Una tragedia
Non si è ancora spenta l’ondata di dolore e di indignazione per la
tragedia di Casal Palocco, in cui un bimbo di cinque anni, Manuel, ha perso la
vita a causa di una assurda sfida di cinque giovanissimi youtuber, tutti
ventenni, impegnati a guidare, su un Suv preso a nolo, per 50 ore continuative,
solo per soddisfare i loro follower e aumentare il numero dei like. Con l’aiuto
di droghe, visto che il conducente è risultato positivo ai cannabinoidi.
A rendere ancora più agghiacciante l’episodio è stato il fatto che, dopo
il fatale impatto, che ha distrutto la Smart su cui viaggiava il bambino, gli
occupanti del Suv, invece di dare segni di disperazione di pentimento per la
loro follia, hanno continuato a filmare con i loro smartphone la scena del
disastro che avevano provocato, sempre nell’intento di postare sul loro gruppo
YouTube, “The Borderline”, immagini in grado di colpire i loro fan e
accrescerne il numero.
L’analisi dello psicologo
Giuseppe Lavenia, psicoterapeuta e presidente dell’Associazione Nazionale
Dipendenze Tecnologiche e Cyberbullismo, ha scritto in proposito: «I giovani
sono spesso spinti a cercare sempre più estremi per ottenere l’approvazione e
l’attenzione online», fino «a sganciarsi dalla realtà», nella ricerca del
«superamento del limite, di cui manca sempre più il senso (…), per sentirsi
qualcuno, anche solo nel mondo etereo della rete».
E concludeva: «La famiglia dei ragazzi influencer non può essere
considerata l’unica responsabile, ma tutta la società deve assumersi il compito
di prevenire episodi simili. È fondamentale promuovere una cultura di
responsabilità e bilanciamento nell’uso dei social media. È necessario adottare
approcci educativi che incoraggino una sana autostima indipendente dalla
quantità di like o follower».
Sagge parole, del tutto condivisibili, che mettono in luce come il vero
problema non sia dei giovani, ma degli adulti, e possa essere risolto solo
mediante l’educazione. La tanto spesso evocata “emergenza educativa” non
colpisce le nuove generazioni – che ovviamente non possono porsi il compito di
studiare le strategie più appropriate per la propria formazione –, ma le loro
famiglie, la scuola, la Chiesa, l’intera società insomma gli educatori.
Sono loro che non riescono più a far fronte a un clima in cui «i giovani
sono spesso spinti a cercare sempre più estremi per ottenere l’approvazione e
l’attenzione online», perdendo il senso della realtà e del limite. Ed è vero
che anche che sono loro a dover «adottare approcci educativi che incoraggino
una sana autostima indipendente dalla quantità di like o follower».
Il problema del senso perduto
Eppure, in questa analisi – che è dichiaratamente centrata sull’aspetto
psicologico – manca qualcosa di decisivo per comprendere ciò che sta accadendo
ai nostri giovani. Qualcosa che è necessario perché una persona che si affaccia
alla vita possa farlo in modo psicologicamente equilibrato. Manca il
riferimento alla dimensione valoriale e, in ultima istanza, al problema del
senso, nella duplice accezione di “significato” e di “direzione” verso cui
andare.
È su questo terreno etico ed esistenziale, prima di tutto, che si gioca
la possibilità di superare l’emergenza educativa. Le nuove generazioni sono
sottoposte, è vero, a particolari pressioni psicologiche, legate anche all’avvento
della nuova cultura mediatica e alle mutate condizioni di vita, ma in ogni
epoca è stato inevitabile un margine di spaesamento dei figli rispetto al mondo
dei loro padri, in cui si trovavano gettati senza alcuna preparazione.
Solo che in passato è stato loro offerto anche un orizzonte di valori –
più o meno autentici, più o meno condivisibili – che davano senso alle loro
scelte. Così, nel secolo scorso, ci sono stati studenti che, dopo Caporetto,
hanno abbandonato i banchi di scuola per partire volontari e rischiare la vita
in difesa della Patria. E tanti giovani, qualche decennio più tardi, si sono
trovati a combattere nelle file dei partigiani, contro i nazisti, in nome della
libertà.
E, dopo la guerra, lo scontro ideologico tra cattolici e comunisti è
stato caratterizzato da un forte coinvolgimento ideale. C’erano delle
convinzioni profonde, delle scelte esistenziali, che non riguardavano solo la
politica, ma determinavano scale di valori e appartenenze totalizzanti, emblematicamente
rappresentate da Guareschi nelle figure di don Camillo e Peppone. Era la
Democrazia cristiana di De Gasperi e di Dossetti, era il Partito comunista di
Togliatti e di Berlinguer, criticabilissimi, ma capaci entrambi di polarizzare
intellettuali e gente comune intorno a un progetto culturale ed etico in cui
valeva la pena, ai loro occhi, di investire le loro speranze e le loro energie.
E i giovani rispondevano a queste proposte con entusiasmo. Gioventù
cattolica e gioventù comunista si fronteggiavano discutendo di modelli di
libertà e di società e sostenendo le rispettive formazioni politiche, in accese
campagne elettorali, con la consapevolezza di stare giocando una partita
decisiva per il nostro paese.
