Una sfida
molto concreta
Mariolina
Ceriotti Migliarese
Ognuno di
noi desidera realizzare nella vita qualcosa di unico e di personale, e sente
che la sua felicità dipende dalla riuscita o dal fallimento di questo compito;
a questo compito possiamo dare nomi diversi, ma la parola che usiamo per
definirlo cambia in modo radicale il nostro modo di affrontare la vita.
La prima
parola possibile è “vocazione”. In questa parola è contenuta l'idea di una
chiamata: qualcosa o Qualcuno ci interpella e la nostra vita si realizza
rispondendo a questo appello. Essere felici vuol dire impegnare le nostre
capacità perché si realizzi ciò che solo a noi, con le nostre caratteristiche
specifiche, è dato realizzare. Per questo nell'idea di “vocazione” è contenuto
anche il pensiero che il baricentro vitale non sia collocato tanto sull'io,
quanto piuttosto su ciò che dall'io e dalla sua creatività può scaturire:
l'opera che riusciamo a compiere, le relazioni che riusciamo a far vivere, il
figlio che attraverso di noi ha potuto nascere. Nell'idea di “vocazione” è
sempre in qualche modo presente anche un “noi”, un'idea di comunità.
La seconda parola, di gran lunga oggi la più utilizzata, è ”autorealizzazione”.
È una parola
che non implica la risposta a una chiamata o a un compito, ma contiene
piuttosto l'idea che la felicità dipende dal successo che riusciamo a ottenere:
la persona meglio realizzata è quella capace di avere più visibilità e più
denaro; in campo affettivo, quella capace di ottenere più amore. Anche secondo
questa logica mettere a frutto le proprie risorse è una cosa importante; ma in
questo caso l'accento è posto soprattutto su di sé e sulla propria
soddisfazione: nell'idea di “autorealizzazione” il “noi” è secondario e l'idea
di comunità inessenziale.
Anche nella vita affettiva e di coppia, l'idea che abbiamo della felicità (come
risposta a una vocazione o come auto-realizzazione) comporta una differenza
essenziale di prospettiva, che cambia il modo di affrontare le vicende buone e
meno buone del nostro rapporto.
Quando ci sposiamo facciamo una cosa unica e singolare: decidiamo cioè di
scegliere un compagno/a che da quel momento in poi potrà camminare con noi per
sempre, fino alla fine del nostro percorso. Il matrimonio rappresenta una scelta
vocazionale molto forte, perché se accettiamo di viverlo la nostra chiamata
specifica alla felicità si declinerà attraverso quell'incontro, con quella
particolare persona che arriva da una storia profondamente diversa dalla
nostra.
Non è facile
cogliere fin dall'inizio la portata di questa differenza, perché quando ci
innamoriamo vediamo soprattutto quello che ci unisce e ci avvicina: vediamo la
parte del volto che l'altro ha rivolto con amore verso di noi. Ma l'altro è
sempre oltre ciò che vediamo: è diverso, è sé stesso; la sua vita è iniziata
prima del “noi” e continua anche al di là del “noi”. È una libertà che ci
cammina a fianco, una totalità mai del tutto conosciuta.
Camminare
insieme non significa abbandonare la ricerca del nostro compito personale; da
quel momento in poi però la vocazione di ciascuno si declinerà in un modo
nuovo, di cui l'altro farà sempre parte. Con e attraverso di lui (lei) siamo
sfidati a diventare noi stessi in modo diverso; con e attraverso di lui (lei)
possiamo diventare padre o madre; con e attraverso di lui (lei) possiamo
costruire una realtà nuova che ci trascende: una famiglia nostra, con
caratteristiche che solo noi insieme potremo darle. Con qualsiasi altra
persona, ciascuno di noi darebbe vita a qualcosa di completamente diverso.
Qualcosa di
migliore? Non lo so. So però che la “vocazione”, così come ho cercato di
definirla, non è un'ipotesi astratta, ma un percorso di vita molto concreto,
che prende forma a partire da ciò che siamo e da ciò che ci accade. La nostra
felicità possibile dipende da questo, e la nostra creatività può e deve
applicarsi proprio qui, nel luogo
preciso nel quale ci troviamo storicamente a vivere.
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