- di don
Luigi CiottiSuona
perfino scontato – a oltre mezzo secolo dalla morte – parlare di attualità di don
Milani. In questi anni le ingiustizie e le povertà non sono certo
diminuite, e la Barbiana di allora, così come apparve a don Lorenzo il 7
dicembre 1954, si riflette nelle tante Barbiane del nostro tempo: quelle
dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, quelle delle zone di guerra e del
Mediterraneo, dove il mare inghiotte o depone sulle spiagge i corpi delle vittime
della fame, della schiavitù e dell’ingiustizia globale.
Come
nelle Barbiane di chi all’altra riva è approdato, senza però trovare lavoro e
dignità: quelle delle baraccopoli e dei quartieri ghetto, delle case
sovraffollate e dei rifugi di fortuna, quelle di chi cade in mano alle mafie
del caporalato, del narcotraffico, della prostituzione.
Ma
don Milani è nostro contemporaneo anche per quello che è forse il cuore, il
nucleo pulsante della sua opera: la scuola. C’è, irrisolta, una grande
questione educativa. Perché se è vero che nel nostro Paese – ma il discorso può
essere esteso ad altre democrazie “avanzate” – la povertà assoluta e relativa
opprime milioni di persone, è anche vero che ci troviamo di fronte a un diffuso
analfabetismo di ritorno, e che l’Italia è tra i primi posti in Europa per
dispersione scolastica.
Don
Milani ci ha insegnato che non si può combattere la povertà materiale senza una
formazione delle coscienze, senza un’educazione alla ricerca. A Barbiana, dove
pure il priore si comportava da maestro severo ed esigente, era sempre l’alunno
che fa più fatica a dettare il ritmo di marcia e guidare di fatto il progetto
comune. Resta un’intuizione preziosa, perché solo così la scuola diventa la
base di una società prospera, la cui forza si misura dalla capacità di
includere e valorizzare i più fragili, così come la tenuta di un ponte dipende
dal concorso di tutti i piloni a sorreggerne il peso. «Se si perde loro – è
scritto nella Lettera a una professoressa – la scuola non è più scuola. È un ospedale
che cura i sani e respinge i malati». Questo vuoto culturale si riflette infine
nel decadimento del linguaggio, un decadimento che si manifesta anche come
corruzione e prostituzione della parola. Nella “società della comunicazione”,
le parole tendono sempre più a diventare strumenti di potere invece che
segnavia della ricerca di verità. E don Milani, che nella parola umana come
strumento di conoscenza e di dignità avvertiva lo stesso eco liberante della
parola di Dio, non avrebbe certo taciuto di fronte allo scempio linguistico dei
discorsi che etichettano, che diffamano, che manipolano la realtà e nascondono
la verità.
Ecco
allora che opportunamente Michele Gesualdi mette in guardia dal rischio di una
memoria deferente e d’occasione, o peggio di strumentalizzazioni o
appropriazioni indebite della sua eredità intellettuale e spirituale. Don
Milani non va celebrato ma vissuto, così come «Barbiana era molto più di una
scuola, era un vivere in comune». Non può esistere un “don Milani in pillole”,
citato a seconda di circostanze e convenienze, così come il famoso passo
dell’obbedienza che non è più una virtù, non deve essere interpretato come un
generico invito alla ribellione, ma come un’esortazione a seguire la voce della
propria coscienza, che non è mai accomodante, che sempre ci chiama a quelle
responsabilità che proprio il conformismo e l’obbedienza acritica permettono di
eludere. Essere consapevoli significa essere responsabili, significa mettere la
nostra libertà al servizio di chi libero non è. È di questa libertà che don
Milani è stato maestro. A noi spetta il compito di esserne, almeno, testimoni
credibili.
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