“Nessuno si educa da solo”
INTERVISTA a Daniele Novara
L’educazione non è un aspetto che deve essere delegato solo alle
figure specialistiche, è necessaria un’alleanza tra tutti gli attori coinvolti
per creare una comunità educante che sia di supporto al soggetto in crescita.
Ma tutto ciò è possibile? Ne abbiamo parlato con il Professor Daniele Novara,
pedagogista, autore, fondatore e direttore del CPP, Centro Psicopedagogico per
l’educazione e la gestione dei conflitti.
- di Fabio
Gervasio
Professor Novara,
“nessuno si educa da solo”, nel suo libro afferma che il compito educativo non
può essere delegato in via esclusiva agli specialisti ma è necessario costruire
una comunità per crescere insieme. Ci spiega come è possibile realizzare questa
condivisione educativa?
È un profilo molto
importante a livello sociale. Se pensiamo che l’educazione debba riguardare
solo i genitori e gli insegnanti abbiamo già fallito, bisogna creare un
immaginario che comprenda nella nostra società delle funzioni educative. Ogni
generazione si pensa sempre educativa nei confronti delle generazioni
successive e viceversa cerca di rompere gli schemi educativi che sono stati
consegnati loro e di andare avanti anche in termini più trasgressivi, ma
l’imprinting educativo è un imprintig generazionale, in altre parole qualsiasi
adulto deve sentire uno spirito educativo verso i bambini ed i ragazzi, non si
può delegare solo a chi se ne occupa dentro le mura familiari o dentro le mura
scolastiche, questo è un equivoco. Bisogna dire che la nostra società, molto
narcisistica e incentrata sui bisogni individuali, non sembra essere in grado
di avere questo afflato, questo spirito anche oblativo per cui ogni generazione
spera che quella successiva, in un certo senso, sia una generazione migliore,
come nel modo di dire dei “Verdi” tedeschi: Il pianeta c’è dato in prestito dai
nostri figli.
Quindi ogni generazione
si pone in una logica di favorire un passaggio emotivo e progressivo, ma questo
oggi sta mancando e lo vediamo anche per quanto attiene la questione
demografica, non sono assolutamente dell’idea che la questione demografica sia
una questione sociale o addirittura etnica, come dice qualcuno azzardando delle
idee che andrebbero consegnate ai libri di storia e basta. Credo che oggi sia
difficile investire nei figli perché l’investimento educativo è molto basso, ad
esempio mi è capitato di sentire una ragazza la quale affermava che riflettendo
con il compagno ipotizzavano che probabilmente non avrebbero mai avuto dei
figli e quindi avevano deciso di prendere un cane. Una scelta personale, però
che la nostra tendenza all’accudimento, tipica dei mammiferi ai quali
apparteniamo, si riversi in altre direzioni a me sembra un pasticcio, allo
stesso tempo capisco che oggi come oggi fare figli è un’impresa sempre più
titanica perché si ha poco supporto e non semplicemente in termini di asilo
nido e tutto il resto, si ha poco supporto nell’immaginario di famiglia.
Se pensiamo ad esempio ad
un condominio pieno di bambini, difficilmente ci sarà un pensiero gioioso nei
confronti di questa situazione, invece sarà più verosimile avere dei cartelli
limitativi dell’uso degli spazi comuni, come ad esempio il cortile che non può
essere utilizzato dai bambini per giocare. Che poi sono imposizioni illegali,
perché ogni condominio deve prevedere aree di gioco per i bambini, addirittura
degli spazi al chiuso come previsto dalla normativa che però non viene
rispettata. Facciamo un altro esempio, una rotonda stradale costa dai 600.000 a
1.200.000 euro, un parco giochi potrebbe costare circa 200/300.000 euro,
tendenzialmente un amministratore è più propenso a realizzare una rotonda che
un parco giochi. Questo per arrivare al problema reale dei tanti soldi del PNRR
bloccati sugli asili nido e sulla scuola in generale, se pensiamo che la
soluzione sia quella retorica dei nonni a nome dei nonni dico basta, pensate a
realizzare asili nido piuttosto. I nonni non sono “Gianni Rodari”, ci vogliono
i nidi e la scuola dell’infanzia in generale.
La figura del pedagogista
nel nostro paese non è ancora valorizzata adeguatamente. Lei afferma che le
istituzioni pedagogiche, scuola e famiglia, sono orfane della pedagogia. Ci
spiega chi è il pedagogista e qual è il suo ruolo in ambito educativo, sia per
quanto riguarda la scuola che la famiglia?
Siamo ancora fermi alla
figura del pedagogo, che era l’antico monitore come Quintiliano o Vittorino da
Feltre, non siamo ancora nell’età moderna, quella di Maria Montessori, dove il
pedagogista è quello che organizza i processi di apprendimento, favorisce le
dinamiche educative, una figura tecnica estremamente importante. Quindi la
pedagogia non come branca della filosofia, come incautamente hanno insegnato
per decenni nei licei, ma come scienza operativa, allo stesso modo
dell’architettura, della medicina o della giurisprudenza che sono tutte scienze
applicative. In Italia abbiamo le discipline universitarie di pedagogia ma non
abbiamo la professione, come se ci fosse l’insegnamento universitario di
architettura e non gli architetti, capite che le città non starebbero in piedi
e di fatto la scuola fa fatica a stare in piedi.
