- di MAURO MAGATTI
Le
immagini di una guerra d’Ucraina crudele e sanguinaria che sembra non finire
mai e di altri e altrettanto infiniti conflitti; i corpi di uomini, donne,
bambini annegati nelle acque del Mediterraneo; le notizie sconvolgenti di
troppe stragi familiari; la violenza gratuita e insensata di bande giovanili
nelle periferie della marginalità e della disperazione.
Viviamo
un tempo che, nonostante il bene in atto, sembra avvitarsi nella spirale del
male. Che cosa sta succedendo?
Due
grandi pensatori del secolo scorso – Hannah Arendt e Zygmunt Bauman – nel
cercare di comprendere un evento così drammatico come la Shoah – uno sterminio
di massa programmatico e razionalmente organizzato – hanno sostenuto che alcuni
dei caratteri tipici della età industriale – l’impersonalità, la
burocratizzazione, l’oggettivazione – avevano seminato le premesse culturali su
cui quella enorme efferatezza storica si è poi potuta sviluppare.
Sia
chiaro: il male non ê questione sociologica. Esso alberga da sempre nel cuore
dell’uomo. Ma i modi e l’intensità in cui esso si manifesta sono legati alle
condizioni storico-culturali. E ci sono momenti in cui il male si addensa e
sembra quasi capace di prendere il sopravvento.
Per
questo, per evitare di ritrovarci di nuovo la dove non vorremmo, è bene rifarsi
alla lezione di Arendt e Bauman ponendo qualche domanda al tempo che viviamo.
L’empatia
è la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, di immedesimarsi nell’altra
persona, di comprenderne lo stato d’animo, di provare i suoi stessi sentimenti
ed emozioni. Da qui il venire mossi dal dolore dell’altro fino ad arrivare a
prendersene cura.
Sappiamo
che, come insegna la parabola del Buon Samaritano, il passaggio non è
automatico: la presa in carico è sempre un salto non
assicurato. Ma è chiaro che questa apertura all’altro – su cui
si fonda quel bene necessario che è la solidarietà sociale – rischia
di non
darsi
più quando è la qualità delle nostre relazioni a deteriorarsi. Fino al punto di
non sentire più il dolore del mondo e diventare così capaci di “digerire”
qualunque crudeltà.
Il
bollettino quotidiano dei morti ammazzati, dei disastri in cui sono
intrappolate intere popolazioni, dei dolori e persino delle torture inflitte a
tanti uomini e donne in tutto il mondo, svela tensioni e disagi profondi. Ai
quali non riusciamo a dare risposta perché siamo connessi ma soli,
interdipendenti ma slegati. La “globalizzazione dell’indifferenza”, denunciata
con insistenza da papa Francesco, è il terreno ideale su cui il male, senza più
resistenza, può proliferare. E nell’età digitale, l’addormentamento
dell’empatia si produce silenziosamente su tre piani della nostra vita
quotidiana. In primo luogo, in una società in cui il rapporto con l’altro è
continuamente evocato ma al tempo accuratamente evitato, l’empatia si
affievolisce fino quasi a spegnersi. Lo confermano le ricerche sperimentali: la
distanza dal luogo della sofferenza altrui indebolisce la probabilità di una
risposta attiva. Dietro, uno schermo, (quasi) tutto diventa tollerabile. Nella
solitudine dello sguardo alla fine a crescere è lì odio verso il diverso.
Il
guaio è che, ogni giorno che passa, ci abituiamo a guardare sempre più
distrattamente le tante storie drammatiche che vediamo rappresentate. Al punto
da non riuscire più a sentirci coinvolti più di tanto nemmeno di fronte a una
carneficina come quella sulla costa di Steccato di Cutro.
In
secondo luogo, tutto è troppo veloce. Le notizie ci assalgono e le immagini
scorrono via in fretta. Diventa difficile riuscire a soffermarsi davanti a
qualcosa. Non c’è più il tempo per interiorizzare il dramma altrui. Per sostare
con lui. Per affezionarci e volere bene. Vedere tanto senza essere mai
veramente toccati ci costruisce addosso una crosta che ci scherma ancora di più
dal mondo e dai suoi dolori. Rendendoci, giorno dopo giorno, un po’ più
disumani.
Infine,
c’è la tendenza all’equivalenza generalizzata. Nei telegiornali un massacro
viene seguito dalla notizia sulle previsioni meteo, mentre le immagini del
fronte della guerra sono messe sullo stesso piano dei risultati della Champions
League. Ma la totale omologazione di notizie che hanno peso e significato
radicalmente differente pregiudica la nostra percezione della realtà e mina la
nostra coscienza: sembra che non ci sia più nulla per cui valga la pena
impegnarsi. Qualcosa per cui lottare davvero.
Da
qui, dunque, la domanda che ci dovrebbe inquietare: dove va una società senza
empatia?
I
segnali non sono rassicuranti. E per questo è importante cercare di
invertire la tendenza.
Come
altre capacità umane, l’empatia si impara. Prima di tutto tornando a fare
esperienza dell’altro concreto. È solo l’esercizio dell’esposizione al volto
dell’altro – mettendosi accanto ai tanti «cristi abbandonati», come ha detto la
Domenica delle Palme papa Francesco – che possiamo alimentare quelle attitudini
di cui abbiamo disperatamente bisogno per fermare l’emorragia di male a cui
sembra destinata la società contemporanea. Non è forse questa la prima
educazione che dobbiamo tornare a praticare?
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