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mercoledì 5 febbraio 2025

LA VOCE DEL SILENZIO

  

ASCOLTARE
 IL
 CORPO

-     



    -di Luciano Manicardi



 Atti del Seminario sulla corporeità  

Progettando il seminario, abbiamo sentito il bisogno di collocare il cammino di riscoperta delle dimensioni della corporeità - in rapporto a noi stessi, alla sensibilità contemporanea, all’azione come educatori - entro una riflessione biblica. 

Perché la Bibbia non ha paura del corpo, né lo sminuisce o frammenta, ma lo considera intero, dono del Dio della vita. Con il corpo, perciò, e non nonostante il corpo, l’uomo è degno di stare in dialogo aperto col Signore. 

Non è forse un caso che gli ebrei preghino in piedi e probabilmente la Parola che si fa carne non avrebbe potuto essere concepita in una cultura differente. 

Luciano Manicardimonaco di Bose, ha accettato con generosità di accompagnarci in questo percorso e gli siamo profondamente grati per la profondità e la lucidità partecipe del suo intervento. Le sue riflessioni, dedicate al soffio vitale, al corpo che siamo, al corpo che prega - a partire dalla lettura della vicenda del profeta Elia, del movimento della voce e del corpo nei Salmi, della passione erotica del Cantico dei Cantici - ci hanno aperto a una nuova conoscenza dei testi, supportata anche dalla filologia. Ne abbiamo ricavato una comprensione esistenziale e non solo intellettuale. 

I tempi del seminario sono stati scanditi da tre incontri, che hanno completato senza forzature i temi affrontati e dato luce alle esperienze che i partecipanti vivevano. Riproponiamo qui i testi integrali di Manicardi, felici di condividerne la ricchezza teologica e umana.

 1. Ascoltare il corpo. L’esperienza spirituale di Elia in 1Re 19, 9-13 

 La crisi è deserto, sconvolgimento, clamore assordante, timore per la sorte, il futuro, la sopravvivenza. Quando la polvere si posa, nel silenzio si fanno spazio la resistenza, il coraggio, la speranza. E la vita riparte da dentro di noi.

 La crisi di un uomo, di un profeta 

 Il profeta Elia, in un momento di grave crisi della sua vita, dopo aver sconfitto e ucciso i profeti del dio Baal, viene perseguitato dalla regina Gezabele che vuole la sua vita, lo vuole uccidere, e lui è preda della paura, fugge nel deserto e lì esprime il suo sconforto e la sua angoscia. “Desideroso di morire, disse: ‘Ora basta, Signore, Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri’. Si coricò e si addormentò” (1Re 4-5). Elia vive un momento di depressione, vive una tentazione suicidaria. Le sue parole, che lo portano a paragonarsi ai suoi padri e a scoprirsi non migliore di loro, rivelano un suo attaccamento al proprio ego, un’immaturità, un protagonismo che deve essere purificato. Ma gli viene indicato di proseguire il cammino, di inoltrarsi nel deserto. 

Nel deserto occorre non disertare, potremmo dire: le crisi vanno guardate in faccia e allora possono divenire, proprio nelle strettezze in cui ci conducono, l’occasione di una rinascita. Elia si introduce nel deserto, cammina per 40 giorni e 40 notti fino a giungere al monte di Dio, l’Horeb, il monte dove Mosè aveva conosciuto la teofania (Es 19,16-25). 

 La voce del silenzio 

 Ecco come il testo descrive l’incontro con Dio: 

 Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: ‘Che cosa fai qui, Elia?’. Egli rispose: ‘Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché i figli d’Israele hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita’. Gli disse: ‘Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore’. Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, la voce di un silenzio sottile. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna”. 

 La traduzione che trovate nella Bibbia di Gerusalemme italiana parla di “sussurro di una brezza leggera” (1Re 19,12) che è la fedele traduzione delle antiche versioni greca e latina che hanno normalizzato il testo ebraico che parla inequivocabilmente di “voce di silenzio sottile”. Gli antichi traduttori hanno sentito l’espressione “voce di silenzio” come un ossimoro, tuttavia il significato dell’espressione ebraica è assolutamente certo: qui si parla di un fenomeno interiore, non di un fenomeno atmosferico come una brezza. 

