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sabato 18 gennaio 2025

RIPENSARE LA FRATELLANZA


 Come si diviene fratelli e sorelle al di là del mito della consanguineità?

 Si tratta di realizzare un legame solidale discreto senza la pretesa che tutto sia condiviso.

Senza annullare l’esistenza separata dell’altro.

Senza voler a tutti costi costringere il reale del Due 

dentro il recinto chiuso dell’Uno.

-  di Massimo Recalcati 

A proposito del conflitto israeliano-palestinese diversi commentatori politici hanno fatto notare come uno degli ostacoli maggiori di fronte all’ipotesi dei Due popoli in Due Stati sia la presenza di spinte fondamentaliste di tipo religioso attive da ambo le parti. È una osservazione che condivido perché il discorso religioso quando viene sequestrato dal fanatismo fondamentalista tende sempre a imporre l’Uno sul Due. In questo senso esso sarebbe strutturalmente allergico al principio della democrazia che è invece sempre un’esperienza radicale del lutto dell’Uno nel nome del Due. 

Varrebbe la pena a questo proposito ricordare che il primo moto che orienta i legami tra i fratelli non è quello della fratellanza ma quello dell’odio e dell’inimicizia: l’odio è più antico dell’amore, il ripudio del fratello o della sorella più originario rispetto alla loro accoglienza. Questo per una ragione evidente: la nascita del fratello o della sorella impone un decentramento inevitabile alla vita del figlio, il quale è costretto a esporsi giocoforza al regime plurale del Due, all’impossibilità di essere un Uno tutto solo. 

 In gioco è la difficile esperienza del lutto dell’Uno. Non è, infatti, possibile sottrarsi all’incontro traumatico con il Due, non è possibile consistere solo di se stessi. 

 Accade, come sanno bene gli psicoanalisti, anche ai cosiddetti figli unici. Essi non solo vivono sospesi al fantasma sempre in agguato della nascita di un possibile fratello o sorella, ma molto spesso si trovano nella necessità narcisistica di ribadire costantemente la loro condizione di superiorità. 

Non a caso Franco Fornari, che fu mio professore all’Università Statale di Milano nei primi anni Ottanta, quando qualche studente indugiava troppo nel formulare in aula domande che assomigliavano più a veri e propri interventi, usava chiedere loro, con aria un po’ maliziosa: «Mi scusi, ma lei è figlio unico?». 

Sapeva bene il mio vecchio professore quanto l’esistenza di un fratello o di una sorella introduca nella vita del figlio l’esperienza benefica, sebbene traumatica, di un limite e quanto sia difficile accettarne l’esistenza. 

Nella prospettiva della psicoanalisi i legami fraterni o di sorellanza rischiano da una parte la fusione incestuosa, la spinta a costituire un solo tragico corpo come accade ai gemelli ginecologi raccontati da Cronenberg negli Inseparabili. L’illusione della consanguineità favorisce questa distorsione perversa: il Due sarebbe solo una manifestazione apparente della sostanza inscalfibile dell’Uno. 

Non a caso tutti i deliri totalitari sono ossessionati dalla negazione di ogni forma di plurilinguismo. 

Per un’altra parte però i fratelli e le sorelle rischiano il conflitto aperto, la lotta senza esclusione di colpi, l’aggressività inesausta di una rivalità irriducibile (Romolo e Remo, Caino e Abele, Giacobbe e Esaù, ecc). È l’altra faccia della stessa medaglia poiché sia la follia della fusione sia quella della rivalità fratricida vorrebbero sopprimere il Due. 

Il mito di Narciso che si specchia nella rappresentazione ideale di se stesso converge in questo senso con quello di Caino che uccide il fratello Abele, mosso dall’invidia nei confronti di chi incarnava il proprio ideale. Invece di intraprendere il lutto dell’Uno imposto dall’esistenza del Due, Caino vorrebbe, infatti, cancellare per sempre il Due al fine di continuare a essere “l’unico” e il “solo” figlio. 

È questo uno dei complessi psichici a fondamento del fenomeno collettivo della guerra: difesa a oltranza dell’Uno di fronte alla minaccia destabilizzante del Due. Non a caso i vissuti che scaturiscono dalla nascita di un fratello e di una sorella non sono mai solo di gioia, ma evocano sempre anche l’intrusione e l’esclusione. Il fratello e la sorella incarnano, infatti, la minaccia sempre possibile della nostra sostituzione. Si tratta di una esperienza di intrusione che ha come effetto principale una espropriazione: “il mio posto è stato preso da un altro”. 

Ma come si diviene fratelli e sorelle al di là del mito della consanguineità che sostiene l’illusione fondamentalista dell’Uno che vorrebbe escludere il Due? Come si realizza una fratellanza e una sorellanza che non siano preda dell’odio? Si tratta di realizzare un legame solidale discreto senza la pretesa che tutto sia condiviso, senza annullare l’esistenza separata dell’altro, senza voler a tutti costi costringere il reale del Due dentro il recinto chiuso dell’Uno. 

È quello che possiamo trovare nel gesto solo apparentemente enigmatico con il quale Esaù e Giacobbe si abbracciano lasciandosi alle spalle la lotta a morte per il loro prestigio, decidendo però di seguire due cammini differenti, di rimanere Due. 

Ne L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio è quello che viene descritto attraverso l’amore della protagonista per una sorella la cui differenza radicale assomiglia all’estraneità anarchica del mare. 

Accade, insomma, ogni volta che la nostra vita sceglie la vertigine del Due rinunciando a volere fare e essere: Uno con l’altro.