I dati sono
agghiaccianti, la dispersione scolastica è al 13%, i NEET sono al 20/25%, la
percentuale di laureati è molto bassa, all’ultimo posto in Europa insieme alla
Romania. Nel libro ho parlato di una professione che nella logica comune non
esiste, non ci sono bandi per fare il pedagogista, non esistono scuole con il
pedagogista come invece avviene in tutta Europa. Ad esempio, stiamo lavorando
in Croazia dove ogni scuola ha un pedagogista, così come da tempo avviene in
Francia o nel Nord Europa. È una figura che ha un background scientifico che
permette di organizzare i processi di apprendimento, altrimenti la scuola va
avanti ripetendo sé stessa in un giro del criceto continuo: Ho ricevuto tante
lezioni frontali quindi faccio lezioni frontali, mi facevano le interrogazioni
programmate, mi davano le note a scuola quindi le adopero anche io.
Si replica un modello
frutto del vissuto senza chiedersi se questo sia il metodo giusto. È un modello
che delega i problemi scolastici alla famiglia, ad esempio mi capita di sentire
insegnanti che si rivolgono ai genitori chiedendo di fare qualcosa con i propri
figli perché disturbano i compagni durante l’intervallo, ma cosa può fare un
genitore? Queste sono idee dell’insegnamento fai da te prive di un approccio
pedagogico. C’è bisogno di una pedagogia come scienza operativa, non quella
“tromobonistica” di tante università, perché oggi gli insegnanti hanno una
orfanità strumentale enorme che si evidenzia con l’invasione digitale che la
scuola sta subendo. Se non si ha metodo come si può utilizzare tutta questa
tecnologia? Ad esempio, la usi in senso individuale o sociale? E come la usi in
senso sociale? È fondamentale avere dei basilari pedagogici.
Ci sono incontri che
lasciano il segno, nel suo libro lei ricorda le figure di Mario Lodi, Danilo
Dolci, Paulo Freire e Maria Montessori. Quanto cambia avere dei riferimenti
come le figure appena accennate?
Nella mia vita
professionale e anche personale sono stato fortunato, ho avuto delle figure che
mi hanno aiutato, poi in questi casi vale il detto che non si sa mai se viene
prima l’uovo o la gallina, nel senso che sono io che le ho cercate o sono loro
che mi hanno incontrato. È logico che non esiste la fortuna o semplicemente il
destino, esiste la motivazione e personalmente avevo una forte motivazione
verso l’attività educativa che mi ha portato ad incontrare queste persone.
L’incontro con Danilo Dolci, a circa 23/24 anni, è stato molto importante. Ero
già estremamente motivato a 18 anni, tant’è che con degli amici avevamo
realizzato un doposcuola in un quartiere popolare della mia città, Piacenza, e
stavo vivendo l’esperienza del servizio civile in una casa d’accoglienza
realizzata con altri giovani, l’incontro con Danilo Dolci mi ha confermato che ero
sulla strada giusta ed è molto importante che un giovane abbia questo tipo di
indicazioni. Che qualcuno di spessore ti confermi di essere sulla strada giusta
e di proseguire su quel cammino, o viceversa ti dica di correggere il cammino e
ti indichi come farlo, è importante.
Oggi capita a me di farlo
con giovani collaboratori e allievi, lo faccio volentieri. In pratica si è
creata una staffetta con il passato che porto avanti. Con Maria Montessori non
è stato un incontro diretto, ovviamente per motivi anagrafici essendo lei una
figura a cavallo tra l’800 e il ‘900. Però alla fine degli anni ’90 ebbi la
fortuna di incontrare la sua nipote diretta e fu un’esperienza molto
importante. Quando si incontrano figure genealogiche c’è dentro l’anima di
Maria Montessori, Renilde aveva vissuto con la nonna letteralmente fino a 22/23
anni e mi ha raccontato diversi episodi che gli sono accaduti in quella che è
stata una settimana straordinaria. Renilde stava creando “Educateurs sans
frontières” e voleva un po’ il mio contributo per i suoi direttori delle scuole
montessoriane internazionali sull’educazione alla pace. Poi ricordo Mario Lodi,
grandissimo Maestro, una figura straordinaria che mi ha dato l’idea della
scuola.
Paulo Freire mi ha dato
l’idea che in età adulta si può imparare tanto, come ha fatto lui con i
contadini del nord-est del Brasile che è riuscito ad alfabetizzare in 40 giorni
grazie al suo metodo. Una cosa che resta nella storia della pedagogia in
maniera indelebile. Avrei potuto mettere tante altre figure, come ad esempio Don
Lorenzo Milani, che diventano figure se si vuole manualistiche, anche se per me
Lorenzo Milani con lettera ad una professoressa e lettera ai giudici mi ha
aperto un mondo, ma sono figure con le quali non ho avuto una frequentazione
diretta.
