di chiudere la bocca e ascoltare. Provaci davvero, se sei una persona che desidera riempire tutti gli spazi, sforzati di restare in silenzio e sarai sorpreso dall’effetto incredibile di questo “spazio”. Inoltre la ricerca ha provato che chi si prendere “il suo tempo” durante le conversazioni in realtà non veicola un’immagine debole, come siamo portati a pensare. Ma in realtà è come se “si prendesse più spazio”, proprio come quando ti viene detto di “occupare spazio fisico” durante le interazioni per dare un senso di padronanza della situazione. La presenza E’ chiaro che tutto questo discorso ha molto a che fare con la nostra cara “presenza” cioè con la capacità di osservare il momento presente senza giudicarlo e senza reagirvi. Sono infatti i nostri “pensieri” uno degli ostacoli più grandi alla capacità di restare in silenzio. E’ una abilità straordinaria quella di riuscire ad anticipare i discorsi degli altri ma non è sempre utile farlo. Mentre leggi queste parole una parte di te sta anticipando ciò che sto per scrivere, è del tutto normale. 
Il nostro cervello è essenzialmente una macchina che fa previsioni sulla realtà. Quando parliamo con le persone, soprattutto se le conosciamo bene, abbiamo come l’impressione che ci stiano dicendo “sempre le stesse cose”, e magari in parte è un po’ così. Ma la verità è che noi utilizziamo spesso un numero ristretto di parole e di argomenti, è normale pensare di riconoscerli tutti ma se ti sforzi a restare un po’ di più in silenzio, scopri che le parole hanno sempre significati leggermente diversi e nuovi. Il potere che ci consente quasi “di leggere la mente” degli altri è incredibilmente positivo quando è una buona mentalizzazione ed incredibilmente dannoso quando non la è. Mentalizzare non significa anticipare Quando una persona è in grado di mentalizzare significa che è capace di tenere conto della mente delle altre persone, ne abbiamo parlato diverse volte durante questi anni. E’ qualcosa di molto simile al concetto di “empatia” ma che lo travalica perché non si tratta solo di sentire ciò che potrebbe sentire l’altro ma anche di capire, c’è una componente cognitiva. Questa “componente” è quella che ti consente anche di comprendere che la tua mentalizzazione è solo un’ipotesi su cosa sta pensando l’altro e non una assoluta verità. Se la mentalizzazione fosse “assolutamente certa” non sarebbe tale, ma sarebbe una lettura nel pensiero, qualcosa di psico-magico che di tanto in tanto ci riesce ma che a poco a che vedere con una buona comunicazione. 
Un bravo comunicatore sa che le proprie idee sull’altro sono “solo idee” e che dovrà adattare il proprio discorso in base a ciò che accade “qui ed ora” e non alle sue aspettative. Il silenzio come presenza Se ci pensi bene non puoi stare a lungo in silenzio durante una conversazione, o meglio se stai in silenzio ma sei assente non puoi sostenere la comunicazione. Perché o sei completamente dissociato, cioè talmente distratto da non ascoltare ciò che ti dice il prossimo oppure lo stai ascoltando attentamente. La tendenza a scappare nei pensieri è del tutto normale ma anomala. Prova a passare 20 minuti con un amico e sforzati di non ascoltarlo restando in silenzio. Di certo dopo poco inizierai a sentirti strano, inizierai a notare che lui sta notando la tua “assenza”. Lo so che è normale perdersi pezzi di comunicazione perché si sta pensando ad altro, ma se ci sforziamo di restare in silenzio come “metodo” sicuramente ci rendiamo conto di questa differenza. 
Il silenzio comunica, comunica spazio ed apertura. Guardare negli occhi il tuo interlocutore senza ascoltarlo non solo è inutile e porta alla chiusura della conversazione, ma è anche quasi impossibile! L’intenzione del silenzio Per cui se intenzionalmente stai un “po’ più zitto” ti accorgerai di una sorta di apertura naturale verso il prossimo. Basta poco, un attimo di pausa prima di dire la tua, anche quando vieni interpellato direttamente. Basta l’intenzione di lasciare uno spazio di silenzio, anche molto piccolo se sei come me, cioè impaziente di dare risposte all’altra persona. Prenditi una piccola pausa e noterai piccoli miracoli. Il silenzio Immagina un mio collega che non ha voglia di ascoltare il paziente, secondo te farà bene o bene a non ascoltarlo? E’ ovvio che da un punto di vista clinico farà molto male al paziente, ma a se stesso? La verità è che farà male anche se stesso, perché quelle parole (spesso di sofferenza) gli entreranno dentro senza che neanche se ne accorga. 
La presenza nella conversazione all’inizio “può far male” ma è anche una difesa. Forse è proprio questa una delle paure di chi parla di continuo senza lasciare spazio agli altri: quella di essere invaso a sua volta dalle persone dell’altro, proprio come fa lui. Per gli addetti ai lavori, è una sorta di proiezione. Meno pensi di essere ascoltato e più parli A meno che tu non sia particolarmente timido meno credi che gli altri siano disposti ad ascoltarti e più, non appena hai l’occasione (stra) parli. Cogli l’occasione per riuscire a dire anche la tua. Ecco sappi che questo atteggiamento oltre ad essere controproducente per la tua comunicazione, funziona un po’ come la profezia che si auto-realizza. Esempio: temo che gli altri non mi ascoltino, allora quando ne ho occasione urlo e parlo di brutto, questo irrita i miei interlocutori che daranno segnali (verbali e non verbali) di fastidio che confermeranno la mia ipotesi di partenza. Insomma ragazzi gestire il silenzio è un’abilità preziosa che richiede sforzo ed impegno, perché non siamo stati abituati a farlo se non in rare e circoscritte occasioni.