celebrati come eventi
di una memoria
collettiva e fondante,
che negli studenti
non suscitano più alcun interesse?
-
di Monica Bottai
Basterebbe
rileggere alcune pagine di Pavese de La casa in collina, oppure con
alcune frasi di Vittorini sulla felicità, o immedesimarci nel dramma della
questione privata di Milton o nel desiderio di fuga del piccolo Pin fra i suoi
ragni. Basterebbe accantonare la pompa patinata di qualsiasi colore per andare
a leggere alcune pagine de I guardiani della memoria della
Pisanty, oppure lo scomodo Decontaminare le memorie di Alberto Cavaglion,
oppure ancora conoscere le riflessioni di Frankl in Uno psicologo nel
lager, così come lo sguardo illuminato della Hillesum nel suo Diario.
Basterebbe anche vedere certi film, come Swing kids o Miracolo
a Sant’Anna, dove la rigida separazione fra buoni e cattivi, fra Bene e
Male, si fanno sottili nel grande guazzabuglio del cuore umano.
Insomma,
basterebbe questo per scardinare la retorica di tanti nostri riti e di tante
parole, di cui abbiamo perso quella verità, storica ed esistenziale, a
cui però i nostri ragazzi hanno diritto. Ecco, almeno noi educatori glielo
dobbiamo, mentre siamo in aula a seminare futuro ed altri invece si azzuffano
per bieca ideologia.
Basterebbe
ascoltare le parole di Anna Foa sulla Shoah o di Antonia Arslan sul genocidio
armeno o, più recentemente, della senatrice Liliana Segre, per comprendere che,
rispetto alle nuove generazioni, abbiamo un serio problema sulla questione della memoria: schemi, parole, riti, vetusti e
ossidati dal tempo, si perpetuano, anche nelle scuole, ma raramente toccano il
cuore dei giovani che, infatti, spesso chiedono ragione di certe massime
imparate dagli adulti (“fare memoria perché non si ripeta il passato”, “mai
più”, “not in my name”), ma da quegli stessi adulti evidentemente disattese,
giacché superate dall’orrore di altri misfatti contemporanei, individuali o
collettivi.
Più
spesso, non chiedono nemmeno le ragioni e stanno lì, annoiati e rassegnati, a sorbirsi
l’ennesima morale. Cosa rispondiamo? Da dove ripartiamo? Non possiamo certo
continuare soltanto a lamentarci dei ragazzi di oggi, rievocando come eravamo
bravi noi delle passate generazioni. Forse vale la pena tentare di guardare
fino in fondo a questo loro disinteresse per capirne l’origine, magari
ritrovando in quell’origine qualcosa delle nostre formule vuote, delle nostre
forme prive di sostanza, da loro (giustamente) rifiutate.
Io
ho iniziato a farmi questa domanda quando un ragazzo mi chiese perché fosse
importante studiare lo sterminio degli ebrei di tanti anni fa, mentre vedeva
intorno a sé fatti, a suo avviso, ben peggiori, tipo madri che abbandonano
figli nel cassonetto, oppure migranti lasciati morire in mare. In quel momento,
ho capito che la realtà era più grande – ancora oggi, caro Orazio… –
della mia filosofia e delle mie conoscenze; così, per passione verso quella
faccia un po’ cinica, un po’ smarrita, ma esigente e vera, ho ripreso in mano
quel che già pensavo di sapere.
Possiamo
ripartire, innanzitutto, dalle parole tanto abusate, quanto misconosciute
perché spesso formali: genocidio (o massacro?), liberazione (o libertà?),
totalitarismo (mediatico?), razzismo (io non lo sono, però…), antisemitismo
(fra stereotipi e complotti), eutanasia (e oggi?), ghetto (periferie?), tanto
per dirne alcune, rintracciando fatti ed esperienze dell’oggi, per intuire che
questo vocabolario non è tanto antiquato come pensavamo e per iniziare a capire
che la memoria non incensa il passato né evita i ricorsi storici, ma
legge il presente ed il compito che io posso avere dentro al presente.
E
poi spaziare nel tempo, dall’Holodomor agli Armeni al Rwanda al Darfur ai Balcani,
fino al popolo degli Yazidi, per conoscere eventi genocidari susseguitisi prima
e dopo la Shoah, universalmente iconica ed insostituibile, ma anche
tragicamente ripetibile. E poi spaziare sul planisfero, dalla Corea all’Arabia,
dal Congo alla Turchia, dalla Russia all’Iran, scoprendo che non ancora per
tutti la democrazia è compiuta (cfr. Democracy Index 2023) e che non tutti sono
liberi davvero con più di 70 muri nel mondo, per oltre 40mila km di recinzioni,
dal Messico a Macao. Sì, cari ragazzi, anche dopo Berlino, altri muri sono stati
costruiti per nuovi minacciosi nemici.
Adesso
però sorge una domanda: cosa desidero mostrare veramente ai miei studenti?
Soltanto che il Male continua a manifestare il suo volto feroce? Che non c’è un
Male assoluto già alle nostre spalle, ma tutto si può sempre ripetere? Come
vincere lo sconforto davanti alla banalità del male, che capiamo essere sempre
in agguato dentro ognuno di noi, mentre in aula guardiamo smarriti la faccia di
Eichmann, durante il processo a Gerusalemme, così troppo simile alla foto sbiadita
del nonno sul comò di casa? Non vorremo anche insegnare loro a riconoscere il
Bene e preservarne la memoria?
Dentro
la grande storia della Resistenza, oltre le storie eroiche, nelle quali spesso
i ragazzi non si riconoscono, potremmo insegnare anche altri volti, altre resistenze, altre azioni, che nel silenzio
hanno operato per il bene e la giustizia. Facciamo loro conoscere le vite dei
Giusti (Giornata dei Giusti, 6 marzo, www.gariwo.net), il sacrificio dei fratelli
Scholl, il coraggio dei ragazzi di Piazza Majakovskij, Gino Bartali o Salvo
D’Acquisto o Antonio Perlasca, o tanti altri uomini e donne comuni come ognuno
di noi, segni della banalità del bene che ognuno di noi sempre può compiere
(“Cos’altro avrei dovuto fare?”, dicevano tanti Giusti) e che continua a
salvare misteriosamente il mondo intero.
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