mercoledì 2 dicembre 2020

LA LEGGENDA DEL CEPPO DI NATALE

 L’inverno era arrivato da poco e aveva coperto di neve il fianco della montagna.

Era quasi Natale. In una piccola baita di legno, vivevano un ragazzo e la sua sorellina, di qualche anno più piccola; insieme a loro, nella stalla sul retro della casetta, c’erano sei mucche e quattro caprette. Dei genitori, nemmeno l’ombra. La loro mamma era scomparsa quando erano piccini; il padre, che si era sempre preso cura di loro, qualche giorno addietro era uscito di casa per fare la legna e non aveva più fatto ritorno.

Forse era stato aggredito da un animale, o forse era scivolato in un crepaccio; quale che fosse il motivo della sua scomparsa, i bambini erano rimasti da soli e avevano dovuto arrangiarsi. Per fortuna, il fratello maggiore sapeva come accendere il camino, come mungere gli animali e come preparare polenta e stufato.

“Non preoccuparti” diceva sempre alla sua sorellina, “resisteremo fino a quando tornerà il papà”. Si sforzava di sorridere ma, per ogni giorno che passava, sempre più neve cadeva sulla montagna e seppelliva anche la sua speranza di rivederlo.

Una mattina, il giovane portò fuori di casa il secchio della cenere, poi andò nella stalla per cambiare il fieno agli animali. La sua sorellina si coprì con una spessa coperta di lana e uscì per aiutarlo ma, passando accanto alla legnaia, vide qualcosa che brillava tra la cenere: era carbone ardente, ma sembrava una stella luccicante. La bambina infilò una manina nel secchio, per afferrarla; del resto aveva appena cinque anni, cosa poteva saperne del fuoco e dei suoi pericoli? Non riuscì nemmeno a sfiorare la brace, perché si scottò la punta delle dita.

“Ahi” strillò, lasciando cadere la coperta sul secchio, poi corse nella stalla, per farsi medicare dal suo fratellone. “Cos’è successo?” chiese lui. “C’era qualcosa nella cenere: brillava come le stelle. Volevo raccoglierlo, ma scottava”.

“Erano carboni ardenti” disse secco il ragazzo, alzando la voce. “Potevi farti male”. Abbracciò la sorella, che tremava, in silenzio, poi si sfilò il maglione di lana per coprirla.
“Per fortuna non è niente di grave”.

In quel momento, la stalla si riempì di fumo. Il ragazzo uscì a passo svelto e si fermò sulla soglia, immobile. La legnaia andava a fuoco; quando sua sorella era corsa da lui, aveva lasciato la sua coperta sul secchio con la brace. Il tessuto aveva preso fuoco e in un attimo aveva incendiato anche la legna su cui era posata. Il ragazzo provò a buttare della neve sulle fiamme, ma fu inutile: ormai l’incendio divampava e non c’era modo di fermarlo. Fu così che la legnaia andò distrutta.

“E adesso, come ci scalderemo?” chiese la bambina al fratello. “Non lo so”, rispose lui scuotendo le spalle, con le guance rigate dalle lacrime; “avresti dovuto pensarci prima di giocare con la brace”. Come avrebbe potuto badare a sua sorella se non aveva più legna per accendere il camino?

Quella notte non chiuse occhio: la passò abbracciato a sua sorella, dopo averla avvolta con tutte le coperte e le pellicce che riuscì a trovare. La mattina seguente il ragazzo si alzò all’alba e si vestì, per uscire. “Andrò a cercare della legna, ma tu devi rimanere qui” disse severo alla sorellina. “Ma ho paura”, piagnucolò lei. “So che hai paura. Ma la nostra legnaia è distrutta, e se non trovo qualcosa da bruciare non sopravvivremo a lungo. So dove andava papà a fare la legna, magari ha lasciato dei rami e dei ciocchi”.

La bambina si asciugò le lacrime e si morse la lingua: non voleva scoppiare a piangere adesso, non dopo il guaio che aveva combinato. Il giovane prese uno slittino e delle corde per caricare la legna, si legò ai piedi le racchette da neve e partì, non appena la luce del Sole rischiarò la strada.

