- di Gianfranco Ravasi
- Elia nella
grotta sul Sinai, il “velo” che copre Gesù nel vangelo di Marco: due
sorprendenti icone scritturali del Logos. Giobbe sperimenta il mutismo di Dio,
sciolto solo nella visione. Ma l’assenza della voce assume la dimensione dell’epifania
anche nella tenebra. (Da “Luoghi dell’Infinito”)
La Bibbia è per
eccellenza Parola di Dio, ma è al tempo stesso “mistero”, vocabolo che ha alla
base il verbo greco mýein, che significa “tacere, chiudere le labbra” (ed è ciò
che accade quando si pronuncia questa parola). Recentemente è stato tradotto in
italiano presso l’editrice Qiqajon il volumetto di un pastore protestante
ultranovantenne, il francese Gérard Delteil, dal titolo emblematico, Al di là
del silenzio. Egli parte da una frase suggestiva di un poeta suo connazionale,
Edmond Jabès (1912-1991): «Dio è il silenzio che dobbiamo rompere». Infatti è,
sì, il Lógos, la Parola, ma è appunto anche “mistero”. Non per nulla ciò che
Giobbe scopre alla fine delle sue tante interpellanze lanciate a Dio è che il
vero dialogo con Lui avviene col transito a un’altra esperienza, quella della
visione che spegne le parole: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei
occhi ti vedono» (42,5). Prima, però, lo stesso Giobbe aveva sperimentato non
il silenzio ma il mutismo di un Dio simile a un imperatore impassibile relegato
nel suo cielo dorato. È quell’apparente indifferenza che ha sconcertato e
scandalizzato molti, anche teologi, di fronte alla Shoah, o davanti ai
cataclismi della natura.
Di questi volti
diversi del silenzio umano e divino, che può essere promessa e ferita, epifania
e tenebra, è arduo descrivere i vari lineamenti. Esplorando l’enigma del
silenzio, si incrocia appunto il crudo profilo del male che fa affiorare sulle
labbra della vittima il grido biblico a Dio: «Perché nascondi il tuo volto?».
Ma si dovrebbero inseguire anche altri registri inattesi, come quelli della
presenza nell’assenza, del silenzio grembo della Parola, dell’eros del tacere
(due innamorati veri, esaurite le parole, si guardano negli occhi senza nulla
dire, eppure quel silenzio è molto più eloquente di qualsiasi dialogo), della
fede da custodire soprattutto durante il vuoto della voce divina. Un capitolo
finale fondamentale rimane, però, quello sul «ritirarsi» di Dio che, creando la
persona umana, l’ha voluta dotata di libertà e responsabilità: a essa, artefice
di violenza e di sofferenze atroci nei confronti del prossimo, e non tanto a
Dio si dovrebbero rivolgere spesso tanti interrogativi laceranti sul male,
sulla violenza, sull’ingiustizia.
Una voce di
silenzio sottile
La prima scena
che scegliamo è descritta nel capitolo 19 del Primo Libro dei Re: un uomo
avanza solitario sulle pendici scoscese e pietrose del monte Sinai. Alle spalle
ha ancora il ricordo di giorni pieni di incubi, quando il potere repressivo lo
voleva far tacere non solo chiudendogli la bocca, ma anche cercando di
eliminarlo fisicamente. È Elia, il profeta, il cui nome è già un programma:
«Solo il Signore [Jhwh] è Dio». Non lo è Baal, la divinità che la regina
Gezabele, principessa fenicia di Tiro, seguita dal marito, il re Acab, vorrebbe
imporre al popolo ebraico.
Siamo nel IX
secolo a.C. nel regno settentrionale di Israele, distinto da quello di Giuda e
Gerusalemme, retto dai discendenti di Davide. A contestare la politica
religiosa e sociale, colma di prevaricazioni e di ingiustizie, di quella coppia
reale era rimasto soltanto Elia. Il profeta sta ascendendo verso la vetta ove
Israele era nato come popolo, il Sinai, in una sorta di pellegrinaggio alle
origini. Lassù Elia, che durante la marcia nel deserto era stato afferrato
persino dalla tentazione di lasciarsi morire, cerca di ritrovare la sua
vocazione profetica, precipitata nella crisi della solitudine e dell’ostilità.
Egli attende che il Signore gli parli.