Alzogliocchiversoilcielo

venerdì 20 settembre 2024

IDENTITA' e FRATELLANZA

 






-         di Enzo Bianchi


 Se l’amore e l’amicizia sono ricerca, custodia e coltivazione di un legame fondato sull’esercizio libero dell’amore quale dono, la fraternità nasce come «legame già dato grazie all’origine, per il quale si crea una reciprocità in cui ci si custodisce». L’amore e l’amicizia conoscono la possibilità della fine, della caduta; la fraternità no, perché si è fratelli e sorelle per sempre e nessuno sceglie i propri fratelli e sorelle. Ma questo status della fraternità è nel contempo un dono e un compito; siamo nello stesso ordine della communitas, luogo del cum-munus, nel doppio significato di “dono” e di “dovere” comune: come la comunità, anche la fraternità è condivisione del dono, del dovere, della responsabilità, e anche nella fraternità vi è un debito che ciascuno vive verso gli altri. 

 Il figlio che riceve la notizia della nascita di un fratello vede mutare la propria condizione di unicità.

È decisivo che compia una scelta libera di decentramento del proprio io per riconoscere un’alterità con la quale si instaura un legame dato, non scelto. Questo passaggio dal dono al compito, questa accettazione del limite intervenuto con la presenza del fratello o della sorella richiede che si metta a morte l’“unicità”, che si vinca la paura di perdere “l’unico posto”. Ed è qui, al cuore della fraternità, che riemerge la paura dell’altro, la possibilità che l’altro sia l’inferno e, in definitiva, la paura della morte. Vivere la fraternità è dunque la prima vocazione umana, il compito per eccellenza: solo così la vita conosce la convivenza, la comunità, ed è vita buona in pienezza, attraverso la quale uomini e donne si umanizzano. In questo senso, vorrei tracciare alcune linee generali per vivere la fraternità.

 La prima esigenza è l’accettazione incondizionata del fratello e della sorella: mi sono stati affidati dal momento del loro apparire davanti a me e accanto a me. Il loro esserci richiede che non si pongano condizioni alla relazione fraterna. Alle radici della fraternità c’è il rispetto assoluto per l’altro, il suo riconoscimento. Il fratello/la sorella, non si scelgono, sono un fratello/una sorella in umanità perché esseri umani come me, sono un fratello/una sorella nella chiesa perché battezzati come me, sono membri della mia comunità perché ne fanno parte come me attraverso un’alleanza.

 Una seconda esigenza per vivere la fraternità è l’assunzione di responsabilità degli uni verso gli altri. «Sono forse io il custode di mio fratello?». In questa domanda si cela la grande tentazione di rinnegare la responsabilità. Eppure, l’altro, il fratello di fronte a me, è di per sé invocazione, domanda che chiede la mia risposta, l’assunzione di una responsabilità nei suoi confronti. La tentazione che ci abita è sempre la demissione, espressa dal «non so» di Caino. È rimuovere la presenza del fratello o della sorella, per non assumere una responsabilità che è sempre un decentramento da sé e un farsi carico della custodia dell’altro. In realtà non vedere, non discernere il fratello, non prendersi cura di lui quando è nel bisogno, è già un percorrere una via omicida. A causa della nostra omissione l’altro può trovare la morte!

 Infine, per vivere la fraternità, si richiede la solidarietà come esigenza di comunione. Quella della solidarietà, cioè della cura e della custodia reciproca, è forse l’esperienza più attestata di fraternità realmente vissuta. Questo vale per tutti i generi di vita: in particolare la famiglia è il primo luogo della solidarietà, lo spazio nel quale ogni gesto o comportamento richiede reciprocità, perché ciascuno possa vivere la cura e la custodia dell’altro.

 Nel Nuovo Testamento, soprattutto nella predicazione paolina, ricorre con insistenza il pronome allélon, “gli uni gli altri”, che indica con forza il compito della solidarietà. Spesso Paolo chiede ai cristiani delle diverse comunità di stimarsi a vicenda, di avere gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri, di accogliersi gli uni gli altri, di correggersi gli uni gli altri, di aspettarsi gli uni gli altri, di avere cura gli uni degli altri, di confortarsi, di sopportarsi, di vivere in pace, di portare i pesi gli uni degli altri... Molti sono i passi che con tengono questo pronome, e sono passi in cui l’accento cade sempre sulla solidarietà reciproca, sulla reciprocità vissuta nella gratuità e nella consapevolezza che il fratello può amare il fratello solo perché prima è stato amato da Cristo.

 Inoltre, non si può dimenticare la frequenza con cui ricorre nelle lettere paoline la preposizione sýn, “con”, “insieme”, unita a numerosi verbi: lavorare insieme, rallegrarsi insieme, soffrire insieme, pregare insieme, sentire insieme, camminare insieme... Nella fraternità non si è “mai senza l’altro” ma sempre sýn, insieme. La compagnia del vivere insieme comporta addirittura l’assurdo logico del morire insieme, come viene indicato dall’Apostolo: voi fratelli «siete nel nostro cuore, per morire insieme e vivere insieme» (ad commoriendum et ad convivendum: 2Cor 7,3). Con questa preposizione, sýn, sono formati anche i sostantivi sinodo – di cui sopra – e sinassi, nomi della chiesa che pongono l’accento proprio sull’agire e sul camminare (cioè sull’essere) insieme.

 “Reciprocità” (allélon) e “insieme” (sýn) sono le costanti della solidarietà fraterna. Risulta dunque evidente che la fraternità implica l’esercizio del comandamento dell’amore del prossimo, del comandamento nuovo, cioè ultimo e definitivo, lasciatoci da Gesù: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri (allélous). Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri (allélous)» (Gv 13,34). Non me, ma gli uni gli altri, dice Gesù! Questa fraternità vissuta nell’amore reciproco sarà il segno tangibile dell’essere discepoli di Gesù, secondo quanto egli stesso ha indicato: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri (en allélois)» (Gv 13,35). È la realtà della fraternità! Una realtà che, tra l’altro, costituisce uno degli aspetti dell’inesauribile mistero dell’eucaristia: «Il servizio fraterno all’interno della comunità è in certo qual modo la res del sacramento... La fraternità che l’ultima cena suggella si cementa nel servizio reciproco, nel dono dell’uno all’altro di cui Gesù è sorgente ed esempio».