Com’era bello l’inverno: i raggi del Sole si riflettevano sui cristalli di neve e gettavano bagliori dorati qua e là: sembrava di essere in paradiso. Ogni tanto, il vento spazzava la montagna e un sottile velo di neve copriva il volto del ragazzo, come polvere incantata. Certo, sarebbe stato ancora più bello con la legnaia al suo posto, il camino crepitante e mamma e papà insieme a loro, nella baita.

Il ragazzo conosceva bene il sentiero: bastava cercare i tronchi degli alberi con taglio a forma di croce: era stato suo padre a fare quei tagli, per riconoscere la strada che portava al bosco. Dopo due ore di strada, raggiunse i primi alberi: era lì che facevano la legna. Ormai la neve aveva coperto tutto: non c’erano rami, nè ciocchi di legna da portare a casa. La sua fatica era stata inutile? Ad un tratto, fu abbagliato da un luccichio; veniva da un abete.

Tra le fronde verdi, ammantate di bianco si intravedeva il tronco dell’albero, libero dalla neve: sembrava il nascondiglio di una fata. Il ragazzo si avvicinò e pregò. “Fa’ che ci sia una fata vera, di quelle che aiutano i bambini, come nelle storie che ci raccontava papà, accanto al fuoco”.

Tuttavia, l’albero non nascondeva fate o folletti: era stata la lama di un coltello ad accecarlo. Aveva l’aria familiare: sul manico, d’osso, erano incisi dei fiori. Dove lo aveva già visto? “Ma certo, quello è il coltello del papà”. Il giovane allungò un braccio per raccoglierlo e si accorse che era conficcato dentro qualcosa, così cominciò a scavare con le mani per liberarlo e si accorse che la lama era piantata dentro un grosso ceppo di legno, perfettamente rotondo, alto tre piedi e largo almeno un metro.

“Questo ceppo,” pensò il ragazzo, “se solo riuscissi a portarlo a casa, potremmo scaldarci per giorni”. Fece alcuni tentativi, ma era troppo pesante per sollevarlo. Mentre tentava di caricarlo sulla slitta lo osservò: la sua corteccia liscia formava un cerchio perfetto. Fu allora che ebbe un’idea. “Non riesco a sollevarlo da solo, ma forse potrei provare a farlo rotolare fino alla baita. La neve è spessa e lo rallenterà abbastanza perché io riesca a fermarlo”.
Legò la corda intorno al ceppo, per assicurarlo, e cominciò a spingerlo giù: lentamente, il legno si smosse e cominciò a muoversi. 
Il ceppo rotolava piano, affondando nella neve e talvolta cominciava a traballare, come si avesse dovuto rovesciarsi da un momento all’altro. Allora, il ragazzo si affrettava a fermarlo e a tenerlo in piedi con tutta la sua forza, poi, delicatamente, riprendeva a muoverlo.

Quando arrivò alla baita il giovane aveva le dita delle mani e dei piedi gelate, ma era riuscito a portare quel grande ceppo con sé, fino a casa. Chiamò la sua sorellina e insieme lo spinsero fino al grande camino di pietra, dove lo rovesciarono nella cenere. Insieme, fratello e sorella scavarono il legno, per formare una piccola cavità al centro del tronco. La riempirono con scarti di legno, carta e resina e poi accesero il fuoco. Crepitando, il ceppo si accese: le fiamme illuminarono la baita e il fuoco la riscaldò. Erano salvi.

Il ceppo continuò a bruciare per una settimana intera, e non si era ancora spento quando i ragazzi sentirono qualcuno bussare alla porta; corsero insieme ad aprire e rimasero senza parole.
“Papà!”

Fratello e sorella abbracciarono il padre così forte che per poco non si rovesciarono tutti e tre per terra; lo accompagnarono in casa correndo, saltando e cantando per la gioia. Gli raccontarono delle loro disavventure: di come erano sopravvissuti senza di lui, di come, senza volerlo, avevano incendiato la legnaia, della spedizione nella neve e di quel ciocco, che li aveva salvati.

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