I professori bocciati
Sembra destinata ad
essere presto dimenticata la sorpresa suscitata nell’opinione
pubblica dalla vicenda del 9 in condotta, attribuito dal consiglio di classe di
una scuola di Rovigo, a uno studente che insieme ad altri aveva sparato con una
pistola a pallini di gomma in faccia a una insegnante, filmando la scena e
divulgandola poi sui social. Ora tutto sembra sia stato rimesso a posto: dopo
l’intervento del ministro Valditara, il consiglio di classe si è riunito
nuovamente e ha, dopo una opportuna «riflessione», trasformato il 9 in un 7 e
gli 8 dati ad altri tre studenti, coinvolti nella stessa impresa, in
altrettanti 6. Giustizia è fatta. Si può passare al prossimo fatto di cronaca
messo all’ordine del giorno dai mezzi di informazione.
Eppure, forse varrebbe la
pena di fermarsi ancora un momento su quello che è accaduto e sul suo
significato. Se non altro perché la scuola è una realtà in cui a vario titolo
siamo tutti coinvolti, come docenti, genitori, studenti, impiegati, o
semplicemente cittadini che si rendono conto del peso che il sistema
d’istruzione ha nel presente e nel futuro del nostro paese.
Una prima riflessione
riguarda i professori che hanno messo quel 9 (e gli 8) e poi, incalzati dagli
ispettori del ministro, se li sono rimangiati. C’è da chiedersi cosa avrebbero
dovuto fare quegli studenti per meritare, ai loro occhi, valutazioni meno
lusinghiere. In particolare, il 9 in condotta.
In passato si esitava a
dare quel voto per non esporre lo studente alle prese in giro dei compagni.
Vederlo assegnato a un ragazzo che ha sparato alla sua professoressa, per poi
vantarsene ed esporla all’irrisione pubblica su internet, sembrerebbe
addirittura un premio. Sarcasticamente qualcuno ha commentato: «Non gli hanno
dato 10 perché in fondo è rimasta viva».
Già, è rimasta viva. Ma,
a prescindere dal suo ruolo di docente – che per la scuola dovrebbe pur sempre
contare qualcosa – è stata umiliata già semplicemente come persona. Se poi si
tiene conto che dovrà in futuro affrontare delle classi ed esigerne il
rispetto, si capisce che il danno arrecato da questa vicenda alla sua
autorevolezza è stato irreparabile. Così come quello subìto dalla scuola, che
contava su di lei per lo svolgimento di un servizio educativo qualificato. E a
questo danno ha molto contribuito la mancata solidarietà da parte dei suoi
colleghi, che hanno ritenuto irrilevante il massacro morale a cui è stata
sottoposta dai suoi alunni.
Ma ad uscirne massacrata
è stata soprattutto la nostra scuola, che ha visto legittimato da suoi
legittimi rappresentanti questo far west. Né sembra aver
migliorato la situazione complessiva la marcia indietro del consiglio di
classe. Alla debolezza delle ragioni che lo avevano portato a sottovalutare la
gravità della mancanza disciplinare dei loro alunni si è aggiunta quella della
subitanea resa al volere del ministro. Riesce difficile immaginare il valore
educativo di entrambi questi comportamenti. Sarà molto difficile a questi
professori parlare ai propri alunni di responsabilità e di coerenza.
Il rapporto tra
competenze e condotta nella scuola
Ma c’è una domanda che
quasi nessuno sembra essersi fatta: che cosa è cambiato con la nuova
valutazione? La risosta è semplice: nulla. I ragazzi sono stati e restano
promossi all’anno successivo, perché solo un voto di condotta inferiore al
6 avrebbe potuto compromettere l’esito del loro anno scolastico.
Fino al 1995 anche il 7
in condotta era causa di un automatico rinvio a settembre dello studente in
tutte le discipline. Poi, col nuovo Statuto degli studenti e delle studentesse,
voluto dal ministro Berlinguer, la correlazione tra profitto e condotta era
stata cancellata e la promozione era stata resa indipendente dal comportamento.
L’aveva ristabilita la Gelmini, portando però a 6 il voto minimo di condotta. E
questo voto è dunque sufficiente agli studenti di Rovigo per non avere alcun
inconveniente nella loro carriere scolastica.
Al di là del caso di
cronaca, è in gioco il senso che noi attribuiamo alla scuola. È chiaro che
sganciare l’andamento scolastico di un ragazzo dai suoi comportamenti, come a
suo tempo ha fatto Berlinguer, significa separare il problema dell’istruzione
da quello educativo. Si può essere studenti modello sul piano della competenza
nelle diverse discipline ed avere atteggiamenti problematici, se non
addirittura violenti, sul piano dei rapporti umani con i compagni e verso gli
stessi professori.
