-
di Giuseppe Savagnone*
La
lettura dominante della guerra in Ucraina
L’attesa
telefonata del presidente cinese Xi Jinping al suo omologo ucraino Zelensky ha
riportato in primo piano il problema irrisolto delle prospettive di pace nella
guerra che da più di un anno infuria nel cuore dell’Europa. Una guerra, che,
malgrado il passare del tempo, non si è avvicinata di un passo a una sua
ragionevole soluzione, anzi sembra essersene allontanata sempre di più.
Cerchiamo di capire perché.
Secondo
la lettura largamente dominante – in Italia, come del resto in tutti i paesi
membri della Nato – la causa di tutto è la gratuita aggressione della Russia,
che rientra, peraltro, in un più ampio disegno imperialistico del dittatore
russo Putin, volto alla ricostituzione dei confini dell’ex Unione Sovietica. Di
questo piano era stato già un primo tassello il colpo di mano con cui Mosca si
era impadronita, nel 2014, della Crimea. Già allora era stato un errore, da
parte della comunità internazionale, non reagire a questa occupazione illegale.
Cedere ora anche sull’invasione del Donbass significherebbe ripetere l’errore
fatto dalle democrazie occidentali nel 1938, nella conferenza di Monaco, di
fronte all’escalation di Hitler.
A
rafforzare questa rappresentazione sono stati anche i gravissimi crimini contro
l’umanità perpetrati dagli invasori: torture e massacri (Bucha e varie fosse
comuni), deportazione di più di mille bambini ucraini in Russia, attacchi indiscriminati
a bersagli non militari). Da qui la necessità di isolare la Russia sia con una
serie di sanzioni economiche, sia sospendendola da tutti gli organismi
internazionali, come il Consiglio dei diritti umani dell’Onu, sia escludendo i
suoi atleti da ogni competizione sportiva e perfino sospendendo la
programmazione nei teatri di opere di autori russi. L’ultimo atto coerente ed
inevitabile di questa linea è stato il mandato di arresto spiccato dalla Corte
Penale Internazionale dell’Aia nei confronti di Putin.
In
questa logica l’unica pace possibile è quella che può essere raggiunta
sconfiggendo l’esercito russo. Perciò l’inesauribile attività diplomatica di
Zelensky si è concentrata esclusivamente sulla richiesta di armi sempre più
sofisticate per colpire gli invasori. Al posto della parola “pace” nei suoi
discorsi è stato sempre in primo piano quella “vittoria”. La prima meta può
essere infatti solo il frutto del raggiungimento della seconda.
L’interpretazione
minoritaria
La
tesi minoritaria, sostenuta tra gli altri dallo storico Franco Cardini, vede le
cose in modo opposto. Ad essere aggredita, malgrado le apparenze, è stata
proprio la Russia, costretta alla guerra sia per l’accerchiamento realizzato in
questi anni – violando esplicite promesse degli Stati Uniti – con l’estensione
a macchia d’olio della NATO, sia per le continue aggressioni nei confronti
delle popolazioni di etnia russa del Donbass da parte del battaglione Azov e
delle altre frange filo-naziste dell’esercito ucraino.
La
politica intollerante e nazionalista del governo ucraino si è svolta, peraltro,
con l’appoggio dell’Occidente e soprattutto degli Stati Uniti, i quali negli
ultimi anni hanno armato e addestrato l’esercito ucraino in vista del
prevedibile scontro con la Russia. Una prossimità che ha portato l’Ucraina a
chiedere di entrare anch’essa nella NATO, anche se provvisoriamente la
richiesta era stata respinta.
Davanti
a questo quadro Putin è stato costretto a scegliere tra una umiliante
acquiescenza – rischiando anche di essere delegittimato agli occhi dei suoi
sostenitori – e fare un atto di forza.
Da
qui lo scoppio di questa che si configura in realtà come una guerra per procura
“fino all’ultimo ucraino” contro la Russia, allo scopo di bloccare il suo
avvicinamento all’Europa, temutissimo dagli Stati Uniti, spezzando i legami
economici sempre più stretti che li univano, di isolarla internazionalmente e
di indebolirla militarmente ed economicamente.
La
pace richiede perciò l’interruzione della fornitura di armi all’esercito
ucraino, un’immediata sospensione delle ostilità e l’accettazione, da parte di
Zelensky, delle giuste richieste russe sulla Crimea e il Donbass, nonché
l’impegno dell’Ucraina a non entrare nella NATO e a diventare uno Stato
neutrale.
L’insostenibilità
della versione minoritaria
Entrambe
queste versioni contengono un’anima di verità, ma sono nel loro complesso
false. Vediamo perché, cominciando dalla versione minoritaria. Dipingere Putin
come la vittima di una trappola è contrario all’evidente intenzione del
dittatore di perseguire una politica di potenza che porti alla ricostituzione
dell’impero sovietico da poco dissolto.
Significativa
la sua dichiarazione all’indomani dell’invasione: «Non rinuncerò mai alla
convinzione che i russi e gli ucraini sono un solo popolo». Da qui anche il
rifiuto di chiamare “guerra” quella in corso – una guerra si fa fra due popoli
– e il ricorso all’espressione “operazione speciale”.
Ma
è proprio così? La strenua resistenza del popolo ucraino lo smentisce.
