di essere padri
per aiutare
a diventare grandi
Un modello sbilanciato sulla soddisfazione e sul piacere personale non può favorire comportamenti responsabili e maturi. Essere «adultescenti» condanna i giovani.
Va proposta la bellezza di “sognare” in grande una vita ricca di significato, dove può emergere il meglio di sé, mettendo da parte il «culto del sé». Ma questo si fa offrendo e chiedendo molto Ha ragione papa Francesco quando dice che c’è urgenza di non lasciare figli «orfani di genitori vivi»
di LELLO PONTICELLI
Su questo giornale, a novembre, un gran pedagogista come
Giuseppe Bertagna ha ricordato che le emergenze sanitaria ed economica a motivo
della pandemia «sono paradossalmente meno gravi di quella pedagogica». E ha
chiesto un “mea culpa” in generale degli adulti. Papa Francesco, nella recente
lettera Patris corde specifica ancor più: «Nella società del
nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre... Anche nella
Chiesa c’è bisogno di padri». Queste “provocazioni” inducono a riflettere e a
segnalare alcune carenze che sembrano essere alla base della «orfananza» di
tanti figli (papa Francesco), per offrire qualche spunto per una paternità più
responsabile.
Primo: scarseggiano proposte educative che invitano i
ragazzi a “puntare in alto”, a ribellarsi a una vita mediocre: sembra che
stiamo educando «polli di allevamento » e non «aquile» (A. De Mello). Secondo:
è venuta meno l’autorevolezza e la testimonianza da parte degli adulti, anzi,
spesso c’è molto cattivo esempio. Troppi sono i padri assenti, complici,
“mammi”, deboli modelli di identificazione, in famiglia come anche nelle
istituzioni formative alla vita consacrata. Terzo: mi pare carente la
proposta di motivi e valori che appassionino il cuore e riempiano il vuoto che
i giovani si portano dentro. Un vuoto, attenzione, che spesso dipende dalla
mancanza di senso e non per forza da traumi psichici. Queste tre carenze mi
pare stiano lasciando le giovani generazioni senza pathos –
tanti, infatti, si rifugiano nell’apatia – e senza logos –
tanti “sparano fuori” gli impulsi del momento ( acting-out), con
poca capacità di decisioni ponderate e con scarso autocontrollo.
In epoca di pandemia, anche da voci laiche e con un
vocabolario simile a un “quaresimale”, abbondano gli appelli ad avere
comportamenti ispirati a sacrificio, rinuncia, prudenza,
astinenza, capacità di resistenza-resilienza, essenzialità,
rispetto per gli anziani, capacità
di “stringere la cinghia”, senso del dovere etc. Ma queste
condotte non spuntano come i funghi, bensì esigono un vero e proprio
allenamento e sono il frutto di uno stile educativo che da tempo sembra essere
stato emarginato dalla cultura predominante: l’atteggiamento del lasciar
correre ( laissez faire), rispetto a quello di una sana pro-vocazione, è
di gran lunga il più adottato in tutti gli ambienti (forse perché più comodo?).
Perché, allora, meravigliarsi di quanto è accaduto in estate o anche di
recente, nonostante il numero dei contagi e dei morti? Pensate che nelle
prossime festività andrà meglio? Lo spero, ma ne dubito! Certo, per
l’educazione c’è bisogno di tempi lunghi, ma se il modello e lo stile educativo
prevalente non vengono messi in discussione neanche con le provocazioni
dell’attuale realtà, l’aumento di “adultescenti” è destinato a crescere e
avremo sempre più generazioni con difficoltà nel far fronte alle prossime
sfide.
Un modello educativo tutto sbilanciato sulla propria
soddisfazione e sul piacere come può favorire comportamenti responsabili e
maturi? Spesso ai ragazzi e ai giovani è stato fatto passare il messaggio
che il divertimento è una priorità, quasi un obbligo ed è da “sfigati” non
approfittarne. Allora perché mai dovrebbero saper rinunciare? Se non aiutiamo a
capire che, per dirla con il saggio Qoelet, c’è un tempo per la gratificazione
e uno per la frustrazione; un tempo per il “sì” e un tempo per il “no”; che il piacere
deve fare i conti con il dovere; che il “tu” e il “nostro” chiedono che si
metta da parte l’“io” e il “mio”; se non educhiamo a un sano senso di colpa e
rimorso quando si fa qualcosa di male a danno degli altri o di se stessi,
perché stracciarsi le vesti dinanzi alle scene che quotidianamente sono sotto i
nostri occhi e che assai probabilmente si ripresenteranno durante le prossime
festività natalizie?
Invece di criticarli, ai giovani va proposta la
bellezza di “sognare” in grande una vita ricca di significato, dove può
e- mergere il meglio di sé, mettendo da parte il «culto del sé»
(P. Vitz): ma questo si fa offrendo e chiedendo molto,
proponendo valori forti e motivazioni fondate, dialogate
e accompagnate da esemplarità discrete ma evidenti; altrimenti
le critiche sono ipocrisia e moralismo. La pandemia offre
agli educatori, soprattutto ai “padri”, tante sfide importanti
su cui ingaggiare un confronto educativo: la sfida dei
limiti, della routine e della noia, del silenzio e
della solitudine, della deprivazione e delle asperità,
delle sofferenze del lutto. Noi adulti, soprattutto noi “padri”,
stiamo aiutando e accompagnando bambini, ragazzi, giovani a confrontarsi
con tutto questo in maniera intelligente, proporzionata, ma senza giocare al
risparmio, senza sostituirci alla loro fatica e senza anestetizzare il dolore
che l’accompagna? Non è soprattutto su questo che la paternità deve uscire
maggiormente allo scoperto nel suo ruolo insostituibile, che integra quello
della maternità, senza scimmiottarlo né sostituirlo? Non ci sono ricette, ma
non possiamo non farci queste domande. Sommessamente vorrei,
poi, suggerire come interessanti obiettivi educativi anche in tempo di
pandemia, quelli che un grande psicologo, Daniel Goleman, suggerisce per
educare una solida «intelligenza emotiva» e che offrono non pochi elementi di
convergenza con alcuni spunti della pedagogia delle cosiddette virtù cardinali:
«...autocontrollo, entusiasmo e perseveranza, capacità di auto-motivarsi e
tenere a freno un impulso; la capacità di leggere i sentimenti più intimi di
un’altra persona; di gestire senza scosse le relazioni con gli altri, di
persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni; di
controllare gli impulsi e di rimandare la gratificazione; di modulare i propri
stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, e, ancora, la
capacità di essere empatici e di sperare... E queste capacità possono essere
insegnate ai bambini! ». Non pensate che tutto questo esiga e susciti una
paternità integrata e responsabile? Ha ragione papa Francesco: c’è urgenza di
non lasciare figli «orfani di genitori vivi». Soprattutto di non
lasciarli orfani di padri.
*Sacerdote e psicologo
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