- di Stefano Arduini
Il latino ha almeno
11 verbi che significano “tradurre”. E ognuno di essi ci dice qualcosa di diverso.
Una trasformazione nella quale si opera qualcosa di profondo, di magico
Il dizionario di una lingua rivela spesso come le culture collocano al proprio interno determinate attività, che rilievo danno loro e a chi le esercita. Ad esempio, l’importanza del tradurre nel mondo romano è ben rappresentata dalla terminologia usata, come ha mostrato Maurizio Bettini in Vertere (Einaudi, 2012), libro pubblicato più di dieci anni fa ma ancora oggi ricco di stimoli e suggerimenti.
Il latino, in questo
campo, ha infatti almeno undici verbi per “tradurre”: aemulari, exprimere,
imitari, interpretari, reddere, tradere, traducere, transcribere, transferre,
transponere e vertere. Una terminologia costruita quasi sempre con dei
prefissi: inter- ex-, red-, trans- cum-, che modificano i termini nel senso di
un movimento da un luogo, per un luogo o attraverso un luogo. Mi piace l’idea
del movimento perché è effettivamente quello che fa la traduzione: il movimento
del senso verso direzioni non necessariamente determinate.
Qualche veloce
osservazione sui vari termini ci offre delle interessanti curiosità circa il
modo in cui i latini vedevano il tradurre. Ad esempio in interpretari troviamo
la radice per o pre nel senso di “trafficare”, scambiare, che ritroviamo nel
greco pèrnemi (vendere), priasthai (comprare), piprasko (vendere): si tratta
della stessa radice del latino pretium, un significato “commerciale” del
termine che implica il passaggio di qualcosa, che siano merci o parole.
Exprimere significa
“premere”, “cavare fuori”, nel senso di produrre un’immagine da uno stampo
“premendola via”, oppure quello di lasciare un segno imprimendo il sigillo
sulla cera. Un calco dunque che però è allo stesso tempo una sorta di negativo
dell’originale, come se questo fosse visto da un’altra prospettiva e mostrasse
una faccia diversa. Reddere è “restituire”, ma anche “ricambiare”,
“contraccambiare”, “ripagare”; in questo senso porta con sé l’idea che la
traduzione sia qualcosa che si ha in cambio di qualcosa d’altro che è il testo
straniero.
Un discorso diverso
riguarda il verbo vertere. Plauto lo usa per descrivere l’atto di adattare gli
originali greci alla nuova commedia romana. All’apertura dell’Asinaria nel
vv.10-12, Plauto commenta la sua fonte scrivendo: “In greco questa commedia si
intitola Onagós, l’ha scritta Demofilo e Macco l’ha tradotta in latino (vortit
barbare). Vorrebbe tradurla (volt) Asinaria se vi va bene”. La traduzione è per
noi legata alla scrittura, in quanto viene applicata a un testo che dovrà essere
letto, quasi sempre in silenzio. Il vertere dei Romani avviene invece in una
situazione radicalmente diversa, altra dalla lettura solitaria e silenziosa. Il
“vortit barbare” di Plauto non è rivolto a dei lettori ma al teatro, una parola
che va messa in scena con un pubblico che ascolta, una parola recitata da un
attore che la modulerà secondo la sua arte.
Una volta conclusasi
la dichiarazione dell’autore nel prologo, ciò che gli spettatori hanno non è un
testo scritto che probabilmente solo alcuni sarebbero in grado di leggere, ma
personaggi che si sono trasformati, da greci sono diventati romani. L’atto del
vertere nasce dunque nell’oralità e nella rappresentazione. La traduzione è in
questo caso qualcosa di concreto, cambiano le parole ma cambiano anche i
personaggi, cambia la realtà di riferimento.
C’è però un altro
aspetto che può aiutare a illuminare ulteriormente il senso di vertere. Molto
spesso, infatti, il cambiamento dovuto al vertere implica l’intervento di una
forza magica, soprannaturale, capace di operare una trasformazione. Ad esempio
quando Mercurio, nell’Amphitruo di Plauto, descrive la facilità con cui Giove
muta d’aspetto per assumere l’identità di Anfitrione, dice: “in Amphitruonis
vertit sese imaginem”. In maniera simile il re Mida delle Metamorfosi dice:
“Fai che tutto quello che tocco con il mio corpo si converta (vertatur) in
fulvo oro”; così anche la vecchia strega Dipsas trasformata si aggira volando
fra le tenebre (“nocturnas versam volitare per umbras”).
La persona o la cosa
soggetta al vertere subisce una trasformazione per cui perde la propria forma
esterna per assumerne un’altra. Si può dunque pensare che colui che vertit in
latino un testo composto in un’altra lingua mutandone radicalmente la forma, ne
fa qualcosa che risulta totalmente altro rispetto a ciò che era prima.
Tradurre allora
diventa un’esperienza di trasformazione profonda, di metamorfosi che crea
necessariamente qualcosa di nuovo. Un nuovo modo di guardare le cose. Una nuova
letteratura, come accade per quella latina nata appunto dalla traduzione e
nella traduzione.
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