Anche nei testi di Qumran viene ripresa questa espressione per indicare la liturgia angelica definita molte volte come “voce del silenzio divino”, “voce di silenzio di benedizione”. Il testo di 1Re ci pone di fronte a un silenzio che parla. Noi pensiamo che voce e silenzio si oppongano: o c’è la voce o c’è il silenzio. Ma è proprio così? John Cage scrisse un brano musicale che si intitolava “4 minuti e 33 secondi” composto di tre movimenti: il primo di 30 secondi, un secondo di 2 minuti di 23 secondi, il terzo di 1 minuto e 40 secondi. Un tempo in cui egli non suonava nulla. Non risuonava una sola nota. Forse far risuonare quel silenzio ci insegnerebbe qualcosa sul silenzio, come forse scoprì anche John Cage. Il quale, mentre sperimentava questo spazio privo di suoni, aveva sentito un rumore grave e uno acuto. La registrazione era avvenuta però in una stanza senza eco. Ma aveva sentito dei rumori: uno grave e uno acuto. I rumori che provenivano dal suo apparato cardiocircolatorio e nervoso. 

Anche il silenzio ha un rumore. Esiste il silenzio assoluto? Anche cercando il silenzio assoluto, in realtà ci imbatteremmo sempre nel soffio dell’aria che esce dai polmoni, nel battito del cuore, nei gorgoglii dello stomaco. 

Se l’uomo è l’essere che ha la parola, come ci ricorda Aristotele, l’uomo comunica anche con il silenzio, l’uomo è anche l’essere che sa fare silenzio. 

Fare silenzio implica che il silenzio (non il mero tacere), sia un’azione. Fare silenzio ci porta ad abitare il nostro corpo, ad ascoltare le nostre emozioni, a fare quel lavoro interiore che è fondamentale dal punto di vista spirituale. 

Tutto ciò che è spirituale, infatti, non avviene se non nel corpo. 

 L’esperienza spirituale di Elia 

 La traduzione fedele al testo ebraico del brano di 1Re ci dice che l’esperienza di Elia è interiore. L’incontro con Dio è esperienza intima, interiore. 

Alla luce della voce del silenzio possiamo rileggere il nostro testo e reinterpretarlo. Troviamo tre cose: il vento impetuoso e gagliardo, il terremoto e il fuoco, seguiti dalla voce del silenzio. 

Gli esegeti hanno riconosciuto in questo passo uno schema di tipo letterario frequente in altri testi biblici, soprattutto profetici e sapienziali. È uno schema che presenta tre cose più una. Presenta tre realtà a cui ne segue una quarta che è la più importante di tutte, quella decisiva. Per esempio, nel libro dei Proverbi sta scritto: 

 Tre cose non si saziano mai, anzi quattro non dicono mai: ‘Basta!’ il regno dei morti, il grembo sterile, la terra mai sazia d’acqua e il fuoco che mai dice: ‘Basta!’” (Pr 30,15-16). 

 Si tratta di quattro cose omogenee, tutte dello stesso ordine. E l’ultima non è antitetica, ma decisiva. Analogamente in Pr 30,18-19: 

 Tre cose sono troppo ardue per me, anzi quattro, che non comprendo affatto: la via dell’aquila nel cielo, la via del serpente nella roccia, la via della nave in alto mare, la via dell’uomo in una giovane donna”. 