 È dunque nell’amore fraterno che si può cogliere il sigillo della “differenza cristiana”, che si manifesta in uno stile di vita all’insegna della fraternità e della comunione. Ed è da questo essere una fraternità che può discendere anche quel paradossale “bel comportamento” (1Pt 2,12) così descritto da Tertulliano, il quale non fa che riassumere l’insegnamento biblico: [Il Signore dice:] «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi calunniano» (Lc 6,27-28). Il Creatore aveva racchiuso tutto questo in una sola frase, per bocca di Isaia: «Dite: “Siete nostri fratelli” a coloro che vi odiano» (Is 66,5).

 Alzogliocchiversoilcielo

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martedì 10 ottobre 2023

VIANDANTE o VIAGGIATORE ?



 “Non lo Stato, 

ma la fratellanza 

e la cura della nostra Terra 

sono l’unica etica possibile”


Può essere considerata – e alcuni critici lo hanno fatto – come la summa del suo pensiero, il “lavoro di una vita”. L’etica del viandante (Feltrinelli) è l’ultima opera del filosofo, psicoanalista e docente Umberto Galimberti.

 Torna al centro della sua argomentazione l’età della tecnica secondo cui la storia non è più iscritta in un fine – e di cui aveva parlato in Psiche e tecne. L’uomo nell’età della tecnica (1998) e La morte dell’agire e il primato del fare nell’età della tecnica (2009). E lo fa per compiere letteralmente un passo ulteriore.

 Quello di proporre una nuova etica, l’unica possibile in un mondo che ha perso l’incanto degli antichi – del tempo ciclico dei greci e di quello escatologico della tradizione giudaico-cristiana – e dei moderni, con la loro fede nell’Umanesimo della scienza e del progresso.

 Ecco che la figura del viandante, colui che non ha una destinazione, a differenza del viaggiatore, che attraversa la terra senza possederla, si fa portavoce di un’etica planetaria e cosmopolita che risponde all’imperativo ecologico. Al centro non ci sono più né l’uomo, né lo Stato con i suoi confini. C’è la vita e una comunione fraterna con l’altro da sé: uomo, animale o pianta che sia. Il nomadismo del viandante non va tuttavia inteso come anarchica erranza. È un abitare il mondo nella casualità della sua innocenza, non pregiudicata da alcuna anticipazione di senso.

 Un senso che il nazismo, da un lato, e l’atomica dall’altro, avevano spazzato via secondo quanto sostenuto dal filosofo argentino Miguel Benasayag: “‘Chi pensa bene pensa il bene,’ diceva la Modernità. Dopo la Seconda guerra mondiale, questa frase perde tutto il senso che aveva. Con il fenomeno del nazismo e la programmazione della Shoah si è assistito, infatti, alla possibilità di pensare – anche in modo eccellente – il male. La speranza nella ragione che doveva, se ben utilizzata, condurre al ‘bene’ è stata confutata dai fatti e non ha più senso di esistere”.

 Il dibattito scaturito dal biopic di Christopher Nolan sul padre dell’atomica, Oppenheimer, così come gli interrogativi sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale o l’irrisolta questione migratoria trovano spazio in questo saggio, che è un invito ad esporci all’insolito. E a non averne paura. Come testimonia Umberto Galimberti in questa intervista per il Libraio.

 Professor Galimberti, l’etica del viandante parte da Nietzsche, dalla distinzione tra viandante e viaggiatore.

“L’etica del viandante è un’etica nuova, necessaria, perché nell’età della tecnica tutte le etiche dell’Occidente sono implose. Come fa l’etica a dire alla tecnica di non fare ciò che può? Tutte le etiche che abbiamo formulato, che sono etiche antropologiche in quanto mettono l’uomo al centro dell’universo, non funzionano più”.

Se l’uomo non è più al centro, cosa lo è?

“Occorre proporre un’etica biocentrica, dal greco bios che significa vita. La vita c’era prima dell’uomo e ci sarà dopo la sua scomparsa. E se la specie è ciò che unifica etnie, tribù, popolazioni, la specie deve salvare la terra che è l’unica nostra patria, molto prima della patria nativa”.

Al punto da abbandonare il concetto stesso di Stato.

“Assolutamente sì, perché per fare un’etica planetaria è necessaria la soppressione degli Stati perché lo Stato stabilisce la pace all’interno dei suoi confini, mentre aldilà dei suoi confini tollera la guerra. D’altronde tecnica e mercato, con il loro carattere transnazionale, hanno già abbandonato l’idea di Stato, che ormai sembra esistere unicamente per difenderci dai disperati della terra”.

E lei a questa logica contrappone quella della fratellanza.

“Per fare un’etica collettiva va ripreso il concetto di fraternità. La Rivoluzione francese aveva professato liberté, égalité, fraternité. Con la liberté abbiamo dato vita alla cultura liberaldemocratica, con l’égalité a quella socialdemocratica, la fraternité si è persa per strada”.

Come recuperarla?

“Le ferite della terra ci collocano come membri della specie e non come membri dello Stato. E allora alla ragion di Stato si deve sostituire la ragione dell’umanità. Una ragione che non può essere raggiunta sulla base dei valori, perché i valori dividono le popolazioni”.

E su che base?

“Dovremmo farlo sulla base dell’interesse, perché sul piano dell’interesse è possibile la mediazione. Per questo è essenziale fare un passaggio, un’evoluzione: come l’uomo ha fatto un’evoluzione biologica, a differenza dell’animale, così può fare anche un’evoluzione culturale”.

