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venerdì 14 aprile 2023

EMERGENZA MIGRANTI ?


CON CIVILTÀ 

PER REALISMO

 

- di MAURIZIO AMBROSINI

 

In chiaro affanno di fronte all’imprevisto aumento degli approdi, il governo ha dichiarato lo stato di emergenza.

Avendo seminato uno sconsiderato allarmismo rispetto agli ingressi dal mare, se lo è visto ritorcere contro: se il problema è così grave, sorge spontanea la domanda sulla capacità del governo di fronteggiarlo.

Ecco allora la necessità impellente di comunicare il messaggio di aver preso in mano la situazione, con strumenti adeguati a un fenomeno dipinto come gravissimo.

Ricordiamo che stiamo parlando di 31.000 persone sbarcate in Italia al 12 aprile, di certo molte di più che negli ultimi anni, ma con cifre paragonabili a quelle degli anni centrali del passato decennio, quando gli sbarchi superavano quota 150.000 ogni anno. Per contro, nel 2022 in pochi mesi l’Italia ha meritoriamente accolto circa 170.000 profughi ucraini, mentre il decreto-flussi per il 2023 varato dal medesimo governo dell’allarme sbarchi prevede oltre 80.000 ingressi per lavoro: un meccanismo che peraltro notoriamente serve soprattutto a regolarizzare persone già entrate e inserite nel lavoro, ma prive di documenti. Dunque, assistiamo a una giostra delle emozioni, delle percezioni di gravità dei fenomeni, delle risposte culturali e politiche da fornire. I numeri c’entrano abbastanza poco, conta molto di più l’interpretazione dei numeri e la loro trasformazione in minacce sociali oppure in flussi accettabili e governabili.

La dichiarazione di stato di emergenza è uno strumento a cui spesso i governi ricorrono per assumere poteri straordinari e svincolarsi da controlli e procedure ordinarie. Lo fanno di solito in caso di calamità naturali, in cui devono affrontare situazioni di pericolo per l’incolumità della popolazione e dei territori, dando risposte urgenti a sfollati e traumatizzati. Definire come emergenza l’arrivo di persone dal mare in cerca di asilo, un fenomeno che con alti e bassi si ripete da anni, è invece la certificazione del fallimento nel governare questo tipo di flussi, insieme al rilancio di una visione patologica della mobilità umana dal Sud al Nord del mondo, non importa se motivata da guerre e persecuzioni.

Il poco lusinghiero precedente è la proclamazione di un analogo stato di emergenza da parte di un governo Berlusconi, niente meno che per gestire la presenza di gruppi di rom nelle grandi città.

L’unico aspetto positivo della vicenda è il piccolo stanziamento da cinque milioni di euro che dovrebbero servire principalmente a rafforzare il sistema di accoglienza: un sistema devastato dai decreti (in)sicurezza del 2018, firmati Salvini, che hanno tagliato i fondi e soppresso molti dei servizi forniti alle persone accolte, come i corsi d’italiano e l’assistenza psicologica. I governi successivi hanno avuto il demerito di non essersi impegnati a riqualificare il sistema, ma il calo dei numeri prima, poi l’emergenza Covid, infine la guerra in Ucraina hanno offerto delle attenuanti.

Gran parte delle strutture, soprattutto quelle più impegnate a fornire un’assistenza qualificata, hanno dovuto chiudere per l’impossibilità di raggiungere un equilibrio tra risorse e servizi necessari.

È demagogico pretendere che un’accoglienza dignitosa possa essere garantita nel tempo ricorrendo solo al volontariato o a operatori mal pagati. Ora forse si riparte, con un governo obbligato a fare il contrario di ciò che hanno a lungo predicato le forze che lo compongono. Per salvare faccia e identità, condisce l’emergenza con immancabili annunci di nuove restrizioni sul diritto di asilo e di improbabili incrementi delle espulsioni.

In un Paese democratico e avanzato, l’accoglienza dei richiedenti asilo non dovrebbe essere trattata come una ricorrente emergenza: lo ha giustamente ricordato l’arcivescovo Giancarlo Perego, presidente della Fondazione Migrantes.

Bisognerebbe saper distinguere tre aspetti, confusi e drammatizzati dall’allarmismo emergenziale.

Il primo sono i salvataggi in mare delle persone in pericolo, da sottrarre alla logica securitaria e all’infamante delega ai malconci (e non sempre benintenzionati) dispositivi di soccorso, quando esistono e si attivano, dei Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo.

Il secondo aspetto è l’accoglienza a terra di chi presenta una richiesta di asilo, che dovrebbe essere semplicemente e immediatamente presa in carico, senza infliggere code incivili di fronte alle questure, e trattata nell’ambito di un sistema ordinario ed efficiente, da cui siano banditi i riferimenti alla straordinarietà e all’emergenza.

Il terzo punto è il passaggio all’autonomia, in cui si scoprirebbe che gli sbarcati che tanto allarmano potrebbero rispondere, eventualmente con investimenti formativi dedicati, proprio a quella domanda di manodopera che il governo si ostina a mantenere separata dal sistema dell’asilo. E se si volesse seguire il benemerito modello dell’accoglienza dei profughi ucraini, accordando ai richiedenti asilo il diritto di libera circolazione sul territorio della Ue, ci troveremmo probabilmente a rimpiangere il fatto che la maggioranza di loro preferirebbe lasciare l’Italia per continuare il viaggio verso altre destinazioni. L’ideologia degli allarmi e delle emergenze non è solo nemica dei diritti umani, ma anche di un governo intelligente e pragmatico della mobilità umana attraverso le frontiere.

 

www.avvenire.it 


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