* Il cattivo maestro
che ha “liberato” gli italiani
dal
pudore*
- di Giuseppe
Savagnone
La vera impresa di
Berlusconi
Quando muore un uomo, il
solo commento rispettoso sarebbe il silenzio. Se però quest’uomo è anche un
personaggio pubblico, come nel caso di Silvio Berlusconi, ci si trova di fronte
a un diluvio di parole che esigono, in qualche modo, una risposta.
Lasciando intatto il
mistero del singolo, su cui il Vangelo ci invita a non pronunziare giudizi
inevitabilmente superficiali e ingiusti, è del personaggio che siamo in qualche
modo costretti a parlare. Tanto più che, così come nel corso della sua vita,
anche nella sua morte esso, con la proclamazione della giornata di lutto
nazionale e le bandiere a mezz’asta in tutto il paese, trasborda dai limiti del
suo ruolo di leader di un partito e si impone all’immaginario collettivo come
icona dell’Italia intera.
È quello che ha notato,
acutamente, sul «Corriere della Sera», Aldo Cazzullo in un commento intitolato
«Sedusse un paese»: «La vera impresa di Berlusconi non fu fondare le TV private
o un partito che in tre mesi divenne il primo d’Italia. Quella fu se mai la
conseguenza. La vera impresa di Berlusconi fu far sì che la maggioranza degli
italiani si identificasse in lui».
Questa è stata
un’operazione che va molto al di là degli aspetti strettamente imprenditoriali
e politici dell’attività e dei successi del “cavaliere”. Un’operazione
propriamente culturale e, in un certo senso, “educativa”.
Berlusconi non è stato
solo un manager di eccezionali capacità imprenditoriali, non è stato solo per
buona parte del corso della Seconda Repubblica, il capo indiscusso della
destra, governando più a lungo di qualunque altro premier: è stato un maestro.
Buono o cattivo, questo è da vedere, ma sicuramente efficacissimo. E oggi il
clima che si respira nel nostro paese è in buona parte il risultato della sua
pedagogia. Sulle cui modalità e sui cui contenuti vale dunque la pena di
fermarsi a riflettere.
L’avvento della
televisione commerciale
La prima cosa che
colpisce è il carattere non convenzionale dei canali attraverso cui l’influenza
culturale del “cavaliere” è stata trasmessa. Non sono state le agenzie
educative tradizionali – la famiglia, la scuola, la Chiesa – a operare in
questo senso, ma una perfetta combinazione fra la nuova formula della Tv
commerciale, introdotta da Berlusconi per la prima volta in Italia, e una
disinvolta gestione della sua immagine pubblica.
Fino all’inizio degli
anni Ottanta del secolo scorso la televisione era gestita dallo Stato e, pur
sottoposta a qualche inopportuna censura, svolgeva una funzione davvero
“pedagogica”, nel senso migliore del termine. È stato grazie ad essa che il
grande pubblico ha potuto conoscere splendide opere teatrali, come i drammi di
Pirandello e di Cechov, o riduzioni della grande letteratura mondiale, come «Il
mulino del Po», di Bacchelli e «L’idiota» di Dostoevskij, trasmessi in prima
serata.
Ed è stato grazie ad
essa che la conoscenza media della lingua italiana si è diffusa anche a larghe
frange di popolazione prima legata quasi esclusivamente al proprio dialetto.
Era una TV che sapeva anche divertire – famosi alcuni spettacoli di varietà
come «Domenica è sempre domenica» o «Un due tre» – ma senza mai scadere nella
volgarità.
La TV introdotta da
Berlusconi era invece privata e mirava esplicitamente a conquistare, per
mantenersi e garantire dei profitti, fette sempre maggiori di pubblicità.
Doveva perciò intercettare non le esigenze più profonde del pubblico, ma i suoi
gusti immediati, le sue pulsioni.
Con la TV commerciale è
stato assunto come motto quello in cui Karl Popper, nel suo libro «Cattiva
maestra televisione», individua il gravissimo pericolo di questo mezzo di
comunicazione: «Dare al pubblico quello che il pubblico desidera». Dove per
“desiderio” non si intendono certo le più nobili aspirazioni all’elevazione
dello spirito, ma le pulsioni superficiali e impellenti che covano dentro
ciascuno e che lo schermo televisivo, con la sua efficacia rappresentativa, si
prestava benissimo a soddisfare.
È stato così che si è
innescato un circuito perverso tra il progressivo scadimento dei programmi –
che ha portato alla esclusione dalla prima serata di tutto ciò che fosse in
qualche modo impegnativo, a favore di spettacoli come «Il Grande Fratello» o le
trasmissioni di Maria De Filippi – e un progressivo imbarbarimento dei gusti
degli spettatori.
A essere vittima di
questo graduale deterioramento è stato innanzi tutto il senso del pudore. Non
solo e non tanto di quello che vela i corpi, ma di quello che dovrebbe
custodire gelosamente le anime delle persone.