Forse la voce
divina si nasconde nel «vento impetuoso e gagliardo, capace di spaccare i monti
e di infrangere le rocce. E invece il Signore non era nel vento. Dopo il vento
ci fu un terremoto; ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, ci
fu una folgore; ma il Signore non era neppure nella folgore» (1Re 19,11-12). È
alla fine che accade la grande sorpresa: l’originale ebraico di solito è
tradotto così: «Dopo la folgore, ci fu il mormorio di un vento leggero»
(19,13). Elia comprende che il vero Dio non è nel clamore, ma nella quiete, non
è nella vendetta, ma nella costanza paziente e, secondo la prassi sacrale, si
copre il viso perché − come dice la Bibbia − «nessuno può vedere il volto di
Dio e rimanere in vita» (Es 33,20). Tuttavia, quelle tre parole ebraiche, qôl
demamah daqqah, prese in sé, significano letteralmente “una voce di silenzio
sottile”. Dio è, sì, una voce, ma che ha il suo vertice nel silenzio, nel
mistero. Irraggiungibile e irriducibile a figure o immagini, egli è ineffabile
e invisibile, tant’è vero che il giudaismo non pronuncerà il suo nome,
affidandolo solo a quattro consonanti (Jhwh). Eppure, questo Dio silenzioso non
è muto, è attivo e rilancerà Elia nella sua missione di giustizia e di verità,
e il profeta in quel silenzio ritroverà la sorgente della vera parola che
giudica e che salva. Ritornerà, così, nel regno di Israele a far sentire di
nuovo con potenza la sua voce contro le ingiustizie e le apostasie.
Un velo in
attesa di essere alzato
Il secondo
quadro è occupato, invece, da una sequenza di versetti del più antico Vangelo a
livello cronologico, quello di Marco. L’evangelista ci conduce in una specie di
penombra qua e là squarciata da lampi che illuminano solo per un istante il
volto di Gesù, per poi farlo ripiombare in una tenue oscurità. Infatti Gesù,
predicatore e guaritore ambulante, impone il silenzio sulla sua persona agli
spettatori e ai destinatari dei suoi miracoli (1,44-45; 5,43; 7,36; 8,26);
proibisce di rivelare la sua identità profonda, per cui ai demoni che lo
riconoscono egli vieta di parlare (1,34; 3,11-12; 8,30; 9,9); stranamente i
discorsi più chiari che illustrano il senso delle sue parabole vengono
pronunciati da Gesù in disparte, solo nella cerchia dei suoi discepoli
(4,10-20). Eppure anche i discepoli rivelano in Marco una sorprendente
ottusità, costantemente ribadita dall’evangelista. Uno studioso tedesco,
William Wrede, nel 1901 escogitò una locuzione che ebbe successo: questa
oscurità intenzionale è il segreto messianico che Marco usa sistematicamente
nella prima parte del suo Vangelo per sottolineare che la vera identità di Gesù
non poté essere compresa durante la sua vita terrena ma solo dopo la sua
risurrezione e non tanto di un metodo adottato dal Gesù storico per svelare
progressivamente la sua realtà più intima e profonda. Sta di fatto, comunque,
che quello di Marco è il Vangelo delle epifanie segrete affidate ai silenzi di
Gesù.
A metà strada,
in 8,27-30, il velo che oscura il volto di Gesù è parzialmente sollevato dalla
confessione di Pietro che lo proclama come il Messia atteso: «Tu sei il
Cristo!». Non è ancora il volto di Cristo nella pienezza della divinità, come
invece suppone Matteo che, nella stessa dichiarazione, aggiunge a «Tu sei il
Cristo» la specificazione «il Figlio del Dio vivente» (16,16). È ancora un
profilo alonato di silenzio più che di parole gloriose. Subito dopo Gesù annunzia,
infatti, di non essere un Messia trionfale, come era nelle attese di Israele,
bensì un “Cristo” sconcertante, vittima e sconfitto, simile al Servo sofferente
del Signore cantato dal profeta Isaia: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non
aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di
fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (53,7). Solo sul patibolo
della croce si compie lo svelamento supremo del mistero di Gesù di Nazaret. Ed
è un centurione romano a definire l’identità segreta di Gesù Cristo: «Veramente
quest’uomo è Figlio di Dio!» (15,39). La risurrezione del Signore non farà che
suggellare questa proclamazione definitiva prima celata sotto il velo del
segreto e del silenzio.
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