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di Giuseppe Savagnone
Abbiamo
scoperto che possiamo morire
Fra le tante
conseguenze della pandemia sulla nostra vita di ogni giorno ne va segnalata una
che sembra la più ovvia, ma lo è meno di quanto sembri: la sempre più chiara
consapevolezza che possiamo morire.
A
ricordarcelo ogni giorno sono i numeri impressionanti dei decessi, nel corso di
questa “seconda ondata” del coronavirus; ma sono anche, e forse soprattutto, i
volti di conoscenti, di amici, di parenti che si sono ammalati e non ce l’hanno
fatta.
La favola
dei “negazionisti”
I
“negazionisti” si sono ostinati a minimizzare, sostenendo che moltissimi dei
decessi attribuiti al virus sono in realtà dovuti ad altre patologie, da sempre
presenti. Per dimostrarlo, sono arrivati a sostenere che in Italia il numero
totale dei morti, da quando è scoppiata la pandemia, nel 2020, è lo stesso,
anzi inferiore, a quello degli anni precedenti.
Una
clamorosa fake news, spazzata via dai dati Istat. Da essi risulta che a marzo
2020 la mortalità, rispetto alla media degli anni precedenti, è aumentata del
47,2%. Al Nord, dove il virus ha colpito più duramente, questa crescita è stata
addirittura del 93,9%, mentre al Centro e al Sud, dove i contagi sono stati
molto minori, si è fermata rispettivamente al 12,2% e al 4,3%.
Anche ad
aprile l’aumento dei morti, rispetto agli anni passati, è stato forte,
raggiungendo il 39,2%. Ancora una volta ad avere un ruolo decisivo è stato
l’incremento dei decessi registrati al Nord, con un +74,3%, mentre al Centro
l’aumento è stato del 12,6% e al Sud del 6,8%.
Vedremo
quali saranno i dati ufficiali per i mesi di questa seconda ondata, ma fin da
ora possiamo prevedere che purtroppo il bilancio anche per essi sarà
pesantemente negativo. In ogni caso, la favola del complotto volto a
drammatizzare una semplice influenza, per oscuri interessi economici e
politici, è nettamente smentita.
La morte in
prima pagina…
Con la
pandemia la morte, dunque, miete in Italia (e non solo in Italia) più vittime
di quante non ne abbia mai fatte, almeno in tempo di pace. Ma, soprattutto, è,
per così dire, “uscita allo scoperto”, riempiendo le pagine dei nostri giornali
e i servizi dei nostri notiziari. Ormai ogni giorno le une e gli altri si
aprono con il bollettino in cui si annuncia il numero dei decessi del giorno
precedente. Un duro risveglio, per chi comincia la sua giornata.
…dopo essere
stata a lungo esorcizzata
Ma forse si
tratta di un risveglio in un senso più profondo, per tutta una società che da
molto tempo ormai esorcizzava la morte con ogni mezzo, cercando di
dimenticarsene. Di essa quasi non si parlava più. E quando si era costretti a
farlo, si evitava perfino di nominarla, ricorrendo a circonlocuzioni per
indicarla.
In realtà è
tutto un costume sociale che a lungo l’ha, per così dire, “nascosta”. In altre
epoche intorno al moribondo si riuniva la famiglia, bambini compresi, per
confortarlo e ascoltare le sue ultime parole. E le tombe erano intorno alle
chiese (così è ancora, in alcuni paesini dell’Alto Adige) o, addirittura, per i
personaggi più illustri, dentro di esse. La memoria dei propri morti era dunque
almeno settimanale, con la frequenza alla messa
Invece,
nella nostra società, in occasione della morte di un familiare si mandano i
figli da un’amica, perché non siano presenti e non “si impressionino”. E i
cimiteri, dopo l’editto di Saint-Cloud, ricordato da Foscolo nei Sepolcri,
vengono situati (peraltro per validi motivi igienici) fuori dei centri abitati,
per essere visitati una volta l’anno. Sono solo degli esempi. Al fondo, c’è il
rifiuto di prendere atto di questo scomodo appuntamento con la propria fine,
anche se, a pensarci bene, esso è l’unico che in un’esistenza umana è
assolutamente sicuro. A ricordarlo, evidenziando la relatività di tanti
programmi, di tante ansietà e di tanti conflitti, si rischia di attirarsi la
triste fama di jettatore e di essere emarginato.