 Le prime tre cose oltrepassano la capacità di comprensione dell’uomo, ma la quarta le supera tutte, è la più misteriosa. La cosa più comune, l’unione sessuale tra l’uomo e la donna, è anche la più sfuggente, la più ardua da comprendere. Anche nei profeti è presente questo schema. In Amos 1-2 troviamo più volte, come parola pronunciata dal Signore, l’espressione “per tre peccati di... , anzi per quattro non revocherò il mio decreto di condanna” (cf. Am 1,3.6.9.11.13; 2,1.4.6), dove il quarto peccato è la goccia che fa traboccare il vaso, quella che porta le cose al di là del limite di sopportazione, ma sempre di peccato si tratta, come per le prime tre. 

Dunque, comprendendo il testo di 1Re alla luce di questo schema, le cose elencate devono essere tutte dello stesso ordine, ma se la quarta – come abbiamo visto – è senza ombra di dubbio un fenomeno interiore, dobbiamo ricomprendere le precedenti. 

Così superiamo l’antica traduzione greca che ha reso fenomeno atmosferico quell’ultimo elemento che non lo era. Alla luce di questo dobbiamo comprendere i tre fenomeni atmosferici precedenti come fenomeni interiori. Si tratta di cogliere la dimensione simbolica di vento, terremoto, fuoco. Alla luce di questo schema anche l’espressione che ripete che “il Signore non era nel vento, non era nel terremoto, non era nel fuoco”, va intesa indicare non una assenza assoluta ma che il Signore non era in quei fenomeni come nell’ultimo. 

 Vento, terremoto, fuoco: volontà, emozione, eros 

 Come possiamo interpretare sul piano simbolico il vento impetuoso? Non esiste in natura un vento che spacchi le rocce e le montagne. Ma in ebraico vento, ruach, significa anche alito, respiro, spirito. Ruach è forza, potenza che può schiacciare, può anche travolgere chi la detiene. Già nella tradizione ebraica il vento è stato interpretato come forza di volontà. E se c’è un profeta che è stato forte e mosso da una volontà ferrea è proprio Elia (cf. Sir 48,1-11). Lo Spirito investe anche la dimensione volitiva della persona: il volere è la capacità di una persona di decidersi per un fine, di orientare tutto se stesso, corpo, anima, spirito, per raggiungere un determinato fine. Ma l’esperienza spirituale non è riducibile a volontà. L’esperienza spirituale non può essere volontarismo. 

Il terremoto in ebraico è espresso da un termine che significa “tremore, tremito”. Che designa una dimensione psicologica più che un fenomeno atmosferico. Ci sono dei brani biblici in cui il termine designa fenomeni interiori, una reazione emotiva. In Ez 12,18 questo termine designa “trepidazione”, “tremore”, e indica una reazione emotiva dell’uomo. Se vogliamo mantenere la traduzione “terremoto”, dobbiamo comprendere che si tratta di un terremoto interiore, di uno sconvolgimento intimo. Siamo rinviati alla sfera emotiva, che certamente accompagna l’esperienza spirituale, ma non la può esaurire. L’esperienza spirituale non può essere emozionalismo. 

Infine, il fuoco. Il fuoco è simbolo del farsi presente di Dio, che è fuoco divorante. Dio si rivela a Mosè nel roveto ardente, un arbusto che bruciava ma non si consumava. Ma il fuoco rinvia anche alla dimensione passionale, affettiva, erotica. Nel Cantico dei Cantici, che è un inno all’amore un ragazzo e di una ragazza, non c’è mai il nome di Dio. O meglio, lo si trova una sola volta, quando si dice che l’eros è fiamma del Signore (Ct 8,6): l’eros è dipinto come fuoco. Anche qui ci viene detto che l’incontro con Dio non è estraneo alla dimensione affettiva ed erotica dell’uomo, ma anche che l’affettività non può esaurire l’esperienza spirituale. 

