per “questa” ora di lezione
La scuola prepara
per un viaggio inutile, che nessuno vuole fare. È il prezzo che si paga per
averla ridotta a meccanismo.
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di Valerio Capasa
Anche
sul muro della mia quinta campeggia un cartellone con i numeri decrescenti da
100 a 1. Ogni giorno una ragazza sale sulla sedia e ci mette una croce sopra:
62 61 60 59… A me, più che The final countdown, viene in mente Piove
di Domenico Modugno: “Ciao ciao mia alunna / un autore ancora / e poi per
sempre ti perderò”. E annego nel groppo in gola di questo “per sempre”: “E
fieramente mi si stringe il core, / a pensar come tutto al mondo passa, / e
quasi orma non lascia”.
Piace
sbarrare caselle anche agli insegnanti: autori, argomenti, capitoli, uno dopo
l’altro. Giorni, spiegazioni, verifiche: tutti si tolgono davanti qualcosa. Non
è già abbastanza che pagine, alunni e parole si cancellino da soli? Perché
mettersi a soffiare a favore di vento, agevolando la già naturale
smemorataggine? Io prego con i versi di Montale: “Non recidere, forbice, quel
volto, / solo nella memoria che si sfolla, / non far del grande suo viso in
ascolto / la mia nebbia di sempre”.
L’album
delle figurine, una volta completato, non ha più granché di interessante. In
principio era un album vuoto, che a poco a poco si riempie incollando le
figurine degli autori svolti: Svevo, Pascoli, Ungaretti… E alla fine eccoli lì,
tutti al loro posto, nella pagina trionfante e ingannevole, dove manca tanto di
quello che speravi, a cominciare dal fatto che un album di figurine non
somiglia a una partita di calcio, come un autore inserito in programma non
somiglia alla lettura di un libro. Lo canta splendidamente Francesco De
Gregori, e potrebbe sottoscriverlo qualunque scrittore: “Guarda che non sono io
la mia fotografia / che non vale niente e che ti porti via”.
Sparita
la bella esitazione dell’album incompleto, della pagina bianca, dell’ansia di
scoprire e di giocarsela, rimane tutto fatto, e tutto morto. La realtà invece è
realtà “quando porta con sé un segreto”. Ungaretti lo diceva della poesia, ma
vale identicamente per una materia, una classe, un alunno. Invece qui son tutti
in fibrillazione per completare l’album.
È
l’eterna vicenda di Marta e Maria: l’una indaffarata, a preparare
comprensibilmente il pranzo; l’altra che “si è scelta la parte migliore”.
Mentre in aeroporto non riesco a staccare i miei occhi dagli occhi di questi
ragazzi che stanno per volare via, mi pare che gli altri si agitino per
riempire la valigia, dove si può schiacciare un altro argomento e poi infilarne
un altro ancora, fino a scoppiare. Non badano al fatto che dopo pochi viaggi la
valigia, trattata così, non potrà che rompersi, che lo spazio del cervello è
quello che è, che solo alcuni possono permettersi un supplemento, e che ben
altra storia sarebbe viaggiare per trasferirsi: allora sì che sarà giusto, per
chi si iscrive a una determinata facoltà, portarsi dietro tutto quello che gli
serve. Ma continuando a ingozzarci così, chi è che vorrà mai trasferirsi nel
paese di Obesità?
Ovviamente,
come nel film Mamma ho perso l’aereo, in tutta questa furia capita che ci si
dimentichi della cosa più importante: “Kevin!”. Preoccupàti delle cose, finiamo
per scordarci le persone.
Saint-Exupéry
raccomandava tutt’altro approccio: “Se vuoi costruire una nave, non radunare
uomini per tagliare legna e dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna
loro la nostalgia del mare vasto e infinito”.
Perché di un orizzonte infinito c’è bisogno, su questi binari in cui
tutto è già scritto. I riti di iniziazione li ha scanditi Brunori Sas nelle
Quattro volte:
Primo
step: “Devo solo arrivare alla quinta elementare”.
Secondo
step: “Devo solo arrivare agli esami di maturità”.
Terzo
step: “Devo solo arrivare alla fine del mese”.
Quarto
step: “Devo solo arrivare a due passi dall’altare”.
Risultato
finale: “e dopo quarant’anni forse andarmene in pensione / con l’orologio d’oro
al polso e il gelo dentro al cuore”.
È
lì che vogliamo arrivare? A sfornare professionisti anziché a educare uomini? A
immetterli nel sistema senza che sappiano giudicarlo e magari ripensarlo? Fra
Pcto, progetti, certificazioni, arretrati, overdose di capitoli e test
d’ingresso, il meccanismo è talmente ben congegnato che è quasi impossibile
trovare uno spiraglio di libertà: “Cerca una maglia rotta nella rete / che ci
stringe, tu balza fuori, fuggi! / Va’, per te l’ho pregato”, sussurro ancora
con Montale.
Sono
anni che, alla domanda “tu quanti autori fai?”, rispondo con la contro-domanda
“tu quanti lettori susciti?”. Si tratta di spostare lo sguardo dagli oggetti ai
soggetti. Non entro in classe per spiegare questo argomento o fare queste
verifiche, ma perché questo ragazzo alzi lo sguardo, cominci a esserci, per
toccare questo “scordato strumento, / cuore”.
Lo
scrive ancora Montale in Prima del viaggio: si sa cosa va fatto quando ci si
prepara a partire, “si controllano / valige e passaporti, si completa / il
corredo”, si sistemano i nodi concettuali, ci si informa sulle sedi
universitarie. “E poi si parte e tutto è O.K. e tutto / è per il meglio e
inutile”. In fondo in fondo, non la sentiamo tutti l’inutilità di queste croci
sopra, di questa vita sistemata, di questo gelo che cresce nel cuore, di questo
mondo impersonale e agghiacciante?
Non
lo cercate anche voi “un malchiuso portone” da cui possa intrufolarsi quella
lezione, quel messaggio, quell’appuntamento, quell’amicizia in cui “il gelo del
cuore si sfa”?
“Un
imprevisto / è la sola speranza”. Può essere un ragazzo che non ha voglia di
finire ma di cominciare, non di arrivare ma di vivere il presente. “E ora che
ne sarà / del mio viaggio? / Troppo accuratamente l’ho studiato / senza saperne
nulla”. È inutile studiare, se non sboccia il gusto per il proprio viaggio, per
questa ora di lezione. Stamattina c’è ancora da cantare Brunori: “Si può
nascere un’altra volta”.
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