Se il sistema scolastico
deve occuparsi solo del primo aspetto, affinando le conoscenze degli alunni e
la loro capacità di utilizzarle nel modo più appropriato per far fonte ai
problemi – questo sono le competenze – l’eventuale divaricazione non
costituisce un problema. Ma allora essa deve chiaramente riconoscere di non
avere più come obiettivo la formazione di personalità mature e responsabili.
E allora non ci sono più
armi – soprattutto argomenti – per contrastare le diverse forme di bullismo che
oggi imperversano nelle nostre scuole e di cui anche internet è diventato uno
strumento particolarmente efficace. Ma, più profondamente, si rinunzia all’idea
di una cultura che sia anche “coltivazione” della persona, e innanzi tutto
della sua anima, per ripiegare sul modello di una conoscenza fondamentalmente
strumentale, buona per tutti gli usi, in base a scelte individuali e
insindacabili. La scuola diventa il luogo dove si imparano le lingue – che oggi
sono essenziali per entrare nel mercato del lavoro – , si affina la capacità di
ragionare, – molti giù riducono a questo l’insegnamento della filosofia –, ci
si addestra a fronteggiare le diverse esperienze, alternando scuola e lavoro o
facendo scambi culturali – ma non si apre l’orizzonte di fini condivisi o
almeno condivisibili a cui questi mezzi dovrebbero essere indirizzati.
Di fatto, è questo che è
accaduto, per una deriva culturale ed etica della nostra società che va al di
là delle scelte dei singoli ministri. Berlinguer non ha fatto che trarne le
conclusioni. E la Gelmini, andando in senso opposto, non ha potuto cambiare la
tendenza in atto. La ragione di questa crisi educativa è semplice: non si sa
più quali valori additare.
Un tempo la scuola era la
rigida tutrice di una scala di verità e di valori che rispecchiavano una
società in sostanza monolitica. C’erano i contrasti ideologici, ma sul piano
etico – come dimostrano gli scontri tra don Camillo e Peppone – esisteva ancora
una forte consonanza. Oggi, per reazione a quella omogeneità, che spesso era
anche escludente e intollerante, si intende la libertà come autonomia assoluta
dei singoli di fissare la scala delle loro preferenze.
I mezzi e i fini
Questo ha cambiato il
volto del nostro sistema scolastico. Mentre sul piano dei mezzi si sono fatti
enormi progressi – si pensi all’uso dei computer, alla pagella elettronica,
etc. – , di fini condivisi ne sono rimasti ben pochi. Da questo punto di vista
la situazione di questa agenzia educativa è peggiore di quella della famiglia,
dove è molto più facile che ci sia una convergenza su alcuni principi etici.
Nelle nostre aule ormai è difficile dire qualcosa che non possa esser
contraddetto, in nome della libertà di pensiero, da qualunque altro docente o dagli
stessi alunni. Tutte le idee sono legittime ma, proprio per questo, nessuna può
essere assunta come punto di riferimento comunitario.
Da qui anche la
difficoltà di considerare in base a una regola comune i diversi comportamenti.
In nome dei diritti la nostra società ha da tempo messo in secondo piano i
doveri. Come potrebbe la scuola seguire una strada diversa? Tanto più che di
essa, in senso lato, fanno parte i genitori, che in questi ultimi anni hanno
rotto il tradizionale patto di alleanza con gli insegnanti e scendono in campo
ad ogni occasione a difesa dei loro figli, arrivando perfino all’aggressione
fisica nei confronti dei docenti.
C’è da dubitare che, in
questo contesto, la recente introduzione di una materia che sostituisce l’antica
“educazione civica” e che dovrebbe ripresentare almeno i valori su cui poggia
la nostra Carta costituzionale possa cambiare radicalmente la situazione. La
stessa Costituzione, ormai, più che terreno dove ritrovare l’unità, si è
trasformata nel campo di battaglia delle interpretazioni, sempre in nome di
diritti. Difficile che da questo insegnamento derivi una svolta decisiva.
Se letto in questa luce,
l’episodio di Rovigo non è appare più soltanto un esempio di disattenzione e di
superficialità da parte di un singolo consiglio di classe, ma il sintomo
allarmante di una crisi di cui gli stessi docenti sono vittime e che li ha
espropriati – a volte con il loro più o meno consapevole consenso – del ruolo
di educatori. Ora la vicenda sarà presto dimenticata. Ma è chiaro che i
problemi che pone non possono essere elusi e meritano una presa di coscienza
collettiva che vada al di là del singolo episodio. Di cui forse vale la pena di
continuare a parlare. Se non altro per chiederci se ci sono ancora dei fini che
possiamo sperare che la scuola proponga ai nostri figli.
* Responsabile
del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, Scrittore
ed Editorialista.
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