Il Sessantotto ha costituito un forte scossone nei confronti dei
precedenti assetti istituzionali e partitici, ma lo ha fatto comunque in nome
di una rivoluzione – anch’essa ovviamente discutibile – che aveva una forte
impronta ideale ed etica. Il risultato immediato non è stato, comunque, una
demotivazione nei confronti degli ideali del bene comune. Non era un’antipolitica,
ma un modo diverso di intenderla. Ancora nel 1976 il 93,49% degli italiani si
recava alle urne.
Una profonda crisi etica tra pubblico e privato
Poi c’è stato il crollo inglorioso della Prima Repubblica, sotto i colpi
di Tangentopoli, e l’avvento della Seconda, con la discesa in campo di
Berlusconi, la crisi dei partiti tradizionali e delle loro ideologie e
l’avvento di forme sempre più esplicite di populismo, di cui già il “Cavaliere”,
con i suoi “contratti con gli italiani”, è stato l’alfiere e che ha poi trovato
nella figura di Grillo e nella progressiva affermazione dei 5stelle la sua
apoteosi.
In questa nuova stagione, nata con la promessa di purificare la politica,
in realtà la corruzione e le violazioni della legalità non sono affatto
diminuite, anzi – stando ai rapporti ufficiali – si sono moltiplicate. Ma,
mentre prima già le sole indagini della magistratura su di esse erano state
considerate – alla luce di una visione etica dominante – motivo di grave
discredito per un uomo politico, nel nuovo clima di diffidenza verso le
istituzioni e i loro rappresentanti, giudici compresi, sono diventate al
contrario motivo di sospetto e di accuse nei confronti di chi le promuoveva. E
i sospettati – perfino i condannati – vittime di una assurda persecuzione.
Alle esagerazioni di un legalismo che, al tempo di Tangentopoli, aveva
fatto diventare i magistrati i veri arbitri della politica, è subentrata, a
livello pubblico, una liberazione collettiva da ogni limite etico, che rende
possibile proprio in questi giorni alla presidente di consiglio e al
guardasigilli di giustificare – sulle orme dell’ostilità di Berlusconi nei
confronti delle tasse – la diffidenza nei confronti del sistema tributario e,
al limite, l’evasione fiscale, costringendo il presidente della Repubblica a
intervenire per sottolineare la loro imprescindibile funzione sociale.
Ma la maggiore novità del nuovo clima creatosi in Italia con la Seconda
Repubblica è stata la scomparsa dei grandi orizzonti intellettuali offerti dal
cattolicesimo politico e dal marxismo, che ancora proponevano obiettivi (qui
non discuto se veri o falsi) di ampio respiro, e il degenerare di quello
liberale, da sempre alternativo agli altri due, in un libertarismo radicale
portato a trasformare ogni desiderio in un bisogno, ogni bisogno in una pretesa
e ogni pretesa in un diritto.
Una visione individualistica in cui i confini tra privato e pubblico sono
scomparsi, insieme all’ideale di un bene comune da perseguire al di là dei
propri interessi privati. In essa si sono trovate accomunate, in un unico
pervasivo brodo culturale, quelle che un tempo si chiamavano “sinistra” e
“destra”, e che ora differiscono solo per le diverse sottolineature che danno al
medesimo tema dei diritti individuali, insistendo rispettivamente sui temi
bioetici o su quelli economici e sicuritari.
Ne è un risvolto la disaffezione nei confronti della politica, che
proprio nel bene comune dovrebbe avere il suo fine. Sta di fatto che
l’astensionismo è passato dal 6,51% delle elezioni del 1976 al 36,1% delle
ultime, nel 2022.
Niente per cui vivere o morire
Il punto è che ogni riferimento a valori che trascendano il singolo e per
cui abbia senso morire – come nel caso dei giovani volontari della Prima guerra
mondiale o dei partigiani – è scomparso. Ma se non c’è niente per cui morire,
non c’è niente neppure per cui vivere. Rimane soltanto la pulsione elementare
all’affermazione di sé, senza ragioni e senza limiti.
La recente celebrazione di un personaggio come Berlusconi a figura
simbolo dell’Italia di oggi non ha fatto altro che sancire questo modello di
vita, privo di ogni obiettivo che non sia l’appagamento sfrenato dei propri
appetiti e il perseguimento del successo a qualunque costo, sia nel campo
economico, sia in quello politico, sia in quello sessuale, a prescindere da
ogni dimensione etica.
Una prospettiva che, in una società fortemente competitiva, può dare
luogo, nei giovani, a due possibili atteggiamenti, a volte vissuti in contemporanea
dagli stessi soggetti. Uno è il senso di impotenza e la rinunzia a partecipare
a un gioco che appare tanto insensato quanto violento. È il caso dei NEET (Not
in Employment, Education or Training), ben tre milioni di italiani tra i 15 e i
34 anni che non studiano, non lavorano né cercano lavoro.
L’altro atteggiamento che può scaturire da questo vuoto di senso della
vita reale è il tentativo di «sentirsi qualcuno, anche solo nel mondo etereo
della rete», superando tutti i limiti con comportamenti balordi, alla ricerca
di una effimera visibilità volta a sostituire i valori che non ci sono. Era
quello che facevano, come tanti altri loro coetanei, i protagonisti
dell’assurda tragedia di Casal Palocco.
E non solo perché fossero instabili e immaturi psicologicamente, ma
soprattutto perché noi adulti non siamo stati in grado di offrire loro niente
che assomigliasse a una vera speranza.
*Scrittore ed editorialista. Pastorale
della Cultura della Diocesi di Palermo
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