Dunque, volontà, emotività, affettività, hanno a che fare con l’esperienza di Dio. Ma c’è un ulteriore elemento: la voce del silenzio, che è il luogo culminante dell’esperienza di Dio, dell’incontro con lui. Ecco le tre dimensioni che sono inerenti all’esperienza spirituale, perché nulla di spirituale avviene se non nella corporeità, ma ecco anche il luogo intimo, la dimensione più profonda che supera e va ancora più in profondità dell’esperienza spirituale raggiungendo l’indicibile, l’ineffabile, il mistero. Il quarto elemento è quello in cui l’esperienza spirituale esce dall’ambiguità. Anche se non si dice che il Signore era nella voce del silenzio. Il testo narra che, come ascoltò la voce del silenzio, Elia si coprì il volto con il mantello, cosciente di essere alla presenza di Dio. Nessuno può vedere Dio, altrimenti muore (Es 33,20). Ma l’uomo può ascoltarlo: Elia si fermò all’ingresso della caverna ed ecco la voce del Signore che gli parla. Elia percepisce la presenza del Signore nella voce del silenzio, qualcosa che è più profondo delle dimensioni emotive, affettive, volitive, qualcosa che rende apofatica l’esperienza spirituale. È una voce silenziosa. Nessun eccesso di zelo, nessun sussulto emotivo, non una passione incontrollata, ma tutto che si pacifica, si sintetizza ed essenzializza in qualcosa di più profondo. 

 L’azione dello Spirito 

 Si può annotare, en passant, che i quattro simboli del vento, del sisma, del fuoco e della voce si ritrovano quasi identici in un testo capitale del Nuovo Testamento per indicare lo Spirito santo. In At 2,2-6, il testo che parla della Pentecoste, le immagini del rombo (At 2,2), del vento impetuoso (At 2,2), del fuoco (At 2,3) e della voce (At 2,6) concorrono a evocare lo Spirito di Dio e la sua discesa. Uno spirito che trova il suo inveramento nella voce che annuncia l’evangelo in tutte le lingue del mondo. 

Capiamo allora l’importanza della rilettura del testo di 1Re 19. Esso ci consente di cogliere un’esperienza spirituale che abbraccia la totalità dell’essere umano, tutta la sua corporeità. E che ci fornisce anche dei suggerimenti di tipo pedagogico: la presenza di Dio, dunque la vita di fede, concerne tutto l’essere personale e dunque corpo, anima, spirito. La dimensione volitiva è riguardata, ma mai e poi mai l’esperienza di fede può esaurirsi nel volere e men che meno nel dovere. L’esperienza spirituale abbraccia anche il mondo delle emozioni, ma non può ridursi alla dimensione emotiva. Riguarda anche la dimensione affettiva ed erotica, ma non può coincidere con l’esperienza affettiva, con il trovarsi bene nel calore del gruppo amicale. Più in profondo c’è la potenza del silenzio. Che è linguaggio da abitare, da decodificare e in cui scoprire la presenza, misteriosa, discreta, ma reale, di Dio stesso.

 Servire 


 

 

venerdì 23 febbraio 2024

ASCOLTATELO !


 -Domenica 25 febbraio 2024-

 - II Domenica di Quaresima B - Vangelo:  Mc 9,2-10 -

- Commento di S. E. Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme-

Il brano di Vangelo di oggi ci dona di fare un passo importante nel nostro cammino quaresimale.

 Domenica scorsa, il racconto delle tentazioni ha portato luce dentro la nostra vita, dove la Parola del Padre vuole scendere per impastarsi con le nostre scelte di ogni giorno.

 Oggi la stessa luce brilla sul volto di Gesù, e ci svela qualcosa del mistero di Dio, perché noi possiamo conoscerlo per quanto ci è possibile.

 Il racconto della Trasfigurazione (Mc 9,2-10) ci riporta al principio del nostro cammino di fede, a cosa lo rende possibile.

 E cioè al fatto che noi possiamo credere per il semplice fatto che Dio si rivela, che si fa conoscere, che ci mostra il suo Volto.

 Da sempre, nella storia della salvezza, Dio cammina con il suo popolo e si rivela attraverso le sue opere e la sua Parola. Non è un Dio che gestisce le cose da lontano, che preferisce rimanere nell’ombra, ma è qualcuno che ama farsi conoscere, e per questo entra nel gioco della storia con uno stile e un Volto che chiedono di essere conosciuti.

