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di Giuseppe Savagnone
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Le cronache degli ultimi giorni di questo drammatico 2020
sono state piene delle notizie sui vaccini, a cui sembrano appigliarsi tutte le
speranze del nostro pianeta. Ed è perfettamente comprensibile che, in un
contesto in cui ancora nel mondo i contagi, i ricoveri in terapia intensiva e i
decessi si contano a migliaia, il problema della sopravvivenza fisica sia in
primo piano.
Qualcosa di analogo vale sul piano dell’economia. Anche qui
il vaccino viene visto come una possibilità di salvezza per un sistema
profondamente scosso dalla pandemia, che ha dovuto realisticamente sostituire
alle rosee previsioni di crescita, ancora credibili nel gennaio scorso, con
l’amaro bilancio delle perdite degli ultimi mesi e si aggrappa disperatamente
ad ogni promessa di ritorno alla normalità per poter contare su un recupero.
Ritornare alla normalità
Al di là del problema sanitario e di quello economico, alla
base di questa ansiosa attesa della vaccinazione di massa ce n’è anche uno più
ampiamente umano che riguarda le condizioni di vita imposte dal coronavirus.
Soprattutto per quanto riguarda la sfera delle relazioni umane, siamo stati
tutti pesantemente penalizzati e non vediamo l’ora, dopo aver fatto una vera e
propria scorpacciata di rapporti puramente virtuali sul web, di poter
riprendere dei rapporti “in presenza”. Anche questo ritorno alla normalità in
fondo è una questione di sopravvivenza. Non ce la facciamo più.
Benvenuti, allora i vaccini, pur con tutti i problemi e le
polemiche che stanno segnando l’inizio della loro distribuzione. Augurandoci
che i tempi – già abbastanza lunghi – previsti per la loro somministrazione
alle diverse fasce della popolazione, non si dilatino per disfunzioni
organizzative e cattiva gestione.
Vivere e sopravvivere
Detto ciò, non possiamo fare a meno di constatare che il 2021
si apre all’insegna della rinunzia a qualsiasi cosa vada oltre la mera
sopravvivenza. E questo, come già notava Aristotele, può andare bene per le
altre specie animali, ma non per gli esseri umani. Perché noi non possiamo
accontentarci di sopravvivere, vogliamo vivere. E questo è molto di più.
Dobbiamo chiederci onestamente, però, se sia stato il covid
ad aver ridimensionato così drammaticamente le nostre legittime aspirazioni a
una vita piena, o se, in fondo, la “normalità” a cui eravamo abituati, e che la
pandemia ha improvvisamente scardinato, non fosse già segnata da questa
rassegnazione. In altri termini, se, a prescindere dal coronavirus, gli uomini
e le donne del progredito Occidente non si trovassero già da tempo nella
condizione di sopravvivere, piuttosto che di vivere.
«L’uomo a una dimensione»
Ritorna alla mente un libro che fu quasi un manifesto per i
movimenti studenteschi del Sessantotto, «L’uomo a una dimensione», di Herbert
Marcuse. Vi si denunciava l’appiattimento delle persone sull’esistente – e la
loro conseguente incapacità di immaginare alternative radicali ad esso –
determinati da un sistema neocapitalistico che il progresso tecnologico ha reso
sempre più capace di controllare le coscienze e di orientare le scelte,
nascondendo questo sostanziale asservimento degli individui dietro un’apparente
libertà.
Sappiamo tutti delle intemperanze di questa stagione, del suo
fallimento, del “riflusso” che esso, per contraccolpo, determinò. Eppure non ci
si può non chiedere se il libro di Marcuse, oggi totalmente dimenticato, non
contenesse un’anima di verità, forse troppo inquietante per non essere rimossa
dalla coscienza collettiva.
Davvero sono morte tutte le ideologie?
Qualcuno obietterà che quello era ancora il tempo delle
ideologie e che esse sono morte per sempre. Ma siamo così sicuri che il nostro
attuale modo di pensare e di vivere – fondato sul primato assoluto
dell’individuo e dei suoi diritti, sulla logica del possesso, sulla corsa alla
soddisfazione di bisogni creati in buona parte dalla pubblicità – non sia
ideologico?
Immaginiamo, per un momento, che tutte le ideologie siano
state sconfitte da una tra loro, la più potente, e che questa sia stata e
continui ad essere così potente da far credere di non essere un’ideologia, ma
semplicemente la verità delle cose, il loro inevitabile corso, a cui sarebbe
vano opporsi.
E se questo clima culturale ci soffocasse?
Immaginiamo – sempre per ipotesi – che le certezze di cui
sopra si diceva e che oggi sono dominanti tra gli intellettuali, siano “di
destra” o “di sinistra” – tanto che chi osa metterle in dubbio appare come un
reazionario oscurantista, da commiserare –, non siano così indiscutibili come
(quasi) tutti credono, ma si reggano su un conformismo di massa che esonera
dalle domande.
Immaginiamo che crescere nel clima di questo individualismo
narcisistico e possessivo, che rende i rapporti umani, anche i più
significativi (penso al matrimonio) inevitabilmente provvisori, che sostituisce
la ricerca sempre insoddisfatta del benessere a quella della felicità (perché
benessere e felicità non sono la stessa cosa!), che impedisce di cooperare
insieme in vista di un bene comune anteposto agli interessi dei singoli, spenga
l’aspirazione a dare alla propria vita un senso più pieno, la capacità di
desiderare e di sperare qualcosa di più grande che l’appagamento immediato.
Immaginiamo – solo per un momento – che questa sia la
“normalità” a cui ci eravamo abituati prima del coronavirus. Non sarebbe quello
che chiamavamo “sopravvivere” e che contrapponevamo a un più pienamente umano
“vivere?
«L’attimo fuggente»
Se tutto questo fosse vero, se non si trattasse solo di
ipotesi immaginarie, si capirebbe perché in questo tempo – a differenza che
nelle epoche precedenti – i sogni più audaci dei giovani non vadano oltre le
tappe della loro realizzazione individuale, sul modello di quel film, bello
quanto fuorviante, che è «L’attimo fuggente», non erano mai nemmeno menzionati
i poveri, le ingiustizie sociali, la discriminazione razziale, perché ciò che
contava era «succhiare il midollo della vita», ognuno per conto suo. In passato
i ragazzi avevano degli ideali – anche sbagliati – per cui vivere e morire.
Ogni è difficile trovarne uno che sia disposto a donarsi a una causa più grande
di lui e del suo successo nella vita.
Auguri di Capodanno
Dobbiamo sperare, certamente, che il nuovo anno ci porti, col
vaccino, la vittoria sul coronavirus. Ma questo ci basterebbe solo per tornare
a sopravvivere, come facevamo prima. Forse non è troppo che coltiviamo una
speranza più grande e più ambiziosa. E che, in questo capodanno, ci auguriamo
di riscoprire, nel 2021, orizzonti più vasti, che ci permettano di assaporare
di nuovo, sfidando il conformismo, la pienezza della vita.
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