- di Massimo Recalcati
Il disagio del mondo giovanile sembra aver assunto dimensioni
preoccupanti. La sua fenomenologia è variegata, ma se dovessimo provare a
trovare in essa dei denominatori comuni potremmo isolarne almeno due. Il primo
è quello della spinta neo-libertina a godere senza limiti, a fare del godimento
la sola forma possibile della Legge. Questa spinta può assumere le forme della
festinazione permanente, dell’apatia frivola, dell’assenza di responsabilità,
dell’abuso di sostanze, del consumo compulsivo, dell’indolenza, del rigetto
della prova e della fatica. Si tratta di una forma di disagio che da tempo
permea il mondo giovanile e che collude con l’affermazione di quella che
Pasolini definiva “la società dei consumi”. Il secondo denominatore comune è
invece di tipo neomelanconico e consiste nella tendenza a sottrarsi alla vita,
a chiudersi, a ripiegarsi su se stessi. Il trauma della pandemia ha esasperato
in particolare questa seconda declinazione del disagio giovanile. Se nella
prima forma prevale l’estroversione, in questa seconda prevale l’introversione.
Non si tratta però solamente di una tendenza genericamente depressiva, ma
di una inclinazione securitaria: il mondo è percepito come una fonte minacciosa
di stimoli, come luogo di perturbazioni angoscianti, come un urto dal quale
proteggersi. È uno dei paradossi più significativi del nostro tempo: la cultura
neo-libertina del godimento immediato e del rigetto del senso della Legge
nasconde nelle sue pieghe una tristezza di fondo, una profonda angoscia nei
confronti dell’ignoto, un sentimento di precarietà che coinvolge tutta
l’esistenza. È la piaga segreta che intacca l’euforia neo-libertina: la vita
come gara di tutti contro tutti, come spinta compulsiva a consumare ogni cosa
non genera affatto soddisfazione, non favorisce la creazione di legami sociali
generativi, ma produce caduta del senso, paura e difesa dalla vita, ritiro
sociale, confinamento, isolamento.
Tagliarsi fuori dal circuito maniacale dell’iperattività produttiva o
edonistica del discorso sociale dominante, è un gesto disperato di rifiuto ma è
anche un gesto che prova a creare un rifugio.
Barricarsi in casa, non uscire più, sembra per un giovane un destino
beffardo in un tempo che invece esige il divertimento come obbligo e il culto
della performance ad ogni costo.
Queste due forme del disagio riflettono una tendenza più generale della
civiltà contemporanea: la spinta a godere sino alla dissipazione della vita e
quella a rifiutare la vita isolandosi in una nicchia protetta. Sono la versione
hard e cool del disagio della giovinezza ipermoderna. Ma quello che viene meno
in entrambe queste posizioni è l’istanza del desiderio.
Nell’oscillazione neo-libertina essa si trova inabissata in un godimento
illimitato che ne sopprime la spinta generativa. Il desiderio si affloscia in
una vita troppo piena di oggetti per essere desiderante.
Nell’oscillazione neo-melanconica essa sembra invece più semplicemente
spegnersi, disattivarsi, non esistere più. Anziché vivere pienamente la vita,
si preferisce chiudere i ponti con la vita, creare sistemi di difesa, isolarsi
appunto, separarsi dal mondo. L’indebolimento del desiderio è il vero tema che
attraversa il disagio giovanile contemporaneo: la fatica di desiderare,
l’eclissi, la scomparsa del desiderio come forza generativa. Cosa fare allora?
Come uscirne?
Evocare il padre col bastone, rimpiangere la sua vecchia autorità
simbolica? Restaurare l’ordine della famiglia tradizionale, rafforzare gli
strumenti di controllo o di repressione? Condannare le cattive pratiche e i
comportamenti irresponsabili? Bisognerebbe sempre ricordare che il disagio
giovanile non coincide con il mondo giovanile. Per evitare la sua estensione
bisognerebbe innanzitutto avere fiducia nei giovani e nella loro audacia.
Includerli il più possibile nella vita civile e sociale. Potenziare la
Scuola e i luoghi di formazione, credere nelle loro capacità, offrire occasioni
di lavoro, di espressione, di parola. Insomma, il contributo delle vecchie
generazioni non può limitarsi a segnalare il disagio giovanile delegando agli
psicologi la sua cura, ma deve aprire le porte, coltivare i talenti,
trasmettere la potenza vitale del desiderio, favorire gli spazi anche pubblici,
collettivi, della sua esistenza. Non si tratta tanto di sorvegliare e di
punire, ma di scommettere davvero sulle nuove generazioni. L’esistenza dei
figli dovrebbe costringerci a decentrarci da noi stessi, a pensare che il tempo
ha una profondità che non coincide con la nostra vita, che i nostri figli ci
sopravviveranno. Dovrebbe ricordarci che il compito delle vecchie generazioni
non è quello di ostacolare le nuove ma quello di favorire la loro crescita.
Facile a dire, ovviamente, difficile assai da praticare perché implica il
dono del nostro arretramento, del nostro tramonto.
Nessun commento:
Posta un commento