sulla cultura
per una società
«neo-umanista»
Il nostro Paese ha bisogno oggi
più che mai di potersi riconoscere in un patrimonio storico e artistico senza
pari, rilanciando i consumi culturali per rispondere alla sfida epocale di una
tecnologia priva di radici.
Il talento indomabile di poeti,
scrittori, pittori, musicisti interpreta nelle loro anime all’eterna ricerca
del Bello e del Vero il mistero insondabile dell’umano e della sua perenne
domanda di senso. A una distruttiva, robotica barbarie transumanista può essere
argine roccioso e inespugnabile la loro umanità caparbia, intensa e inquieta.
L’interesse per tutto ciò che è
culturale è ancora ben lontano dai livelli pre-Covid, e se anche sta risalendo
lo fa troppo lentamente rispetto a un mondo che in questo ambito cruciale sta
accelerando. Nella classifica globale dell’«indice di felicità» l’Italia perde
posizioni È necessario un progetto ambizioso che ricordi a un essere umano che
si è perso e non sa più chi sia che non è fatto solo di materia e di conoscenza
razionale ma di creatività, valori, emozioni
- di ELISA MANNA
Nel serrato dibattito degli
ultimi mesi sulle politiche pubbliche, reso più vivace dalla nascita di un
governo di destracentro con ampia maggioranza parlamentare e una premier donna,
si deve registrare una Grande Assente: la Cultura. Per la verità, in un’epoca
di emergenze continue e gravi che fanno parlare ormai abitualmente di
“permacrisi” (ovvero di crisi permanente), era piuttosto prevedibile. Di fronte
alla confluenza di gravi problematiche di salute pubblica, economiche,
belliche, dunque attinenti la sopravvivenza stessa e i bisogni primari, la
cultura passa inevitabilmente in secondo piano. “Di cultura non si vive”: molte
persone impegnate nei diversi settori culturali amaramente sottoscriverebbero
tale affermazione; “la cultura non si mangia”, aggiungerebbero con un pizzico
di cinismo beffardo altri, non troppo sensibili al fascino dell’arte, della
musica, della letteratura. A questo punto sarebbe facile per
contrappasso sposare una posizione vivacemente antitetica, che andava assai di
moda sul finire degli anni Ottanta del Novecento: “di cultura si vive, eccome”,
se solo sapessimo mettere a frutto i giacimenti culturali di un Paese che –
questo lo slogan di allora ripetuto allo sfinimento – è «un museo a cielo
aperto ». I meno giovani ricorderanno questo tipo di argomentazione, che in
alcuni casi suonava quasi come un invito alla riscossa per tutti gli operatori
dei diversi settori culturali: musei, siti archeologici, enti lirici, teatri.
Sembrava fosse stato scoperto il petrolio italiano fatto di colonne, mosaici e
statue, accatastati senza rispetto in armadi polverosi nei sotterranei dei
grandi musei. Per un po' si continuò a pensare che bastasse tirarli fuori,
sottrarli alla occhiuta, gelosa ed escludente custodia degli storici dell’arte,
mapparli, aggiungervi un po’ di cosiddetti “servizi aggiuntivi” (caffetterie,
angoli riposo, ristorantini) e la nostra economia sarebbe volata.
Naturalmente così non è
andata. Il grande lancio della commercializzazione della cultura naufragò
presto sulle prime inefficienze e contraddizioni. I mecenati (grandi imprese in
cerca di lustro) snobbavano lo spettacolo dal vivo (troppo effimero, transeunte,
per lucidare un blasone brand) a favore del restauro di un bene archeologico,
immutabile, immobile da secoli, e dunque stabile ritorno pubblicitario per
l’azienda che ne avesse finanziato il recupero. Lo strumento della fiscalità
non riuscì a rafforzare più di tanto l’azione dei mecenati, e anche quella si
rivelò una bolla. Altre fragilità e disorganizzazioni fecero il resto: come
quando per bando pubblico si affidarono a diverse aziende informatiche grandi
progetti di mappatura dei beni esistenti, che non riuscivano però a dialogare
attraverso le banche dati approntate dato che i linguaggi e i programmi
utilizzati erano differenti… L a cultura non mise le ali all’economia
né in quegli anni Ottanta né nei decenni che seguirono, anche perché i problemi
erano e sono molto più complessi; a cominciare da strade e infrastrutture
mancanti. Paradigmatico il caso della Sicilia, che gronda siti archeologici di
bellezza incomparabile ma ancora oggi ha un sistema di collegamenti e di
viabilità che esclude ogni possibilità di accesso concreto a molte di tali
archeo-meraviglie. E tuttavia forse non fu questa la sola debolezza di un
rilancio che voleva tradurre in oro luccicante e sonante i vecchi gioielli di
famiglia.