La fuga
dalla morte
Pascal ha
efficacemente illuminato il retroterra culturale e spirituale di questa “fuga
dalla morte”. Più che mai attuali sono le sue riflessioni su quello che egli
chiamava «divertissement», vale a dire sulla “distrazione” con cui
cerchiamo di stordirci per sfuggire al pensiero della morte, tuffandoci in
mille occupazioni e preoccupazioni che ci distolgono da esso.
«Gli uomini»
– spiega il filosofo francese – «non avendo potuto guarire la morte,
la miseria, l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici». Da
qui, secondo lui, la frenetica corsa che egli già, nel XVII secolo, registrava
nella società del suo tempo: «Così si spiega perché sono così ricercati il
gioco, la conversazione delle donne, la guerra, le grandi cariche. Non già che
in queste cose ci sia effettivamente della felicità, né che si pensi che la
vera beatitudine consiste nel possedere il denaro che si può guadagnare al
gioco, oppure nell’inseguire una lepre; queste cose, se ci fossero offerte, non
le vorremmo. Noi (…) cerchiamo proprio il trambusto che ci distoglie dal
pensare [alla morte] e ci distrae. Questa è la ragione per cui si gusta più la
caccia che la preda. Per questo gli uomini amano tanto il rumore e il
trambusto; per questo la prigione è un supplizio così orribile; per questo il
piacere della solitudine è una cosa incomprensibile (…) Questo è tutto quello
che gli uomini hanno potuto inventare per diventare felici. E quelli che fanno
i filosofi su questo e credono che il mondo sia troppo poco ragionevole nel
passare tutto il giorno a correre dietro a una lepre che non accetterebbero se
comprata, non conoscono la nostra natura. Quella lepre non ci garantirebbe
dalla visione della morte e delle miserie, ma la caccia, che ce ne distoglie,
ci garantisce».
Costretti
dalla morte a pensare alla vita
Sono passati
quasi quattro secoli, ma il quadro tracciato dal filosofo francese si applica
perfettamente alla iper-attiva società industrializzata in cui siamo immersi.
In essa non c’è più il tempo per pensare in generale, figurarsi alla morte. Il
lavoro e lo svago, incalzati entrambi dal medesimo ritmo frenetico, funzionano
benissimo come anestetico.
La pandemia,
con la sua irruzione, ha rotto questo incantesimo, rendendoci impossibile
“distrarci” dalla malattia e dalla morte. Il coronavirus ha evidenziato la
fragilità esistenziale dell’essere umano e la precarietà delle sue sicurezze e
dei suoi progetti. Sia al livello individuale che a quello collettivo abbiamo
toccato con mano la relatività delle nostre costruzioni e dei nostri calcoli
per raggiungere il successo. Abbiamo di nuovo dovuto prendere coscienza della
nostra finitezza.
Ci sono, è
vero, quelli che reagiscono a questo messaggio chiudendo gli occhi sulla realtà
e continuando a stordirsi. Ma gli spiriti meno superficiali sono indotti a
riflettere, favoriti in questo anche dalla relativa immobilità a cui siamo
spinti dalle misure sanitarie. E da questa riflessione può riemergere
l’autenticità del nostro volto umano, con le sue paure, ma anche con la gioia
di vivere. Perché la morte, da sempre, ci costringe a interrogarci sul senso
della vita.
La partita a
scacchi con la Morte
Nel suo
film Il settimo sigillo (1957), il regista Ingmar Bergman ha
espresso tutto questo immaginando che – nel suo viaggio di ritorno dalla
Crociata, dove ha cercato Dio vanamente – il nobile cavaliere Antonius
Block si imbatta nella Morte. Allo scopo di guadagnare tempo per la sua incompiuta
ricerca esistenziale, Block sfida l’oscura visitatrice a una partita a scacchi,
la cui posta è la sua stessa vita. E tutto il cammino del cavaliere sarà
scandito dalle tappe di questo duello, le cui fasi giocate sulla scacchiera
rispecchiano le travagliate vicende del suo viaggio reale in cerca di una
risposta.
Alla fine,
il cavaliere perderà la sua partita. Ma avrà imparato molte cose e stabilito un
rapporto nuovo con se stesso e con gli altri. Forse il coronavirus, invitandoci
a giocare a scacchi con la Morte, può offrirci l’occasione di capire meglio
anche noi la nostra vita.
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