In che modo?

“Come la logica del nemico è riuscita a passare dalla clava alla bomba atomica, così un’evoluzione in direzione della fratellanza può creare un’etica nuova che deve comprendere, però, anche i diritti della natura. Il modello è quello di San Francesco che diceva ‘Fratello sole, sorella luna’. Perché i diritti dell’uomo separati da quelli della natura diventano a loro volta un elemento distruttivo”.

Ha parlato dell’atomica, al centro del film di Nolan Oppenheimer, tratto da un libro che ha come titolo originale Prometeo americano. Un Prometeo scatenato direbbe lei.

“Abbiamo perso il senso del limite che avevano i greci. Loro Prometeo l’avevano incatenato, noi l’abbiamo scatenato. Ma come diceva la sapienza greca, ‘chi non conosce il proprio limite, tema il destino’. Il nostro destino è che stiamo distruggendo la terra”.

Quale può essere il ruolo della letteratura e dell’arte in questo scenario?

“L’arte e la letteratura sono tutte volontà di potenza deboli rispetto alla tecnica, che rappresenta la volontà di potenza forte. Sembra non abbiano rilevanza. La letteratura serve a educare i nostri sentimenti, che è già una cosa buona. Noi riempiamo le scuole di computer, quando è la letteratura che ci insegna cosa sono il dolore e l’amore, la gioia e la speranza. Se queste cose non si hanno in testa quando si affronta l’angoscia, non ci si può salvare”.

Anche la libertà è sempre legata alla tecnica, ne è vincolata.

“Non credo nella libertà. Sono un determinista duro, come i greci. Esiste però l’illusione, l’idea di libertà. E le idee spesso creano più incognite di quanto non facciano le cose. Ma la libertà non esiste per una semplice ragione: confligge con la nostra identità”.

Come?

“Le faccio un esempio. Jean Paul Sartre un giorno andò in montagna, si ruppe una gamba e finì in ospedale. Andò a trovarlo un altro filosofo, Maurice Merleau-Ponty che gli domandò perché non avesse chiesto ad una guida di accompagnarlo. Sartre gli rispose: ‘Io? Non ho bisogno di andare in montagna con una guida’. Ecco l’identità. (Ride, ndr)”.

E la necessità di dare un senso all’esistenza, che risposte può avere?

“Il bisogno di senso non si salva. Non si salva la sua ricerca affannosa, la sua domanda incessante a cui cercano di dare risposta le religioni con le loro promozioni di fede. E nemmeno le pratiche terapeutiche con le loro promozioni di salute. Nell’età della tecnica questa ricerca rivela solo che la figura del ‘senso’ non si è salvata dall’universo dei mezzi. Per cui non è tanto il laicismo quanto la cultura della tecnica a corrodere il trono di Dio”.

Nessuno scopo, dunque, nessuna meta.

“La tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona. È un concetto, questo, che a più riprese Heidegger ribadisce in tutta la sua radicalità: ‘Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare, e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla Terra’”.

Heidegger temeva questa deriva.

“Sempre in quella intervista per lo Spiegel, Heidegger sostiene di essersi spaventato alla vista delle fotografie della Terra scattate dalla Luna. ‘Non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già fatto’, disse. Era il 1966″.

Come ci si pone allora di fronte alla verità?

“La verità non è più la conformità all’ordine del cosmo o di Dio, ma pura e semplice efficacia. Se infatti l’ordine del mondo non dimora più nel suo essere, ma dipende dal ‘fare tecnico’, vero sarà l’efficace, ossia ciò che ha le condizioni per realizzarsi, e falso l’inefficace”.

Da qui l’urgenza di un’etica planetaria,  incarnata dalla figura del viandante.

“Il viandante non ha una meta da realizzare, non ha neanche un sentiero da percorrere. A tracciare il pensiero del viandante sono le sue orme. Cammina per fare esperienza. Il prossimo che incontra è sempre meno specchio di sé e sempre più altro. È costretto a fare i conti con la differenza”.

Il suo viandante può essere paragonato a un moderno Ulisse?

“È più l’Ulisse di Dante che quello di Omero”.

In che senso?

“Quella di cui parlo non è tanto l’Odissea in cui Itaca fa di ogni luogo una semplice tappa sulla via del ritorno. È un’Odissea intesa come ripresa del viaggio, secondo la profezia di Tiresia, per cui è il letto scavato nell’ulivo intorno a cui è stata edificata la reggia a divenire una tappa del successivo andare”.

Da qui il riferimento dantesco.

“Questo andare è quello che Dante riprende, lui stesso viandante, spingendo il suo Ulisse ‘di retro al sol, del mondo sanza gente’, per cui né alba né tramonto possono più indicare non solo la meta, ma neppure la direzione”.

Il viandante, dunque, nell’accezione di Nietzsche, è il navigante verso terre sconosciute.

“Esattamente. Affrancarsi dalla meta significa abbandonarsi alla corrente della vita, non più spettatori, ma naviganti e, in qualche caso, come l’Ulisse dantesco, naufraghi. Nietzsche, che del nomadismo è forse il miglior interprete, così scrive: ‘Se in me è quella voglia di cercare che spinge le vele verso terre non ancora scoperte, se nel mio piacere è un piacere di navigante: se mai gridai giubilante: la costa scomparve – ecco anche la mia ultima catena è caduta –, il senza-fine mugghia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo: orsù! coraggio! vecchio cuore!'”.

Il coraggio di chi intraprende un viaggio di cui non conosce l’esito. Come i migranti.