Peraltro, Putin nasconde il fatto che, fra il 1929 e il 1932, la popolazione
ucraina fu da Stalin sottomessa a una politica di collettivizzazione forzata
della terra, che provocò la morte per fame di quasi tre milioni di persone, il
cosidetto Holodomor, da holod (fame, carestia) e moryty, (uccidere affamare).
La violenza distruttiva con cui i russi stanno conducendo questa guerra rievoca
quella tragedia. E il mondo non poteva assistere passivamente a questo
scenario.
A
questo punto il pacifismo che risulta dalla posizione di chi misconosce tutto
questo è molto diverso dalla vera esigenza di pace. Agostino ha definito la
pace «tranquillità dell’ordine». Dove “ordine” implica innanzi tutto libertà e
giustizia. Senza di esse, lo si ridurrebbe a quello espresso nella famosa frase
dal ministro francese Sebastiani, nel 1831, dopo la spietata repressione russa
della rivolta polacca: «L’ordine regna a Varsavia».
I
limiti della tesi maggioritaria
Ma
anche la forza della tesi data da molti per scontata sta nell’avere isolato con
un fascio di luce i fatti del presente, lasciando nell’ombra la storia in cui
si inquadrano e che è decisiva per capirli. In principio c’è la crisi
dell’Unione Sovietica, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, col
crollo emblematico del muro di Berlino. Nel summit di Malta del 2-3 dicembre
1989 George Bush Sr assicurò a Michail Gorbaciov che, in cambio di un pacifico
ritiro della Russia, la coalizione non avrebbe esteso la sua presenza «neppure
di un centimetro a est dei confini della Germania riunificata».
Si
trattava di un accordo meramente verbale. Ma la sua esistenza è confermata
dalla testimonianza dell’allora ambasciatore statunitense a Mosca, Jack Foust
Matlock, in un’intervista rilasciata al
«Corriere della Sera» del 15 luglio
2007: «Quando ebbe luogo la riunificazione
tedesca noi promettemmo al leader sovietico Gorbačëv – io ero presente – che se
la nuova Germania fosse entrata nella Nato non avremmo allargato l’Alleanza
agli ex Stati satelliti dell’URSS nell’Europa dell’Est. Non mantenemmo la
parola».
Così,
nel 1999 Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca divennero a tutti gli effetti
membri della Nato. Nel 2004 fu la volta di quattro Paesi ex membri del Patto di
Varsavia: Romania, Bulgaria, Slovacchia e Slovenia, nonché di tre ex
repubbliche sovietiche, Lettonia, Estonia e Lituania. Nel 2009 aderirono
Croazia e Albania. Nel 2017 aderì il Montenegro. Nel 2020 la Macedonia del
Nord.
Basta
guardare la carta dell’Europa orientale per rendersi conto che quello che si è
verificato è un accerchiamento della Russia da parte dell’America e dei suoi
alleati.
Questo
quadro non poteva non allarmare il Cremlino e sollevare da parte sua forti resistenze davanti alla prospettiva
dell’ingresso nella Nato di un’altra ex repubblica sovietica, appunto
l’Ucraina. Nel dicembre 2021 Putin inoltrò ufficialmente al governo
statunitense una proposta di accordo sulla situazione ucraina. Senza risposta.
Anzi,
a proposito dell’accordo di Malta del 1989, il Segretario generale della NATO
Jens Stoltenberg replicò seccamente, circa un mese prima dell’invasione russa,
che «nessuno mai, in nessuna data e in nessun luogo, aveva fatto tali promesse
all’Unione Sovietica». E all’assicurazione del cancelliere tedesco che
l’ingresso dell’Ucraina nella NATO non era all’ordine del giorno non ha mai fatto
riscontro un’analoga garanzia – l’unica veramente decisiva – da parte degli
Stati Uniti.
Invece
della pace, un nuovo “ordine” basato sulla divisione
Sia
i ministri degli esteri di Russia e Cina, sia il presidente degli Stati Uniti
hanno parlato del delinearsi di «un nuovo ordine mondiale». Ma non è quello
della pace. Ciò che sembra destinato a caratterizzarlo è la fine del dialogo
tra le maggiori potenze che, pur con mille difficoltà e incomprensioni, aveva
segnato la fine della “guerra fredda”.
Ora,
invece, il mondo sembra destinato ad essere teatro della radicale
contrapposizione tra due blocchi di potenze – Cina e Russia da un lato, la NATO
dall’altro – in aspra lotta tra loro sul piano politico e, potenzialmente, su
quello militare.
Il
«nuovo ordine mondiale», rischia, così, di essere quello dell’odio e della
paura. E del resto sembra che a questa prospettiva ci si prepari anche in
un’Europa, di cui questa guerra ha rivelato – ma anche sancito – l’incapacità
di essere una realtà politica, e ai cui singoli membri resta solo di riprendere
una frenetica corsa agli armamenti sotto l’insegna della NATO.
Di
fronte a questi scenari inquietanti ritornano alle mente le parole di papa
Francesco: «Una guerra sempre, sempre, è la sconfitta dell’umanità». Questa
sicuramente lo è.
* Responsabile del sito
della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu .
Scrittore ed Editorialista
Nessun commento:
Posta un commento