Per il filosofo Han il problema non
sono fake e menzogna, ma l’apparire di un mondo autoreferenziale, senza
riferimento ai fatti concreti e senza alterità.
Un contesto privato della carne, del
suolo e dei codici di natura diventa muto e non offre più occasione di ascolto:
quello che conta è ciò che è utile al singolo utente.
- di SIMONE PALIAGA
In questo periodo ChatGpt,
l’intelligenza artificiale generativa con cui è possibile intavolare una
conversazione, attraversa le cronache, soprattutto dopo che il garante per la
privacy ne ha bloccato l’accesso dall’Italia. Si tratta però solo dell’aspetto
più visibile di un fenomeno che accompagna le vite quotidiane ogni giorno. Con
l’intelligenza artificiale e il mondo dei dati trasformati in informazioni
conviviamo quotidianamente, oramai, sia che si usi un navigatore sia con i
chatbot delle piattaforme o i consigli commerciali che fanno capolino sulle
pagine web durante la navigazione. Senza contare l’uso che viene svolto
dall’intelligenza artificiale sui social, che, peraltro, diffondono immagini,
come quella di Vladimir Putin in manette o di Donald Trump strattonato dalla
polizia. Immagini di cui diventa difficile stabilire la veridicità. Starebbe
qui il cuore della svolta della digitalizzazione, secondo quanto scrive il
filosofo coreano naturalizzato tedesco, Byung-Chul Han in Infocrazia. Le nostre
vite manipolate dalla rete (Einaudi, pagine 80, euro 12,50). Ne deriverebbe un
nuovo nichilismo in cui «è la stessa distinzione tra verità e menzogna a essere
minata».
A trovarsi al centro di questo nuovo nichilismo è la
de-fatticizzazione della realtà. Infatti, per Han, «le fake news non sono
menzogne: esse attaccano la fatticità stessa». Il problema dunque non è la
menzogna, che riconosce la verità ma la distorce e se ne discosta. Il problema
è invece l’apparire di un mondo in cui non si prevede alcun riferimento a fatti
e a verità fattuali. E questo genera una crisi della verità. Uno degli aspetti
più visibili da cui deriva la crisi della verità è la fruizione autistica dei
contenuti, il rafforzamento autoreferenziale delle proprie convinzioni e
opinioni. Questo esito è dovuto anche ai cosiddetti bubble filter, che fanno
trovare sui profili solo quanto è coerente con le idee dell’intestatario
escludendo ogni prospettiva di alterità. Da non ingenuo indagatore delle
dinamiche che condizionano il mondo attuale Han è ben consapevole che
all’origine della deriva che mina il valore della verità fa capolino una
dinamica non riconducibile esclusivamente alla digitalizzazione.
«La
personalizzazione dei risultati delle ricerche e dei news feed - precisa il
filosofo - è responsabile solo in minima parte di questo processo degenerativo.
L’auto indottrinamento o l’auto propaganda avviene già offline». E il pensatore
non tarda a mostrare come a essere responsabile della crisi della verità «non
sia la personalizzazione algoritmica della Rete bensì la sparizione dell’altro,
l’incapacità di ascoltare». Per Han quindi il processo di “defatticizzazione”
della realtà, vale a dire la perdita di fiducia nei fatti, è l’esito di un
processo non imputabile al processo di digitalizzazione, con tutti i suoi
corollari, algoritmi, intelligenza artificiale, web, social network, bubble filter e via enumerando.
L’eclisse dei fatti, per il pensatore tedesco, sarebbe legata a un livello
ulteriore, l’estinzione dell’altro. «L’espulsione dell’altro - insiste il
pensatore - rafforza la costrizione autopropagandistica a indottrinare se
stessi con le proprie idee. Questo autoindottrinamento produce bolle
informatiche autistiche che rendono più complesso l’agire comunicativo. Se la
costrizione all’autopropaganda si accresce, gli spazi discorsivi vengono
progressivamente sostituiti da ecochambers, nelle quali sento parlare
soprattutto me stesso».
La digitalizzazione non fa altro che
rafforzare il processo di iperculturalizzazione, come Han la definisce in
Iperculturalità (Nottetempo, pagine 130, euro 15). Con questo processo, precisa
il pensatore, «la cultura diventa genuinamente culturale, anzi iperculturale,
denaturandosi, liberandosi cioè tanto del “sangue” quanto del “suolo”, dei
codici biologici e terreni. Tale denaturazione intensifica la
culturalizzazione. Se è il luogo a caratterizzare la fatticità di una cultura
ecco che iperculturalizzazione significa defatticizzazione della cultura». A
questo punto il mondo diventa muto, non oppone più resistenza e dunque non
offre più occasione di ascolto. Nell’Infocrazia attuale a predominare sarebbe
un continuo riferirsi a informazioni costruite ad hoc sul profilo degli utenti,
dalle quali viene escluso ogni riferimento a un mondo della vita condiviso. Gli
unici elementi a contare sono quelli trasformati in dati ed elaborati in
informazioni adatte al singolo utente, senza rendere possibile il
riconoscimento della verità. Di qualsiasi verità, anche di quella
intersoggettiva e condivisa, rendendo così il mondo uno spazio aperto al
tribalismo.
www.avvenire
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