“Nel nostro tempo abbiamo fatto i conti con la proprietà, il territorio, la legge. Oggi i processi migratori confondono i confini che per il viandante sono più nella testa degli uomini che nel disegno della Terra. Ecco che dalla sua esperienza il viandante trae la conclusione che siamo tutti uomini di frontiera. E la storia futura sarà nel segno della de-territorializzazione. E le nozioni di proprietà, territorio, confine e legge finiranno con l’essere dei rami secchi in un albero inaridito”.

ALZOGLIOCCHIVERSOILCIELO



lunedì 19 dicembre 2022

CON I PIEDI PER TERRA

 Insieme per la pace.

Non è un’utopia.

 

- di MARCO IMPAGLIAZZO -

 Anche il 2023 si apre per la Chiesa con un messaggio di pace al mondo. È dal primo gennaio 1968 che avviene, per iniziativa allora di Paolo VI. Quest’anno papa Francesco ci riporta al grande tema sollevato dalla pandemia: ci si salva soltanto insieme. Mai come dal 2020, anno in cui è iniziato il contagio del Covid-19, abbiamo potuto capire quanto l’intera umanità stia sulla stessa barca e affronti congiunta il mare della vita, nel bene o nel male: perché qualcosa sia davvero autentico e nuovo deve esserlo per tutti, senza escludere nessuno.

Il Papa, nel suo Messaggio, spiega che lo stesso discorso vale, a maggior ragione, per la guerra: se siamo un’unica umanità quando si combatte in un luogo è come se ne fossero coinvolti tutti, ovunque. C’è infatti un’intima solidarietà nella sofferenza come nella speranza. Se qualcuno soffre per la pandemia o per la guerra vuol dire che presto o tardi tutti ne soffriranno. Di conseguenza tutti ne devono essere consapevoli e coinvolti nel dare una risposta comune per superare insieme ogni crisi sanitaria o conflittuale.

Il 2022 è stato segnato dalla guerra in Ucraina, mentre troppi conflitti ereditati dal passato restano aperti. Ma proprio nel buio della notte che viviamo è risuonata più forte la voce della ragionevolezza e della sapienza racchiusa nelle parole di Francesco: «Abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri».

Dare voce all’impegno per realizzare la fratellanza umana è sempre più necessario.

Infatti, l’urgenza che una voce di pace sia sempre presente per essere ascoltata, la osserviamo anche nella vita quotidiana: se in una città si fa la guerra contro qualcuno, ad esempio contro una minoranza o per motivi religiosi o etnici, contro un ceto o una classe o contro i poveri, ecco che questa città si spacca, si divide e si prepara allo scontro di tutti contro tutti. Dentro tale città va fatta risuonare la voce della pace perché qualcuno la ascolti, ridia speranza e cambi il corso delle cose. Così riceviamo le parole di papa Francesco, come un appello alla responsabilità di ognuno a tenere – si legge nel messaggio – «i piedi e il cuore ben piantati sulla terra, capaci di uno sguardo attento sulla realtà e sulle vicende della storia». Un invito a essere vigilanti per non restare spiazzati da eventi che sembrano troppo grandi, come appunto la pandemia o la guerra, e cercare sempre la risposta del “noi” e non quella dei tanti “io” in lotta fra loro.

Lasciarsi andare alla contrapposizione e alla paura può accadere ovunque, anche nei paesi del mondo che possono apparire tra i più aperti e rispettosi dei diritti. Ma l’odio che viene seminato prima o poi si paga e a pagarlo sono soprattutto i più poveri. Per preparare un futuro di pace occorre fare udire con forza la voce della pace. È la ragione per la quale celebrare la Giornata del primo gennaio non è un rituale, ma un’occasione preziosa per ricordare a tutti che vale la pena parlare di pace e di fratellanza umana.

G ià solo parlarne e scriverne ci libera da un clima inquinato dai veleni della guerra, dall’idea che la pace non sia possibile, come anche il vivere insieme, specialmente nel tempo della globalizzazione.

 In questo senso le parole del Messaggio sono come una parabola della pace da raccontare ogni giorno a tutti, un’immaginazione alternativa che sconfigge il duro realismo, dà coraggio ai delusi e rafforza la società intera, non solo la Chiesa che offre questa Giornata a tutti.

La pace è necessaria per il nostro benessere, che però è connesso a quello di tutti. Troppe armi terribili e di distruzione di massa sono prodotte con il rischio che vengano utilizzate, magari per errore, come nel caso delle armi nucleari. Non possiamo accettare che tale destino oscuro incomba su di noi. Ci serve per questo un impegno rinnovato e mai rassegnato a trovare strade di pace, anche perché – come osserva Francesco – «mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra non si sono ancora trovate soluzioni adeguate».

La pace deve essere possibile sempre: è lo spirito con cui il Messaggio ci aiuta a entrare nell’anno nuovo senza mai rinunciare alla speranza che un giorno la guerra sia abolita. Le generazioni passate riuscirono ad abolire la schiavitù: l’onore della nostra generazione potrebbe essere quello di un passo decisivo che abolisca la guerra. Non è un’utopia ma un sogno da realizzare. Nel 2022 abbiamo visto troppa morte per non amare di più la vita in ogni sua fase e stagione. Ripartiamo nel 2023 rimettendo al centro la parola “insieme”, quella che rende tutti più forti.

 www.avvenire.it

 

 

venerdì 4 febbraio 2022

CAMMINARE FIANCO A FIANCO


La fratellanza,

 percorso difficile 

ma è “

ancora di salvezza

 dell'umanità"

 

Videomessaggio di Francesco per la seconda Giornata mondiale della Fratellanza Umana, celebrata all’Expo di Dubai in una tavola rotonda con il cardinale Ayuso e i membri dell’Alto Comitato istituito per promuovere i principi del Documento firmato tre anni fa ad Abu Dhabi dal Papa e dal Grande Imam di Al Azhar Al-Tayyeb: non è tempo di indifferenza, o siamo fratelli o crolla tutto