 In più, a volte, nel corso del cammino, ci sono momenti privilegiati in cui chiama qualcuno in disparte, di solito su un monte, e a costoro fa fare un’esperienza più profonda e più intima della sua presenza.

 Da sempre, dunque, Dio si rivela, si fa conoscere, e Gesù non fa diversamente dal Padre.

 Sale su un monte, insieme a tre dei suoi discepoli (Mc 9,2), e lì si fa incontrare in tutta la sua bellezza e il suo splendore di Figlio.

 In realtà, non è Lui a rivelarsi, ma è il Padre che ci rivela Gesù (Mc 9,7). Perché lungo tutto il cammino della vita di Gesù, è chiaro che Gesù non è venuto a parlarci tanto di se stesso, quanto del Padre suo, della bellezza di essere il Figlio amato.

 E così neanche il Padre rivela se stesso, ma ci rivela il Figlio, desidera che lo conosciamo, che lo accogliamo come fratello nella nostra vita.

 La Quaresima viene dunque a dirci questo: Dio, che sempre si rivela, vuole farlo in un modo nuovo, in un modo definitivo. E questa rivelazione sarà la Pasqua, dove il Figlio svelerà il Padre fidandosi totalmente di Lui, e il Padre svelerà il Figlio ridonandogli la vita e facendolo risorgere.

 Non è un caso, quindi, che sul monte della trasfigurazione ci siano Mosè ed Elia.

 Perché Mosè ed Elia sono, nella storia della salvezza, i due più grandi testimoni che Dio si rivela.

 Anche loro, un giorno, sono saliti su un monte e hanno conosciuto Dio più da vicino (Es 19.33.34; 1Re19); e hanno iniziato a comprendere proprio qualcosa che ha uno stretto legame con la Pasqua di Gesù.

 Mosè, sul monte, ha conosciuto che il nome di Dio è misericordia, che è lento all’ira, che perdona la colpa del suo popolo, che non lo distrugge quando il popolo cade nella tentazione e si allontana da Dio.

 Mosè ha conosciuto che Dio si rivela fondamentalmente per un unico fine, che è quello di salvarci, sempre. Elia, sul monte, dopo una lunga fuga, ha conosciuto che Dio si rivela nella mitezza: non nei grandi segni del potere e della forza, ma nell’umile silenzio di una brezza, di un soffio.

 Un passo in più: Mosè ed Elia hanno entrambi pensato che il male si vince con la forza: Mosè ha ucciso un egiziano che angariava un ebreo (Es 2,12); Elia ha addirittura ucciso tutti i profeti di Baal sul monte Carmelo (1Re 18,20-40) pensando di difendere così la vera fede nel Dio unico.

 Ma entrambi, poi, hanno conosciuto un Dio diverso, e un diverso modo di salvare: anche loro si sono convertiti.

 Questo diverso modo di salvare, noi lo vedremo sulla croce, al termine di questo cammino dove anche noi siamo chiamati a convertire la nostra attesa di salvezza, ad aprire il cuore per lasciarci salvare nel modo in cui Dio vuole salvarci.

 Mosè ed Elia sono i nostri compagni di cammino in questa Quaresima, proprio come Giovanni Battista è il compagno del cammino di Avvento, perché anche noi possiamo arrivare a conoscere il Volto di Dio che si rivela dando la vita per noi.