Ai nostri giorni le cose non
vanno molto meglio, se nei programmi elettorali delle recenti elezioni
politiche la cultura ha ottenuto poca o nessuna attenzione, con affermazioni e
propositi generici, senza indicazioni chiare delle risorse finanziarie per i
diversi interventi, con la solita oscillazione tra quanti vogliono più ruolo
per il pubblico e quanti preferirebbero mettere tutto in mano ai privati. È
forse giunto, perciò, il momento propizio per parlare di politiche culturali
con un occhio più evoluto, che del passato sappia fare tesoro aggiungendo però
una consapevolezza nuova, figlia dei nostri tempi così liminali, così
disorientanti, che ci stanno traghettando in un altro mondo, in un’altra epoca,
in cui senza bussole sarà certamente più facile perdersi.
Finora nel nostro
Paese il mondo delle politiche culturali nei diversi settori è
stato affrontato facendo riferimento ad alcuni paradigmi
concettuali. Anzitutto la conservazione, tipica
dell’approccio degli storici dell’arte, interessata
soprattutto alla preservazione del bene. Successivamente, come
accennato sopra, si è affermata l’idea della
promozione-valorizzazione-commercializzazione, figlia in parte di
un democratico desiderio di portare la cultura alle masse, in
parte del più concreto desiderio di mettere a frutto capitelli e
dipinti. Dal punto di vista strettamente politico è prevalso troppo
spesso, invece, un paradigma elettoral-assistenzialistico: non a
caso gli enti lirici hanno sempre assorbito buona parte del
Fondo Unico per lo Spettacolo
(Fus) potendo vantare numerosi
addetti (maestranze, elettricisti, costumisti ecc.) e dunque un buon bacino
di consenso potenziale. M a oggi molte cose sono cambiate, anche
nella percezione delle istituzioni della cultura, per lo meno in ambito
internazionale. I libri, il teatro, le mostre entrano in maniera più o meno
codificata e a buon diritto nel paniere che definisce il benessere dei diversi
Paesi. O, quantomeno, si riscontra che i Paesi che risultano in cima alle
classifiche della felicità attribuiscono ai consumi culturali un grande posto
nel modo di occupare il cosiddetto tempo libero (concetto anche questo in via
di ridefinizione). Pensiamo alla Finlandia che da anni è in testa alla
classifica della felicità dei Paesi («Sustaineble Development Solution Network
», World Happiness Report 2022) e che si basa su uno stile di
vita che potremmo definire da “giovane colto” (muoviti, studia, leggi, vivi la
cultura, vivi la natura, ama, condividi, ricerca) anche per i pensionati, che
trovano occasioni culturali in situazioni di prossimità domestica. Quanto ai
giovani veri e propri, hanno facilmente a disposizione in piccoli centri
distribuiti territorialmente il necessario per produrre le loro intuizioni
musicali, registrarle e metterle in rete, in modo da avere occasioni concrete
di farsi conoscere. Purtroppo l’Italia non è neanche sulla scia di questo modo
di vivere “giovanile e colto”. Sempre nello stesso Rapporto, l’Italia perde
ulteriori postazioni e passa dal 25° al 31° posto. Nonostante la
ritrovata normalità e l’accelerazione dell’estate 2022 nella fruizione di
eventi e spettacoli dal vivo, i consumi culturali sono ancora lontani dai
livelli pre-Covid e risalgono lentamente. L’indice realizzato da Impresa
Cultura Italia-Confcommercio e Swg ha raggiunto nei primi 9 mesi del 2022 i 68
punti (+9 sul 2021 e +12 sul 2020), distante però più di 30 punti dal valore di
riferimento del 2019. Valori di riferimento che non erano certo stellari.
Dalla crisi di antica data del
comparto culturale, accentuata oggi da un’emergenzialità globale, è possibile
però, per dirla con il sociologo Mauro Magatti, trarre una lezione generativa,
che non resti impantanata nelle contraddizioni della politica culturale nel
nostro Paese, ma da esse tragga una provocazione e uno stimolo potente a
ripensarsi alla luce del cambiamento d’epoca in una nuova centralità. Il mondo
della cultura nei suoi diversi comparti non ha mai avuto, come in questi tempi
di mutazione velocissima, di fronte a sé una sfida più entusiasmante, più
nobile e fondativa. Oggi, come ha argomentato Stefano Zamagni su
“Avvenire” del 13 gennaio 2023, uno dei problemi sociali più importanti che
emergono all’orizzonte è fornire una risposta solida alla posizione
transumanista, sostenuta dai colossi dell’high tech, che si propone non tanto
il potenziamento ma il superamento di ciò che è umano nell’uomo. Il progetto
che si può contrapporre con forza a questa tesi è quello neoumanista, sostenuto
anche dalla Chiesa, la cui culla è proprio l’Europa. Un neo-umanesimo che nella
libera espressione creativa da una parte e nel nutrimento, nella fruizione
culturale dall’altra trova la sua espressione più vera. Un progetto che ricordi
all’Uomo, che si è perso e non sa più chi egli sia, che non è fatto solo di
materia e conoscenza razionale (su queste basi l’intelligenza artificiale sta
dilagando in modo anche inquietante e potrebbe essere assai competitiva in poco
tempo) ma di emozioni, sentimenti, motivazioni, valori, creatività, intuizioni,
etica, responsabilità, dubbi, ripensamenti, e tanto altro: il “codice
dell’anima”, come avrebbe detto Hillmann.
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