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di Alessandro D’Avenia*
Il
giorno di pasquetta mi chiedevo se la resurrezione celebrata il giorno prima
riguardasse anche me, deluso da un bel maglione ricevuto a Natale che mostrava
già i primi pallini. Tutte le cose umane, prima o poi, vanno “a pallini”. Eppure,
anche se nulla riesce a soddisfarci, continuiamo a cercare, ascoltando
l’infinito richiamo che ci mette in moto: il desiderio. Il proprio del
desiderio è infatti non aver nulla di proprio, perché vuole l’infinito e mai
sarà colmato da un qualche finito o dalla somma di tantissimi finiti:
l’infinito vuole l’infinito. Il desiderio, mancanza che rende inquieti, è però
ciò che rende inesauribile ogni aspetto della realtà, ma purtroppo una cultura
che ripete “la vita fa schifo, non ci pensare, divertititi e consuma” (a immagini
del creato in rovina segue la pubblicità di un prodotto superfluo, a quelle di
povertà seguono piatti stellati a costi stellari) anestetizza il desiderio e
quindi la gioia. Il calo del desiderio erotico nella nostra società ne è un
esempio: se l’altro esiste come oggetto finito di consumo e non soggetto
d’amore infinito, il cuore si pietrifica. Il prezzo dell’erosione del desiderio
è altissimo, perché solo la sua insopprimibile pretesa di infinito rende la
vita una gioia, spingendoci a: scoprire e creare il nuovo, uscire da sé per
amare, mettersi in relazione con gli altri e il mondo. Tutto il contrario
dell’illusione egocentrica che “finisce” tutto e tutti, e poi “sfinisce” noi.
Come si fa allora a risorgere anche con il corpo, come si narra di Cristo?
Risvegliando
il desiderio attraverso la bellezza. Desiderio e bellezza appartengono allo
stesso ordine di realtà, che precede ragionamenti e quindi possibili inganni.
La bellezza è semplice: immerge il corpo in un mondo nuovo, a cui sentiamo di
voler appartenere e collaborare.
E
così quel lunedì di Pasqua, camminando nel bosco, sono arrivato in una valle
incastonata tra i monti a circa duemila metri, mi sono coricato su un prato
lasciato da poco dalla neve che, rimasta solo negli anfratti e sulle cime,
aveva forgiato attorno a noi una corona di ghiaccio. I crochi, fiori delle
altitudini, aprivano infinite iridi bianche e viola nell’erba muta e ingrigita
dal peso dei mesi invernali: corolle più modeste di quelle delle stesse
fioriture in maggio e giugno, ma non meno belle in quanto sentinelle intrepide
al primo risveglio. Gli alberi del bosco, pini, abeti, larici, erano immersi in
un silenzio diverso da quello invernale, un silenzio simile alla sospensione
che precede le prime battute di un concerto, un silenzio pieno di attesa e
fermento. La neve superstite era rimasta aggrappata ai tratti in ombra del
sentiero in lastre di ghiaccio che, al viandante distratto, paiono innocui
specchi d’acqua.
Questa
bellezza, propensione delle cose tra loro e dialogo delle cose con noi, traccia
la frontiera su un mondo fatto solo di verità e in cui, infatti, gli uomini
immergono i loro corpi, camminando, tenendosi per mano e dialogando tra loro
nella pausa festiva, spezzando così l’incantesimo mentale che a questa bellezza
gratuita crede meno che alla bruttezza a pagamento. Alla verità preferiamo la
virilità, eppure la prima è un dono, la seconda sottomissione. La verità è
semplice come il vento che si contendeva il mio viso con il sole: un equilibrio
di forze che, su quel prato, mi ha donato un sonno breve ma perfetto, capace di
ripulire la mia mente dalla tristezza e dalla rabbia di un corpo non risorto.
Quella bellezza, a cui il mio corpo si disponeva invece come l’astuccio più
adatto, mi ha ricordato che la verità non è mai dove il corpo viene torturato o
manipolato, la verità è solo dove il corpo risorge, dove la vita lo chiama alla
vita, gratis.
La
verità è nella lingua di bosco che si protende sulla distesa di neve fin dove
l’altitudine decide che le radici devono fermarsi, la verità è la neve che
filtra nello specchio puro di un lago che trema al vento tra le pendici… perché
la verità è la relazione indistruttibile e feconda tra le cose, il bene-bello
che tutte le abita e collega, e che solo noi umani siamo capaci di vedere e
custodire, ma anche di ignorare e ostacolare, creando contro-verità affette
dalla stessa deficienza: non uniscono le cose e le persone, le sottomettono, in
qualsiasi modo si dia il loro potere (fisico, politico, ideologico,
economico…). La vita si mostra con i legami, la morte con le catene.
Quei
crochi sono la verità, non doping emotivo contro la durezza del vivere, ma
dimostrazione che una vita custodita, compiuta, collegata è possibile. E
infatti al richiamo dei crochi risponde in noi il desiderio di un mondo da fare
al pari di quello che in loro è già ri-sorto, cioè sorto (di) nuovo. Come la
luce chiede alle piante la fotosintesi per esser trasformata in ossigeno, anche
la bellezza chiede al nostro desiderio di esser trasformata in azione. La bellezza
rende con-tenti (tenuti insieme) e incoraggia a pro-creare, come segnalano,
lungo il cammino, le opere di ignoti a cui siamo grati per il loro lavoro anche
se non sappiamo chi sono: i fienili ben incastonati nel paesaggio, i crocifissi
intagliati e piantati come alberi tra gli alberi, le raccolte d’acqua fresca
scavate nei tronchi, la chiesetta rustica in cui tutti, anche non credenti,
entrano in cerca di ciò che altri devono aver ricevuto per decidere di fare una
casa più bella, lì, nel nulla.
Questa
bellezza avviene nel corpo che, in relazione viva con le cose e le persone, si
scopre destinatario di doni che non deve accaparrarsi perché sono già suoi,
diventa corpo del mondo e corpo sociale, al contrario del corpo che si sente
vuoto perché privo di cose che in realtà non gli servono e alle quali, nel
tentativo di possederle, si sottomette. Il corpo è desiderio incarnato a cui le
cose chiedono di affidarsi, con-tenute e non de-tenute, libere non prigioniere,
per ri-crearsi nuove, come quei crochi che, finché fioriranno, non smetteranno
di dire la verità: se noi, brevi vite eterne, siamo ri-sorti, tu che aspetti?
Ho
aperto gli occhi, ero di nuovo vivo.
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