mai porte chiuse a chi è straniero
o diverso
Cinquantamila
fedeli alla Messa nella Piazza Kossuth Lajos di Budapest. Presenti delegazioni
ecumeniche, autorità civili, rappresentanti della Comunità ebraica. Nell'omelia
Francesco esorta ad essere "come Gesù una porta aperta che non viene mai
sbattuta in faccia a nessuno e permette a tutti di sperimentare l’amore di
Dio". L'invito alla Chiesa e a chi ha responsabilità politiche e sociali:
“Essere aperti e inclusivi gli uni verso gli altri aiuterà l’Ungheria a
crescere nella pace"
Ultimo
giorno del 41.mo viaggio apostolico, penultimo appuntamento prima della
partenza per Roma, il Papa celebra in Piazza Kossuth Lajos, la piazza dedicata
all’eroe nazionale, leader della rivoluzione ungherese del 1848. Il sole è alto
e sulla folla di 50 mila fedeli, assiepati dalle prime ore del mattino dietro
le transenne, si allunga l’ombra dell’edificio neogotico del Parlamento
ungherese.
Applausi,
canti, bandiere
Papa
Francesco arriva in papamobile, accolto da applausi e dallo sventolio di
bandiere. “Ti amiamo Santo Padre!”, grida un uomo in italiano. La folla è
composta, i canti solenni. Sull’enorme palco bianco allestito di fiori gialli,
dove campeggia un crocifisso in legno, si prega in tedesco, ucraino, ungherese,
rumeno, croato, slovacco, sloveno. Tra le prime file sono presenti la
presidente ungherese Katalin Novak, il premier Viktor Orbán e anche il
metropolita ortodosso Hilarion, che il Papa ha incontrato ieri privatamente in
Nunziatura. Ci sono poi vescovi e sacerdoti, religiosi e laici, soprattutto
donne, alcune vestite in abiti tradizionali. Presenti delegazioni ecumeniche,
capi della Comunità ebraica, rappresentanti delle istituzioni civili e del
Corpo diplomatico. “È bello questo”, osserva il Papa. “Questa è cattolicità:
tutti noi cristiani, chiamati per nome dal buon Pastore, siamo chiamati ad
accogliere e diffondere il suo amore, a rendere il suo ovile inclusivo e mai
escludente”.
Siamo
tutti chiamati a coltivare relazioni di fraternità e di collaborazione, senza
dividerci tra noi, senza considerare la nostra comunità come un ambiente riservato,
senza farci prendere dalla preoccupazione di difendere ciascuno il proprio
spazio, ma aprendoci all’amore vicendevole.
Triste
vedere porte chiuse
“Porte
aperte, porte aperte”: l’invito del Papa è reiterato lungo tutta l’omelia. “È
triste e fa male – dice – vedere le porte chiuse. Le porte chiuse del nostro
individualismo in una società che rischia di atrofizzarsi nella solitudine; le
porte chiuse della nostra indifferenza nei confronti di chi è nella sofferenza
e nella povertà; le porte chiuse verso chi è straniero, diverso, migrante,
povero. E perfino le porte chiuse delle nostre comunità ecclesiali: chiuse tra
di noi, chiuse verso il mondo, chiuse verso chi “non è in regola”, chiuse verso
chi anela al perdono di Dio”.
Per
favore: apriamo le porte! Cerchiamo di essere anche noi – con le parole, i
gesti, le attività quotidiane – come Gesù: una porta aperta, una porta che non
viene mai sbattuta in faccia a nessuno, una porta che permette a tutti di
entrare a sperimentare la bellezza dell’amore e del perdono del Signore.
Gesù
ci fa entrare e poi uscire
L’esempio
è, appunto, Cristo che “come un pastore che va in cerca del suo gregge, è
venuto a cercarci mentre eravamo perduti; come un pastore, è venuto a
strapparci dalla morte; come un pastore, che conosce una per una le sue pecore
e le ama con infinita tenerezza, ci ha fatti entrare nell’ovile del Padre,
facendoci diventare suoi figli”. Gesù è “venuto come buon Pastore dell’umanità
per chiamarci e riportarci a casa” e “ancora oggi, in ogni situazione della
vita, in ciò che portiamo nel cuore, nei nostri smarrimenti, nelle nostre
paure, nel senso di sconfitta che a volte ci assale, nella prigione della
tristezza che rischia di ingabbiarci, Egli ci chiama”. Ci chiama “per nome”. Ma
Gesù è anche “la porta che ci fa uscire verso il mondo”. Il suo è un movimento
di entrata e di uscita.
Egli
ci spinge ad andare incontro ai fratelli. E ricordiamolo bene: tutti, nessuno
escluso, siamo chiamati a questo, a uscire dalle nostre comodità e ad avere il
coraggio di raggiungere ogni periferia che ha bisogno della luce del Vangelo.
Incoraggiamoci
ad essere porte sempre più aperte: ‘facilitatori” della grazia di Dio, esperti
di vicinanza, disposti a offrire la vita…
Un
uguale invito è rivolto a laici, catechisti, operatori pastorali, ma anche “a
chi ha responsabilità politiche e sociali”, come pure a coloro che
“semplicemente portano avanti la loro vita quotidiana”, talvolta con fatica:
“Siate porte aperte”.
Mai
scoraggiarsi
“Non
scoraggiamoci mai – è l’augurio conclusivo del Vescovo di Roma - non lasciamoci
mai rubare la gioia e la pace che Lui ci ha donato, non chiudiamoci nei
problemi o nell’apatia. Lasciamoci accompagnare dal nostro Pastore: con Lui la
nostra vita, le nostre famiglie, le nostre comunità cristiane e l’Ungheria
tutta risplendano di vita nuova!”
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