I buoni incontri, bisogna
cercarseli, non avvengono da soli. Voglio dire che fare il pedagogista come lo
sto facendo io è un’esperienza bellissima perché è un lavoro dove non ci si può
stancare per i tanti impegni che si susseguono. Ad esempio, a Pesaro ho
incontrato circa 200 docenti per parlare del tema della valutazione evolutiva,
perché in quella città stanno partendo le esperienze delle scuole superiori
senza voti, quindi mi hanno chiesto un riferimento pedagogico essendo un
sostenitori della valutazione senza voti, il giorno dopo sono stato a Milano
all’Edufest, un appuntamento eccezionale dove ho parlato della discriminazione
dei bambini con le “etichette”, perché l’“etichetta” è una nuova forma di
discriminazione, altro che inclusione, dove non esiste alcuna forma di privacy
per gli alunni ad esempio con DSA, con diagnosi L.104/92 o altra forma di
bisogno educativo. In mezzo ci metto 40 minuti online sul mio metodo “litigare
bene”. C’è tanto da fare, è molto appassionante.
Un’ultima domanda. Lei si
rivolge ai ragazzi invitandoli ad avere coraggio per vivere appieno la propria
adolescenza. Quali sono i suggerimenti che si sente di dare e che possono
essere considerati complementari al loro ruolo di studenti?
In questo momento storico
la mia preoccupazione, specialmente per gli adolescenti, è di stare nella loro
età, è molto importante. Non bisogna isolarsi, l’adolescenza è l’età in cui si
esce dal nido familiare, quello domestico e materno, e si costruisce una nuova
appartenenza, non più familiare, nel gruppo. I ragazzi devono vivere la
dimensione del gruppo in maniera intensa perché da un lato è un modo per uscire
dalla famiglia e dall’altro serve a prepararsi alla famiglia.
L’idea che un ragazzo si
fidanzi a 15 anni, o anche a 13, come spingono a fare certi genitori con tutto
un sistema di permanenza di queste coppiette all’interno delle mura domestiche,
lo trovo poco utile. L’adolescenza è l’età delle sperimentazioni sentimentali
ma in primis l’età del gruppo. In questi anni i ragazzi sono stati troppo
isolati, per il motivo che conosciamo tutti del Covid; quindi, vorrei invitarli
a fare un’estate ricca di esperienze sociali, di esperienze dove sfidano anche
le loro risorse, per esempio viaggiando, facendo esperienze di solidarietà,
esperienze di apprendimento, in pratica “vivere”.
La scuola dovrebbe andare
in questa direzione, per la prossima primavera stiamo organizzando un convegno
proprio su questo tema, la scuola non è solo lo studio, questo è un grande e
grave equivoco. La scuola è stare insieme e costruire delle occasioni di
apprendimento reciproco, problematizzando i contenuti utilizzando le discipline
per affrontare e risolvere i problemi, questa è la vera scuola dove si creano
motivazioni ed interessi. Però prima c’è l’estate e allora prendo spunto da una
lettera presente nel libro che mando ai ragazzi di 15 anni in cui li invito a
vivere tutte le occasioni. Per vivere ci vuole coraggio, ecco che diventa
importante viaggiare, stare nelle relazioni, ma anche fare esperienze di
lavoro, stare su un prato piuttosto che su un videoschermo.
C’è una preoccupazione
enorme su questo versante dei videoschermi e dei videogiochi, l’intelligenza
straordinaria di un ragazzo di 15/16 anni deve essere usata per imparare, non
semplicemente imparare un videogioco che, da quel che ne so, si impara solo a
migliorarsi nel videogioco stesso. Un altro aspetto importante è quello della
lettura, sembra superfluo dirlo ma va ripetuto perché viviamo in una società
dominata prevalentemente dalle immagini.
Le immagini vanno bene,
ma la lettura è inderogabile, è un’età di lettura che va sostenuta. Infine, la
condivisione, perché sentirsi responsabile del cambiamento climatico, sentirsi
responsabile della pace e dell’ingiustizia di chi vive in condizioni di
inferiorità è necessario a questa età. Sostengo tantissimo il movimento dei
giovani contro il cambiamento climatico e vorrei che ci fosse lo stesso
movimento di giovani per la pace, perché è un anno che parliamo di guerra e
invece si dovrebbe parlare di pace. Bisogna tornare a parlare di questa parola
e dei personaggi che ha ispirato, come Gandhi, Tolstoj, Martin Luther King,
Nelson Mandela, anziché parlare dei generali russi e ucraini. Bisogna tornare a
parlare di questi testimoni della nonviolenza. La situazione è critica e per
questo invito i giovani ad una partecipazione attiva alle manifestazioni per la
pace, perché se non c’è la pace anche il cambiamento climatico diventa
un’opzione molto aleatoria come battaglia.
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