 

-    di     Alessandro Di Bussolo - Dubai

 Il percorso della fratellanza è lungo e difficile, ma è “l’àncora di salvezza per l’umanità”. Solo contrapponendo alla “logica del conflitto” il “segno della fratellanza”, che sollecita l’altro ad un cammino comune, accogliendolo “e rispettandone l’identità”, eviteremo che “crolli tutto”. Non usa giri di parole, Papa Francesco, nel videomessaggio per la seconda Giornata mondiale della Fratellanza Umana, indetta dalle Nazioni Unite per sollecitare il mondo a “darsi la mano”, per “celebrare la nostra unità nella diversità”, tutti insieme, “solidali l’uno con l’altro”. Perché “non è tempo di indifferenza: o siamo fratelli o crolla tutto”.

I messaggi in video del Papa e del Grande Imam

Il messaggi del Papa e quello ugualmente in video del “caro fratello” Grande Imam di Al Azhar Ahmed Al-Tayyeb, aprono la “Tavola rotonda della Fratellanza Umana e dell’Alleanza per la Tolleranza Globale”, che nel Padiglione della Sostenibilità dell’Expo universale di Dubai 2020 celebra questa seconda Giornata sul tema “Sotto lo stesso cielo” e il terzo anniversario della firma dello storico Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, che ad Abu Dhabi ha dato in via al cammino.

"Abbiamo camminato come fratelli"

Un momento ricordato da Francesco proprio all’inizio del suo messaggio, nel salutare “con affetto e stima” il Grande Imam con il quale firmò la Dichiarazione.

In questi anni abbiamo camminato come fratelli nella consapevolezza che, rispettando le nostre rispettive culture e tradizioni, siamo chiamati a costruire la fratellanza quale barriera contro l’odio, la violenza e l’ingiustizia.

Accogliere chi soffre come un'unica famiglia umana

Il Pontefice ringrazia gli altri “compagni di strada”, a partire dallo sceicco Mohammed bin Zayed, (principe ereditario dell’emirato di Abu Dhabi e vice comandante delle Forze armate degli Emirati Arabi Uniti, n.d.r.), “per il suo costante impegno” nella direzione della Fratellanza, l’Alto Comitato per la Fratellanza Umana “per le varie iniziative promosse in diverse parti del mondo”, e l’Assemblea generale delle Nazioni Unite “perché, con la risoluzione del dicembre 2020, ha permesso di celebrare oggi la seconda Giornata internazionale della Fratellanza Umana. E la gratitudine si estende a tutte le "istituzioni civili e religiose che sostengono questa nobile causa”.

La fratellanza è uno dei valori fondamentali e universali che dovrebbe essere alla base delle relazioni tra i popoli, così che quanti soffrono o sono svantaggiati non si sentano esclusi e dimenticati, ma accolti e, sostenuti come parte dell’unica famiglia umana. Siamo fratelli!

Viviamo tutti sotto uno stesso cielo

Tutti, nel condividere “sentimenti di fratellanza gli uni per gli altri”, è l’appello di Papa Francesco, “dobbiamo farci promotori di una cultura di pace, che incoraggi sviluppo sostenibile, tolleranza, inclusione, comprensione reciproca e solidarietà”. Perché tutti “viviamo sotto lo stesso cielo”, spiega citando il tema della Giornata 2022, “indipendentemente da dove e da come viviamo, dal colore della pelle, dalla religione, dal ceto sociale, dal sesso, dall’età, dalle condizioni di salute e da quelle economiche”.

Siamo tutti diversi eppure tutti uguali, e questo periodo di pandemia ce lo ha dimostrato. Ripeto ancora una volta: da soli non ci si salva! Da soli non ci si salva!

Aiutare i fratelli ad elevare lo sguardo al Cielo

Nel nome di Dio, “noi che siamo sue creature - prosegue il Papa - dobbiamo riconoscerci fratelli e sorelle”. Come credenti di “diverse tradizioni religiose, abbiamo un ruolo da svolgere” aggiunge, “aiutare i nostri fratelli e sorelle a elevare lo sguardo e la preghiera al Cielo”. Perché, spiega Francesco, “chi adora Dio con cuore sincero ama anche il prossimo” e vede in lui un fratello, una sorella, col quale “condividere la vita”, e “sostenerci a vicenda”, imparando a conoscerlo davvero.

"O siamo fratelli o crolla tutto"

Oggi, insiste il Pontefice, “è il tempo opportuno per camminare insieme, non lasciare per domani o per un futuro che non sappiamo se ci sarà”, i credenti “e tutte le persone di buona volontà, insieme”.

È un giorno propizio per darsi la mano, per celebrare la nostra unità nella diversità - unità non uniformità, unità nella diversità - per dire alle comunità e alle società in cui viviamo che è giunto il tempo della fratellanza. Tutti insieme, perché è fondamentale essere solidali l’uno con l’altro. E per questo oggi, lo ripeto, Oggi non è tempo di indifferenza: o siamo fratelli o crolla tutto.

Contrapporre la fratellanza alla logica del conflitto

Non è una espressione di tragedia per letteratura, chiarisce Papa Francesco, “è la verità! O siamo fratelli o crolla tutto”, lo si vede nelle piccole guerre che formano “questa terza guerra mondiale a pezzetti”, che “distruggono i popoli”, affamano i bambini, annullano l’educazione. Per questo non è il tempo della dimenticanza. E ricorda le sue parole nell’incontro interreligioso a Ur dei caldei, meno di un anno fa: “Ogni giorno dobbiamo ricordarci quello che Dio disse ad Abramo: che alzando lo sguardo alle stelle del cielo avrebbe visto la promessa della sua discendenza, cioè noi”. Una promessa “che dunque si è realizzata anche nelle nostre vite: quella di una fraternità larga e luminosa come sono le stelle del cielo!”.

