Con un taglio esperienziale e pratico si indicano qui percorsi che aiutino a rivisitare il proprio vissuto: i pensieri che lasciamo abitare in noi e le parole che transitano per le nostre labbra.
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di Sabino Chialà*
Nel
Nuovo Testamento osserviamo una situazione diversa, ma in continuità con quanto
già esaminato. Il sostantivo greco synéidesis nei vangeli è quasi del tutto
assente. L’unica ricorrenza è in una variante attestata solo da alcuni
manoscritti per l’episodio della donna adultera condotta a Gesù, in cui
leggiamo a proposito degli accusatori della donna: “Quelli, udito ciò
[variante: “e accusati dalla loro coscienza”], se ne andarono uno per uno,
cominciando dai più anziani” (Gv 8,9).
Gli
evangelisti non mettono mai sulla bocca di Gesù il termine “coscienza”.
Tuttavia, come osservato nell’Antico Testamento, molte volte è il termine
“cuore” a svolgerne la funzione. Penso in particolare all’episodio dell’uomo
dalla mano paralizzata, guarito da Gesù nella sinagoga in giorno di sabato.
Alla fine della scena, l’evangelista riferisce che Gesù resta irritato e
rattristato “per la durezza dei loro cuori” (Mc 3,5). Qui è evidente che
“cuore” sta per coscienza: i presenti, infatti, non hanno usato la propria
coscienza per giungere a quel discernimento cui Gesù è giunto decidendo di
guarire l’infermo. Quante volte poi Gesù si appella alla coscienza dei suoi
interlocutori!
Ad
esempio, allorché interrogato non offre una risposta diretta, ma propone una
domanda o una parabola, per stimolare così la coscienza dei suoi interlocutori,
ed essi trovino da sé stessi e in sé stessi la risposta.
A
chi si rifiuta poi di mettere in gioco la coscienza, Gesù nega la propria
parola, ritenendola inutile. Emblematico è il caso dei capi religiosi che lo
interrogano sulla sua autorità: “Con quale autorità fai queste cose? O chi ti
ha dato l’autorità di farle?” (Mc 11,28). Gesù risponde interpellando la loro
coscienza: “Vi farò una sola domanda. Se mi risponderete, vi dirò con quale
autorità faccio questo. Il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli
uomini? Rispondetemi” (Mc 11,29-30). Gesù interpella il loro discernimento, ma
i capi decidono di non farne uso, preferendogli il calcolo di convenienza: “Se
diciamo: ‘Dal cielo’, risponderà: ‘E perché allora non gli avete creduto?’.
Diciamo dunque: ‘Dagli uomini?’. Ma temevano la folla, perché tutti ritenevano
che Giovanni fosse veramente un profeta. Rispondendo a Gesù dissero: ‘Non lo
sappiamo’” (Mc 11,31-33). Per cui Gesù risponde: “Neanche io vi dico con quale
autorità faccio queste cose” (Mc 11,33). A chi rifiuta di usare la coscienza,
vale a dire che non è disposto a lasciarsi coinvolgere in profondità, Gesù nega
la propria parola, non per ripicca, ma perché la ritiene inutile e condannata
all’inefficacia.
La
situazione muta sensibilmente con la letteratura paolina e gli altri scritti
del nt, che invece fanno uso abbondante del termine synéidesis, per un totale
di una trentina di occorrenze.
Paolo
insiste particolarmente sul tema della coscienza come luogo interiore e centro
propulsore dell’attività umana. Una coscienza che egli definisce ora buona (cf.
1Tm 1,5.19; Eb 13,18; 1Pt 3,16.21) e pura (cf. 1Tm 3,9; 2Tm 1,3; At 24,16), ora
cattiva (cf. 1Tm 4,2; Tt 1,15). Per l’Apostolo essa è innanzitutto il luogo
della verità più profonda dell’essere umano: ritorna infatti più volte su quella
che egli chiama la “testimonianza” che la coscienza dà all’uomo (cf. Rm 2,15;
9,1; 2Cor 1,12), indicandogli il valore delle sue azioni. La coscienza è dunque
vista in prima istanza come il luogo del dialogo interiore, del confronto
“interno”.
Essa
però è anche il luogo del dialogo con Dio, nello Spirito santo che si rivela
nella coscienza dell’uomo e che con essa coopera, e ospita anche il dialogo
autentico con l’altro. A questo proposito merita menzione il fatto che nella
Prima lettera ai Corinti Paolo invita a rispettare la “coscienza dell’altro”
(cf. 1Cor 10,29; cf. anche 2Cor 4,2), soprattutto del debole (cf. 1Cor 8,7-12).
La vera comunicazione è da coscienza a coscienza, da profondo a profondo, come
egli afferma appellandosi alla coscienza dei suoi interlocutori: “A Dio siamo
ben noti, e spero di esserlo anche alle vostre coscienze” (2Cor 5,11).
Sabino
Chialà (Locorotondo 1968) è monaco e priore di Bose dal 2022 a oggi. Studioso
di ebraico e siriaco, si è dedicato in particolare allo studio della figura e
dell’opera di Isacco di Ninive, di cui ha recentemente pubblicato la prima
traduzione italiana completa della prima collezione dei suoi scritti.
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