Ho visto recentemente
un gruppo di ragazzini in gita scolastica e mi ha colpito il fatto che non
facevano chiasso scherzando tra di loro, come accadeva quando ero ragazzino io,
e neppure erano riuniti intorno a uno di loro che suonava la chitarra: stavano
ognuno per conto proprio, col capo chino sui rispettivi cellulari, alla ricerca
di messaggi in arrivo e impegnatissimi a mandarne a loro volta, premendo
freneticamente i tasti con entrambi i pollici.
La scena è così
frequente che menzionarla potrebbe essere quasi banale. Come banali sarebbero
commenti della serie: «Che gioventù! Ai
miei tempi…». Forse meno banale sarebbe rendersi conto che questi nostri
figli non scelgono di comportarsi così: sono solo nati in un contesto sociale e
culturale in cui questi mezzi di comunicazione sono diventati indispensabili
per mantenersi in relazione con gli altri – compresi i loro genitori, che
gliene fanno dono, mentre sono ancora piccoli, per poterli raggiungere e magari
controllare quando sono fuori casa. Che poi, essendo “nativi digitali”,
riescano ad usare questi mezzi con maggiore naturalezza e abilità dei loro
padri e dei loro professori, non è certo una colpa. E l’utilità che ne deriva
per tutti è indubbia. Non bisogna scandalizzarsi di ciò che è nuovo.
Platone, che era
contrario all’avvento della scrittura – anche questa, ai suoi tempi, era una
nuova tecnica comunicativa, rispetto alla trasmissione orale – ne ha tracciato
nel Fedro un profilo che ne mette in luce tutti i pericoli, del resto
assolutamente reali. E le sue critiche ……
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