Il percorso della fratellanza è lungo e, è un percorso difficile, ma è l’àncora di salvezza per l’umanità. Ai tanti segnali di minaccia, ai tempi bui, alla logica del conflitto contrapponiamo il segno della fratellanza che, accogliendo l’altro e rispettandone l’identità, lo sollecita a un cammino comune. Non uguali, no, fratelli, ognuno con la propria personalità, con la propria singolarità.

Grazie a chi vorrà unirsi al nostro cammino

Il ringraziamento finale del Papa è “a tutti coloro che operano nella convinzione che si possa vivere in armonia e in pace, consapevoli della necessità di un mondo più fraterno perché siamo tutti creature di Dio: fratelli e sorelle”.

Grazie a coloro che si uniranno al nostro cammino di fratellanza. Incoraggio tutti a impegnarsi per la causa della pace e per rispondere ai problemi e ai bisogni concreti degli ultimi, dei poveri, di chi è indifeso.

La proposta, ribadita da Francesco in conclusione è “camminare fianco a fianco, ‘fratelli tutti’, per essere concretamente artigiani di pace e di giustizia, nell’armonia delle differenze e nel rispetto dell’identità di ciascuno”.

 

Vatican News

 

MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO



 

 

 

mercoledì 7 luglio 2021

FORMARE PER PROMUOVERE FRATELLANZA


 Versaldi: puntare sulla formazione per promuovere la tolleranza e la fratellanza umana

Siglato l’accordo di collaborazione tra la Congregazione per l’educazione cattolica e il Ministero per l’educazione degli Emirati Arabi. "Il Documento sulla Fratellanza - spiega a Vatican News il cardinale, di ritorno da Abu Dhabi - continua a dare i suoi frutti"

 

-         di Davide Dionisi – Città del Vaticano

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Promuovere la tolleranza, la coesistenza e la fratellanza umana nel mondo. E’ questo l’obiettivo dell’accordo di collaborazione siglato lunedì scorso dal Ministro per l’educazione degli Emirati Arabi Uniti e dal cardinale Giuseppe Versaldi, prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica. L’intesa coinvolge le scuole cattoliche e gli istituti di formazione del Paese.

Il "Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune" firmato due anni fa ad Abu Dhabi da Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyib, continua a dare i suoi frutti anche nel campo della formazione tanto che lo stesso sceicco Nahyan bin Mubarak Al Nahyan, Ministro della Tolleranza e della Coesistenza “si è detto grato al Papa per aver promosso questa iniziativa": spiega il porporato.

Un passo importante 

"Si tratta di un passo importante, anche se limitato al campo dell’educazione e alle attività che competono ai ministeri interessati” aggiunge il cardinale Versaldi in visita nei giorni scorsi ad Abu Dhabi, accompagnato da monsignor Guy-Réal Thivierge, Segretario Generale della Pontificia Fondazione Gravissimum Educationis, e da Tajeddine Seif Ambasciatore della stessa Fondazione. “Concretamente i nostri studenti e quelli delle scuole arabe possono frequentare seminari, aprire nuove collaborazioni, fare ricerche, visitare i reciproci istituti sulla base dei valori comuni, nel pieno rispetto delle differenze. Senza alcun proselitismo” precisa il prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica, anticipando che "dopo l’emergenza Covid sarà nostro compito coinvolgere docenti e discenti affinché l’accordo entri nel pieno delle sue funzioni. Seguirà una serie di iniziative concrete di interscambio culturale".

 Scuola, Versaldi: camminiamo per uscire dalla crisi migliori di prima

  Vatican News

 

 

giovedì 15 aprile 2021

FRATELLANZA E' PORSI OBIETTIVI COMUNI


Il cardinale  Parolin, segretario di Stato del Vaticano,  è intervenuto all’evento web “Fraternità, Multilateralismo e Pace” incentrato sull’Enciclica “Fratelli tutti”: la pandemia, afferma, spinge a “una reciprocità di rapporti che superi l’isolamento e coinvolga gli Stati, i singoli e gli organismi internazionali”. Tra i promotori dell'evento, la Missione permanente della Santa Sede all'Onu di Ginevra e la Commissione internazionale cattolica per le Migrazioni

 

Adriana Masotti - Città del Vaticano

 

A fare da sfondo all’intervento del cardinale Pietro Parolin all’evento "Fratelli tutti, Multilateralismo e Pace" è la volontà di promuovere il principio del bene comune della famiglia umana per realizzare il quale occorrono un pensiero e un’azione più audaci e creativi. Questo corrisponde all’impegno a cui sono chiamati, osserva il cardinale, i partecipanti all’incontro, direttori generali e alti funzionari dell'Onu a Ginevra, e diversi ambasciatori, ed è lo scopo dell’azione diplomatica multilaterale della Santa Sede, a cui la Fratelli tutti offre un essenziale contributo. Per chiarire il concetto di fratellanza, contenuto nell’Enciclica, il segretario di Stato ritorna all’inizio del pontificato di Papa Francesco quando, appena eletto, disse: “Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza”. Francesco indicava così un “criterio programmatico” decisivo, afferma il porporato, per superare la dicotomia, particolarmente attuale in questo tempo di pandemia, tra “il codice dell’efficienza” e il “codice della solidarietà”:

Infatti, la fratellanza ci spinge ad un “codice” ancora più esigente ed inclusivo: “Mentre la solidarietà è il principio di pianificazione sociale che permette ai diseguali di diventare eguali, la fratellanza è quello che consente agli eguali di essere persone diverse. (…) Nell’azione multilaterale, la fratellanza si traduce nel coraggio e nella generosità per stabilire liberamente determinati obiettivi comuni e per assicurare l’adempimento in tutto il mondo di alcune norme essenziali”.