Tutto – sentimenti,
vicende intime, perfino idee (le poche che rimanevano) – è diventato spettacolo
per la curiosità vorace dei telespettatori, oggetto da esibire per conquistare
qualche punto in più di gradimento, da far valere nelle contrattazioni con le
agenzie della pubblicità.
E anche la televisione
pubblica ha finito per doversi uniformare a questo stile, perseguito in Italia
con una coerenza che la TV commerciale in altri paesi, dove pure era presente
da prima che da noi, non ha mai avuto.
La cancellazione del
confine tra privato e pubblico
La distruzione del
pudore ha caratterizzato anche lo stile personale di Berlusconi. A livello
privato come a quello pubblico. In realtà, nella sua storia il confine tra
queste due sfere è stato cancellato.
Ciò che avrebbe dovuto
costituire la sua storia personale, da difendere accuratamente di fronte allo
sguardo indiscreto dei cronisti e delle telecamere, è stato usato
disinvoltamente come immagine sbandierata per abbagliare il grande pubblico e
per attirare consensi elettorali.
È stato così che il successo
di una ascesa imprenditoriale tutt’altro che lineare – stando alla condanna
definitiva del “cavaliere” per truffa – è stato sfoggiato come garanzia di una
pretesa capacità di governo della cosa pubblica; che la ricchezza e il lusso di
un tenore di vita sconosciuto alla stragrande maggioranza sono stati ostentati
per suscitare l’ammirata invidia di chi poteva solo sognarseli; che un
comportamento sessuale sfrenatamente vorace è diventato il marchio di
identificazione del personaggio Berlusconi.
Dove, per quanto
riguarda quest’ultimo punto, va precisato che non si è trattato, come ormai in
tanti paesi europei, del trionfo del libero amore. Il “cavaliere” le donne le
seduceva o le comprava – con i suoi regali e a volte direttamente con i suoi
soldi – , in un rapporto che non aveva nulla della reciprocità necessaria a
garantire la dignità di entrambi i partner.
Sta di fatto che tutto
questo, come scrive Cazzullo, ha spinto gli italiani a identificarsi con questa
figura, in cui vedevano proiettati i loro sogni segreti, finalmente sdoganati
dalle vecchie remore della morale tradizionale e in cui potevano riconoscersi
senza alcun pudore. Al di là dell’uomo in carne ed ossa, il personaggio
Berlusconi è diventato in qualche modo una specie di “ologramma” rappresentativo
di tutto questo.
Certo, c’è da chiedersi
quale autenticità avesse l’adesione della gente alle regole di una morale
cattolica ormai spesso ridotta a una forma vuota. Come dice l’etimo del verbo
“educare” (dal latino e-ducere, trarre fuori), Berlusconi non ha dovuto
inventare il vuoto e il fango che sono venuti alla superficie: li ha solo
sollecitati ed evocati. Il resto l’abbiamo fatto noi.
Il tramonto del bene
comune e della verità
In questa spudoratezza
sono apparsi irrilevanti anche i grandi temi della politica, come quello del
bene comune, ormai polverizzato nel gioco degli interessi privati. In questa
logica si capisce anche l’incessante polemica contro le tasse – identificate
come un «mettere le mani nelle tasche degli italiani» –, omettendo di ricordare
che nessuno “si fa da sé” e che chi è più ricco lo è anche grazie all’insieme
di servizi e di opportunità che la società gli offre. E che ridurre le imposte
a chi sovrabbonda del superfluo – come Berlusconi ha fatto da governante –
riduce le risorse da destinare per aiutare chi non ha il necessario.
Ma ad essere travolto,
in questa grande opera educativa, è stato anche il pudore che dovrebbe
trattenere dal falsificare troppo apertamente la realtà più evidente.
È accaduto così che gli
italiani – compresa una parte consistente del parlamento – hanno potuto
avallare la tesi che il “cavaliere” aveva davvero fatto rilasciare
(abusivamente) una sua escort marocchina perché la credeva la figlia del
presidente egiziano Mubarak; che la dimostrata connivenza con la mafia del suo
braccio destro Dell’Utri – condannato in via definitiva – non lo riguardasse
minimamente; e che la tempesta di procedimenti giudiziari a suo carico – molti
dei quali elusi solo grazie alla prescrizione – derivasse solo dall’accanimento
di magistrati “comunisti”.
L’Italia della Seconda
Repubblica ora è finalmente “libera” dal pudore. Non solo grazie a Berlusconi,
certo, ma in buona parte grazie a lui, che ne è stato la figura più
rappresentativa e in qualche modo il simbolo. Perciò in fondo è giusto che
l’attuale governo, frutto di questa storia, lo onori con una giornata di lutto
nazionale.
Anche se noi abbiamo
ancora il diritto di sperare che, dalle macerie di un’etica sia privata che
pubblica evaporata in questi trent’anni, sia di nuovo possibile partire per
ricostruire una convivenza civile degna di questo nome.
*Responsabile del sito della Pastorale della Cultura
dell'Arcidiocesi di Palermo, Scrittore ed Editorialista.
www.tuttavia.eu
Foto: Fanpage
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