PER REALISMO
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di MAURIZIO AMBROSINI
In
chiaro affanno di fronte all’imprevisto aumento degli approdi, il governo ha
dichiarato lo stato di emergenza.
Avendo
seminato uno sconsiderato allarmismo rispetto agli ingressi dal mare, se lo è
visto ritorcere contro: se il problema è così grave, sorge spontanea la domanda
sulla capacità del governo di fronteggiarlo.
Ecco
allora la necessità impellente di comunicare il messaggio di aver preso in mano
la situazione, con strumenti adeguati a un fenomeno dipinto come gravissimo.
Ricordiamo
che stiamo parlando di 31.000 persone sbarcate in Italia al 12 aprile, di certo
molte di più che negli ultimi anni, ma con cifre paragonabili a quelle degli
anni centrali del passato decennio, quando gli sbarchi superavano quota 150.000
ogni anno. Per contro, nel 2022 in pochi mesi l’Italia ha meritoriamente
accolto circa 170.000 profughi ucraini, mentre il decreto-flussi per il 2023
varato dal medesimo governo dell’allarme sbarchi prevede oltre 80.000 ingressi
per lavoro: un meccanismo che peraltro notoriamente serve soprattutto a
regolarizzare persone già entrate e inserite nel lavoro, ma prive di documenti.
Dunque, assistiamo a una giostra delle emozioni, delle percezioni di gravità
dei fenomeni, delle risposte culturali e politiche da fornire. I numeri
c’entrano abbastanza poco, conta molto di più l’interpretazione dei numeri e la
loro trasformazione in minacce sociali oppure in flussi accettabili e
governabili.
La
dichiarazione di stato di emergenza è uno strumento a cui spesso i
governi ricorrono per assumere poteri straordinari e svincolarsi
da controlli e procedure ordinarie. Lo fanno di solito in caso
di calamità naturali, in cui devono affrontare situazioni di
pericolo per l’incolumità della popolazione e dei
territori, dando risposte urgenti a sfollati e
traumatizzati. Definire come emergenza l’arrivo di persone
dal mare in cerca di asilo, un fenomeno che con alti e bassi si
ripete da anni, è invece la certificazione del fallimento nel
governare questo tipo di flussi, insieme al rilancio di una
visione patologica della mobilità umana dal Sud al Nord del
mondo, non importa se motivata da guerre e persecuzioni.
Il
poco lusinghiero precedente è la proclamazione di un analogo stato di emergenza
da parte di un governo Berlusconi, niente meno che per gestire la presenza di
gruppi di rom nelle grandi città.
L’unico
aspetto positivo della vicenda è il piccolo stanziamento da cinque milioni di
euro che dovrebbero servire principalmente a rafforzare il sistema di
accoglienza: un sistema devastato dai decreti (in)sicurezza del 2018, firmati
Salvini, che hanno tagliato i fondi e soppresso molti dei servizi forniti alle
persone accolte, come i corsi d’italiano e l’assistenza psicologica. I governi
successivi hanno avuto il demerito di non essersi impegnati a riqualificare il
sistema, ma il calo dei numeri prima, poi l’emergenza Covid, infine la guerra
in Ucraina hanno offerto delle attenuanti.
Gran
parte delle strutture, soprattutto quelle più impegnate a fornire un’assistenza
qualificata, hanno dovuto chiudere per l’impossibilità di raggiungere un
equilibrio tra risorse e servizi necessari.
È
demagogico pretendere che un’accoglienza dignitosa possa essere garantita nel
tempo ricorrendo solo al volontariato o a operatori mal pagati. Ora forse si
riparte, con un governo obbligato a fare il contrario di ciò che hanno a lungo
predicato le forze che lo compongono. Per salvare faccia e identità, condisce
l’emergenza con immancabili annunci di nuove restrizioni sul diritto di asilo e
di improbabili incrementi delle espulsioni.
In
un Paese democratico e avanzato, l’accoglienza dei richiedenti asilo non
dovrebbe essere trattata come una ricorrente emergenza: lo ha giustamente
ricordato l’arcivescovo Giancarlo Perego, presidente della Fondazione
Migrantes.
Bisognerebbe
saper distinguere tre aspetti, confusi e drammatizzati dall’allarmismo
emergenziale.
Il
primo sono i salvataggi in mare delle persone in pericolo, da sottrarre alla
logica securitaria e all’infamante delega ai malconci (e non sempre benintenzionati)
dispositivi di soccorso, quando esistono e si attivano, dei Paesi della sponda
meridionale del Mediterraneo.
Il
secondo aspetto è l’accoglienza a terra di chi presenta una richiesta di asilo,
che dovrebbe essere semplicemente e immediatamente presa in carico, senza
infliggere code incivili di fronte alle questure, e trattata nell’ambito di un
sistema ordinario ed efficiente, da cui siano banditi i riferimenti alla
straordinarietà e all’emergenza.
Il
terzo punto è il passaggio all’autonomia, in cui si scoprirebbe che gli
sbarcati che tanto allarmano potrebbero rispondere, eventualmente con
investimenti formativi dedicati, proprio a quella domanda di manodopera che il
governo si ostina a mantenere separata dal sistema dell’asilo. E se si volesse
seguire il benemerito modello dell’accoglienza dei profughi ucraini, accordando
ai richiedenti asilo il diritto di libera circolazione sul territorio della Ue,
ci troveremmo probabilmente a rimpiangere il fatto che la maggioranza di loro
preferirebbe lasciare l’Italia per continuare il viaggio verso altre
destinazioni. L’ideologia degli allarmi e delle emergenze non è solo nemica dei
diritti umani, ma anche di un governo intelligente e pragmatico della mobilità
umana attraverso le frontiere.
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