La destinazione universale dei beni

Il cardinale Parolin elenca le questioni prioritarie della Santa Sede nella declinazione del principio di fratellanza: accesso alla salute, rifugiati, lavoro, diritto internazionale umanitario e disarmo. In tema di salute, il porporato osserva che l’umanità ha sperimentato un iniziale senso di “indissolubile legame” dovuto al diffondersi della pandemia, sentendosi un’unica “comunità mondiale che naviga sulla stessa barca”, ma che oggi questo sentimento ha lasciato il posto alla “corsa al vaccino e alle cure a livello nazionale”. Evidente il gap nelle possibilità di cura tra i Paesi sviluppati e quelli più indietro.

La Santa Sede di fronte ad un problema sistemico, quale quello delle barriere all’accesso alle cure, acuito dall’emergenza attuale, ha offerto una serie di linee guida per affrontare tale questione, ispirate dalla convinzione dell’importanza della fratellanza. In ogni momento, dobbiamo concentrarci sul sottostante principio del servizio al bene comune. Tale approccio è ben esemplificato da San Giovanni Paolo II e dalla sua insistenza sull'“ipoteca sociale”, la quale insiste sul principio della destinazione universale dei beni.

Gli appelli alla globalizzazione della solidarietà: i rifugiati 

Il segretario di Stato vaticano ricorda che gli appelli alla comunità internazionale “per una nuova globalizzazione della solidarietà” sono costanti da parte del Papa e ripresi anche nella Fratelli tutti e osserva che, a 70 anni dall'istituzione dell' Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), il numero e le sofferenze di rifugiati, sfollati e migranti rappresentano ancora “una ferita nel tessuto sociale” mondiale. Quindi prosegue:

Ciò sottintende problematiche umanitarie e sociali profonde. In tal senso, la Santa Sede accoglie la visione di fondo del Global Compact sui rifugiati, che mira a rafforzare la cooperazione internazionale attraverso una condivisione della responsabilità più equa e prevedibile, ricordando al contempo che la soluzione duratura ideale e più completa è quella di assicurare i diritti di tutti a vivere e prosperare in dignità, pace e sicurezza nei propri Paesi d’origine.

Occorre un dialogo sociale più inclusivo

Una conseguenza delle misure di contenimento della pandemia, su cui si sofferma il cardinale Parolin, è poi la crisi del mondo del lavoro con un impatto negativo sul reddito dei lavoratori, specie quelli più vulnerabili. In questo contesto, sottolinea, occorre avviare un dialogo sociale più ampio e inclusivo rispetto alla sua forma tradizionale.

Il coinvolgimento delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro è fondamentale, ma dovrebbe essere integrato da attori che rappresentano l'economia informale e le preoccupazioni ambientali. Come la Fratelli tutti ricorda “occorre pensare alla partecipazione sociale, politica ed economica in modalità tali ‘che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune.

Promuovere il rispetto del diritto umanitario

E c’è un altro fronte, secondo Parolin, su cui c’è bisogno di lavorare, ed è il diritto umanitario. A questo proposito ricorda che Henry Dunant, il fondatore della Croce Rossa, aveva adottato il grido “Tutti fratelli” per incitare al soccorso dei feriti, a prescindere dall’appartenenza ad una o all’altra parte in conflitto. Da lì prese le mosse la sua organizzazione e il porporato afferma che oggi vanno rafforzati la promozione e il rispetto del diritto umanitario che si propone di proteggere la popolazione civile in un contesto di guerra e di bandire armi “che infliggono sofferenze tanto atroci quanto inutili”. Cita le Convenzioni di Ginevra del 1949 che implicitamente riconoscono la fratellanza universale e continua:

La Santa Sede, inoltre, cosciente di omissioni ed esitazioni, spera che gli Stati possano giungere ad ulteriori sviluppi del diritto internazionale umanitario, al fine di tenere conto adeguatamente delle caratteristiche dei conflitti armati contemporanei e delle sofferenze fisiche, morali e spirituali che ad essi si accompagnano, con l’obiettivo di eliminare i conflitti del tutto.

Le armi non garantiscono la pace

L’aspirazione alla pace e alla sicurezza, afferma ancora il porporato, non può “essere soddisfatta soltanto da mezzi militari e meno che mai dal possesso di armi nucleari ed altre armi di distruzione di massa”. I conflitti, inoltre, provocano sempre sofferenze, a tutte le parti:

È in quest’ottica che la Santa Sede incoraggia con convinzione l’impegno degli Stati nell’ambito del disarmo e del controllo degli armamenti verso accordi duraturi sulla strada della pace e, in modo particolare, sul fronte del disarmo nucleare. Se è valida l’affermazione che siamo tutti fratelli e sorelle, come può la deterrenza nucleare essere alla base di un’etica di fraternità e coesistenza pacifica tra i popoli?

Responsabilità individuale e capacità di sentirsi fratelli

Avviandosi alla conclusione, il cardinale Parolin osserva che per invertire la marcia e realizzare davvero un’azione adeguata rispetto ai processi in atto nella comunità internazionale, non è sufficiente una proclamazione d’impegno, ma è necessario predisporre un progetto efficace in grado di rispondere al post pandemia. “L’elemento in più – sottolinea Parolin - è la responsabilità individuale e la capacità di sentirsi fratelli, cioè di far propri i bisogni degli altri attraverso una reciprocità di rapporti che superi l’isolamento e coinvolga gli Stati, i singoli e gli organismi internazionali”. E’ il cammino della fratellanza per il quale il segretario di Stato si augura anche l’evento di oggi costituisca un passo avanti.

 Vatican News

DISCORSO CARD. PAROLIN