 + Pierbattista

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lunedì 3 aprile 2023

E DIO PARLO' NEL SILENZIO




 - di Gianfranco Ravasi

 

-  Elia nella grotta sul Sinai, il “velo” che copre Gesù nel vangelo di Marco: due sorprendenti icone scritturali del Logos. Giobbe sperimenta il mutismo di Dio, sciolto solo nella visione. Ma l’assenza della voce assume la dimensione dell’epifania anche nella tenebra. (Da “Luoghi dell’Infinito”)

La Bibbia è per eccellenza Parola di Dio, ma è al tempo stesso “mistero”, vocabolo che ha alla base il verbo greco mýein, che significa “tacere, chiudere le labbra” (ed è ciò che accade quando si pronuncia questa parola). Recentemente è stato tradotto in italiano presso l’editrice Qiqajon il volumetto di un pastore protestante ultranovantenne, il francese Gérard Delteil, dal titolo emblematico, Al di là del silenzio. Egli parte da una frase suggestiva di un poeta suo connazionale, Edmond Jabès (1912-1991): «Dio è il silenzio che dobbiamo rompere». Infatti è, sì, il Lógos, la Parola, ma è appunto anche “mistero”. Non per nulla ciò che Giobbe scopre alla fine delle sue tante interpellanze lanciate a Dio è che il vero dialogo con Lui avviene col transito a un’altra esperienza, quella della visione che spegne le parole: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42,5). Prima, però, lo stesso Giobbe aveva sperimentato non il silenzio ma il mutismo di un Dio simile a un imperatore impassibile relegato nel suo cielo dorato. È quell’apparente indifferenza che ha sconcertato e scandalizzato molti, anche teologi, di fronte alla Shoah, o davanti ai cataclismi della natura.

Di questi volti diversi del silenzio umano e divino, che può essere promessa e ferita, epifania e tenebra, è arduo descrivere i vari lineamenti. Esplorando l’enigma del silenzio, si incrocia appunto il crudo profilo del male che fa affiorare sulle labbra della vittima il grido biblico a Dio: «Perché nascondi il tuo volto?». Ma si dovrebbero inseguire anche altri registri inattesi, come quelli della presenza nell’assenza, del silenzio grembo della Parola, dell’eros del tacere (due innamorati veri, esaurite le parole, si guardano negli occhi senza nulla dire, eppure quel silenzio è molto più eloquente di qualsiasi dialogo), della fede da custodire soprattutto durante il vuoto della voce divina. Un capitolo finale fondamentale rimane, però, quello sul «ritirarsi» di Dio che, creando la persona umana, l’ha voluta dotata di libertà e responsabilità: a essa, artefice di violenza e di sofferenze atroci nei confronti del prossimo, e non tanto a Dio si dovrebbero rivolgere spesso tanti interrogativi laceranti sul male, sulla violenza, sull’ingiustizia.

Una voce di silenzio sottile

La prima scena che scegliamo è descritta nel capitolo 19 del Primo Libro dei Re: un uomo avanza solitario sulle pendici scoscese e pietrose del monte Sinai. Alle spalle ha ancora il ricordo di giorni pieni di incubi, quando il potere repressivo lo voleva far tacere non solo chiudendogli la bocca, ma anche cercando di eliminarlo fisicamente. È Elia, il profeta, il cui nome è già un programma: «Solo il Signore [Jhwh] è Dio». Non lo è Baal, la divinità che la regina Gezabele, principessa fenicia di Tiro, seguita dal marito, il re Acab, vorrebbe imporre al popolo ebraico.

Siamo nel IX secolo a.C. nel regno settentrionale di Israele, distinto da quello di Giuda e Gerusalemme, retto dai discendenti di Davide. A contestare la politica religiosa e sociale, colma di prevaricazioni e di ingiustizie, di quella coppia reale era rimasto soltanto Elia. Il profeta sta ascendendo verso la vetta ove Israele era nato come popolo, il Sinai, in una sorta di pellegrinaggio alle origini. Lassù Elia, che durante la marcia nel deserto era stato afferrato persino dalla tentazione di lasciarsi morire, cerca di ritrovare la sua vocazione profetica, precipitata nella crisi della solitudine e dell’ostilità. Egli attende che il Signore gli parli.

Forse la voce divina si nasconde nel «vento impetuoso e gagliardo, capace di spaccare i monti e di infrangere le rocce. E invece il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto; ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, ci fu una folgore; ma il Signore non era neppure nella folgore» (1Re 19,11-12). È alla fine che accade la grande sorpresa: l’originale ebraico di solito è tradotto così: «Dopo la folgore, ci fu il mormorio di un vento leggero» (19,13). Elia comprende che il vero Dio non è nel clamore, ma nella quiete, non è nella vendetta, ma nella costanza paziente e, secondo la prassi sacrale, si copre il viso perché − come dice la Bibbia − «nessuno può vedere il volto di Dio e rimanere in vita» (Es 33,20). Tuttavia, quelle tre parole ebraiche, qôl demamah daqqah, prese in sé, significano letteralmente “una voce di silenzio sottile”. Dio è, sì, una voce, ma che ha il suo vertice nel silenzio, nel mistero. Irraggiungibile e irriducibile a figure o immagini, egli è ineffabile e invisibile, tant’è vero che il giudaismo non pronuncerà il suo nome, affidandolo solo a quattro consonanti (Jhwh). Eppure, questo Dio silenzioso non è muto, è attivo e rilancerà Elia nella sua missione di giustizia e di verità, e il profeta in quel silenzio ritroverà la sorgente della vera parola che giudica e che salva. Ritornerà, così, nel regno di Israele a far sentire di nuovo con potenza la sua voce contro le ingiustizie e le apostasie.

Un velo in attesa di essere alzato

Il secondo quadro è occupato, invece, da una sequenza di versetti del più antico Vangelo a livello cronologico, quello di Marco. L’evangelista ci conduce in una specie di penombra qua e là squarciata da lampi che illuminano solo per un istante il volto di Gesù, per poi farlo ripiombare in una tenue oscurità. Infatti Gesù, predicatore e guaritore ambulante, impone il silenzio sulla sua persona agli spettatori e ai destinatari dei suoi miracoli (1,44-45; 5,43; 7,36; 8,26); proibisce di rivelare la sua identità profonda, per cui ai demoni che lo riconoscono egli vieta di parlare (1,34; 3,11-12; 8,30; 9,9); stranamente i discorsi più chiari che illustrano il senso delle sue parabole vengono pronunciati da Gesù in disparte, solo nella cerchia dei suoi discepoli (4,10-20). Eppure anche i discepoli rivelano in Marco una sorprendente ottusità, costantemente ribadita dall’evangelista. Uno studioso tedesco, William Wrede, nel 1901 escogitò una locuzione che ebbe successo: questa oscurità intenzionale è il segreto messianico che Marco usa sistematicamente nella prima parte del suo Vangelo per sottolineare che la vera identità di Gesù non poté essere compresa durante la sua vita terrena ma solo dopo la sua risurrezione e non tanto di un metodo adottato dal Gesù storico per svelare progressivamente la sua realtà più intima e profonda. Sta di fatto, comunque, che quello di Marco è il Vangelo delle epifanie segrete affidate ai silenzi di Gesù.

A metà strada, in 8,27-30, il velo che oscura il volto di Gesù è parzialmente sollevato dalla confessione di Pietro che lo proclama come il Messia atteso: «Tu sei il Cristo!». Non è ancora il volto di Cristo nella pienezza della divinità, come invece suppone Matteo che, nella stessa dichiarazione, aggiunge a «Tu sei il Cristo» la specificazione «il Figlio del Dio vivente» (16,16). È ancora un profilo alonato di silenzio più che di parole gloriose. Subito dopo Gesù annunzia, infatti, di non essere un Messia trionfale, come era nelle attese di Israele, bensì un “Cristo” sconcertante, vittima e sconfitto, simile al Servo sofferente del Signore cantato dal profeta Isaia: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (53,7). Solo sul patibolo della croce si compie lo svelamento supremo del mistero di Gesù di Nazaret. Ed è un centurione romano a definire l’identità segreta di Gesù Cristo: «Veramente quest’uomo è Figlio di Dio!» (15,39). La risurrezione del Signore non farà che suggellare questa proclamazione definitiva prima celata sotto il velo del segreto e del silenzio.

 www.avvenire.it